Alla Bolognina si è chiusa la Repubblica

Michele Prospero, 21.01.2021

Profondo rosso. La generazione dei quadri post ’68 non ha assorbito il nucleo del togliattismo, ha
tenuto il realismo politico e ha rinunciato alla strategia di cambiamento. La svolta ha alzato un’onda
che alla lunga ha lesionato le stesse istituzioni
Prima ancora che i pezzi di muro lo graffiassero, il Pci aveva già subito una mutazione. L’inizio
anagrafico del partito risale al gennaio del ’21. E al mito dell’ottobre è connessa la formazione del
suo primo gruppo dirigente, per tanti versi eroico. Ma la nascita, per così dire, logica del soggetto
politico è databile solo 1944. Il congresso di Lione e altre fantasiose ricostruzioni di oggi, suggerite
pigramente dal Gramsci, c’entrano ben poco. Un partito clandestino in dottrina non è infatti
considerato un vero partito, o lo è in un senso molto sui generis. Un organismo deve partecipare al
voto competitivo, svolgere attività pubblica per essere una forma-partito.

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MORTE DEL PCI, MORTE DELLA POLITICA

Esattamente 30 anni fa, il 3 febbraio 1991, veniva posta fine alla vita del Partito comunista italiano. (In questo libro, “La morte del Pci”, recentemente ripubblicato da Bordeaux edizioni, ho raccontato come). Da allora, nonostante vari tentativi, a volte onorevoli, altre volte pateticamente plebei, le classi popolari del nostro paese non sono più riuscite a esprimere una rappresentanza politica che almeno ambisse a guidare il Paese in loro nome, a essere alternativa credibile e reale. Pian piano tutto il sistema dei partiti nostrano è stato triturato dalla borghesia nazionale e internazionale. I “tecnici”, i rappresentanti della mitica “società civile” (economisti, professori, imprenditori, avvocati, banchieri, finanzieri, avventurieri pronti a vendersi al primo sceicco arabo) hanno sostituito i politici, alternandosi alla guida del Paese. Le classi popolari hanno così perso potere, welfare, ricchezza, sicurezza, stabilità. Sono divenute un pugile suonato che tutti possono irridente e derubare. Trent’anni dopo, e cento anni dopo, sarebbe finalmente ora di creare nuovamente un forte, unitario, “arrogante” Partito comunista italiano di massa. Per organizzare la resistenza, per iniziare un’altra storia. Per far resuscitare la politica in Italia.

Cento anni dopo

IL PCI e la rivoluzione in occidente

di Paolo Ciofi

«Veniamo da molto lontano, e andiamo molto lontano» Queste parole di Palmiro Togliatti[1], il rivoluzionario costituente stratega della rivoluzione in Occidente, dal quale non si può prescindere ricordando il Pci, danno il senso di un percorso lungo e complicato, che dai primi passi di Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci si dipana poi lungo tutto il Novecento. Fino alla guida del partito da parte dello stesso Togliatti, cui seguiranno Luigi Longo ed Enrico Berlinguer.

[1] P. Togliatti, Per la sfiducia al IV governo De Gasperi 26 settembre 1947, in Discorsi parlamentari, Camera dei deputati 1984

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Il centenario del Pci: la resa dei conti degli storici anticomunisti

di Vindice Lecis  da Fuori Pagina del 6 gennaio 2021

Libri, articoli di giornale, interviste. Il centenario della nascita del Pci (21 gennaio 1921) sta conquistando più attenzioni di quanto si potesse supporre in questa Italia ormai priva dei partiti architrave della Repubblica e della Costituzione. Forse c’è stupore per il fatto che, pur non essendoci più il Pci, ancora si parli di quella straordinaria vicenda storica. Che appare ancora una materia viva. Ecco perché sono rievocazioni con molte valenze: si passa da lavori onesti, anche critici, a una resa di conti postuma. In questo secondo campo si distinguono i liberali, professionisti che non riescono a sfuggire dall’ossessione dei comunisti fornendo immagini deformate dalla lente di lettura figlia della guerra fredda. Ne vedremo qualcuna

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