Rinnovare la democrazia: oltre la forma, dentro la prassi

Riflessione gramsciana sul senso e il vuoto del referendum disertato

Tiziano Bordoni

C’è un articolo di Gramsci, noto e sempreverde, che torna a bruciare nelle coscienze di chi
ha a cuore non solo la storia, ma il presente e il futuro del movimento operaio. “Il suffragio
universale”, pubblicato nel 1919 su L’Ordine Nuovo, smaschera con lucidità la vacuità di
una democrazia puramente formale, inchiodando la borghesia liberale alla sua
contraddizione più profonda: quella di voler apparire progressista mentre depotenzia ogni
effettiva partecipazione popolare.
Oggi, a distanza di oltre un secolo, quelle parole sembrano scritte ieri. Il recente referendum
sui diritti del lavoro – nella sua marginalizzazione mediatica e nel livello partecipativo
drammaticamente basso – ci parla di una crisi profonda, non solo della rappresentanza, ma
anche della coscienza collettiva e dell’organizzazione politica.

Non si tratta solo di biasimare l’apatia. Sarebbe ingiusto e miope. Si tratta di interrogarsi su
come sia stata svuotata di significato, per troppe persone, la stessa idea di partecipazione.
Come ci ricorda Gramsci, «la forma politica più ampia, il suffragio universale, può servire alla
reazione se le masse popolari non hanno la possibilità concreta di esprimere una volontà
autonoma e organizzata».
A. Gramsci, “Il suffragio universale”, in L’Ordine Nuovo, 1919, ora in Id., L’Ordine nuovo
1919-1920, a cura di V. Gerratana e A. A. Santucci, Torino, Einaudi, 1987
Questo è il punto: la volontà organizzata. Senza di essa, anche gli strumenti più democratici
si svuotano di senso.
Se la sinistra, quella che non vuole rassegnarsi al ruolo di nota a piè pagina del presente,
vuole ritrovare forza reale, deve ripensare gli strumenti e le forme della propria
organizzazione. Serve una nuova militanza che non abbia bisogno di medaglie accademiche
per ottenere la patente di dirigente, né di nomine honoris causa per accreditare chi non ha
attraversato, con il corpo e con l’intelligenza, le contraddizioni reali del mondo del lavoro.
Troppi organismi rischiano di diventare gusci vuoti quando perdono il contatto con le
contraddizioni reali del mondo del lavoro. È un rischio serio. E se non lo diciamo noi,
compagni, chi altri dovrebbe farlo?
Chi ha a cuore la storia del PCI – la sua identità di partito di massa, radicato nel territorio,
nella scuola, nelle fabbriche, nei quartieri – non può che sentire l’urgenza di un
rinnovamento non di facciata, ma profondo. Un rinnovamento che non rinunci alla teoria, che
non abiuri la complessità, ma che proprio grazie alla teoria riacquisti il senso della prassi:
l’agire comune e cosciente che modifica la realtà.
Gramsci, Togliatti, Berlinguer – e con loro intere generazioni di militanti – non ci hanno
insegnato a contemplare la sconfitta, ma a prepararci a riconquistare l’iniziativa. Non si tratta
di rievocare un passato glorioso per consolazione. Si tratta di trarne forza, metodo, spirito.
Come Togliatti scriveva nel 1944, si tratta di “cominciare a rifare un popolo”.
È questo il compito. È questo il discrimine tra chi si rifugia nel lamento e chi vuole costruire.
La democrazia non è una concessione dall’alto, ma una conquista quotidiana dal basso. Se
non vogliamo che diventi una parola vuota, dobbiamo ricostruire le fondamenta che la
sostengono: partecipazione, organizzazione, cultura politica, militanza attiva.
Che ogni occasione perduta, come questo referendum, ci serva da lezione. Ma non per
rinchiuderci nel cinismo. Piuttosto, per capire quanto lavoro ci sia ancora da fare. E per farlo insieme

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