Berlinguer e l’Europa, i fondamenti di un nuovo Socialismo

Come si costruisce una civiltà più avanzata di fronte alla crisi economico-sociale e democratica e della stessa idea di Europa, nel momento in cui la vittoria di Tsipras in Grecia reclama un generale cambiamento? Vale a dire: come può avanzare un nuovo socialismo nel Vecchio Continente? A queste domande si è cercato di dare una risposta proprio a partire dalle riflessioni sull’Europa di Enrico Berlinguer nel convegno che si è svolto a Roma venerdì 6 marzo. Promosso da Futura Umanità, Rosa Luxemburg Stiftung, Nicos Poulantzas Institute e dal Gue, nell’Auditorium di via Rieti si sono ritrovati a confronto esponenti politici, storici e intellettuali italiani, greci, tedeschi, francesi e spagnoli sotto il titolo “Berlinguer e l’Europa, i fondamenti di un nuovo socialismo”, a conferma che le riflessioni politiche del segretario del Pci, pur espresse in un’epoca storica ormai lontana, offrono un terreno fertile per seminare nuove idee e per affrontare i problemi oggi sul tappeto.

Come sottolineato da Paolo Ciofi nell’introduzione (LEGGI QUI), Berlinguer considerava «esaurite le due fasi del “movimento per il socialismo” fino ad allora conosciute, quella “scaturita dalla Rivoluzione di ottobre” e “quella socialdemocratica”», e dunque suggeriva di aprire «una terza fase, o una terza via “rispetto alle vie tradizionali della socialdemocrazia e rispetto ai modelli dell’Est europeo”». Di fronte a quella che il segretario del Pci definiva «una crisi di fondo del sistema», insufficiente risultava la riproposizione di politiche di stampo keynesiano che galleggiano nella sfera distributiva senza toccare la sostanza dei rapporti di proprietà. In altri termini, nel pieno dell’offensiva neoliberista di Reagan e Thatcher e agli albori della rivoluzione digitale che si veniva profilando, Berlinguer vedeva esaurirsi “la spinta propulsiva” della socialdemocrazia, di quel compromesso tra capitale e lavoro, che in cambio di una certa redistribuzione del reddito assicurava ai gruppi dominanti il mantenimento della propria posizione di potere. E quindi progettava un nuovo assetto di società in cui, nella connessione organica tra socialismo e democrazia, si potessero pienamente affermare i valori di libertà e uguaglianza, di solidarietà e di giustizia, come peraltro la Costituzione italiana prevede.
È attorno a questi concetti, ampiamente illustrati nella introduzione di Ciofi e nelle relazioni di Bierbaum, Liguori, Hobel, Golemis e Forenza che si è sviluppato un ricco e articolato dibattito. Al microfono si sono succeduti gli interventi di Casula, D’Agata, Streiff,Ferrara, de Masi, Garnier, Di Siena. Contributi scritti sono stati forniti da Greco, Lopez, Mola e Lussana. In conclusione si è convenuto di proseguire l’approfondimento e il confronto a livello europeo sui fondamenti di un nuovo socialismo e di una nuova sinistra in Europa. (Cliccando sui nomi potrete vedere i video degli interventi realizzati da LiberaTv)

Relazioni: 
PAOLO CIOFI
HEINZ BIERBAUM
ALEXANDER HÖBEL

Contributi scritti: 
DINO GREGO
GENNARO LOPEZ
FIAMMA LUSSANA
(*)pagina soggetta ad aggiornamenti. In attesa di ricezione ulteriori materiali.

Le voci dal convegno, interviste realizzate da LiberaTv

Berlinguer e l’Europa: i fondamenti di un nuovo socialismo | Paolo Ciofi

Introduzione di PAOLO CIOFI all’iniziativa internazionale “Berlinguer e l’Europa. I fondamenti di un nuovo socialismo”

1. Enrico Berlinguer è stato senza dubbio una delle personalità politiche più rilevanti nella seconda metà del Novecento. Soprattutto per aver posto nel cuore dell’Europa, non in termini di pura ricerca intellettuale bensì di lotta politica concreta che ha mobilitato milioni di donne e di uomini, il problema della costruzione di una civiltà più avanzata oltre le colonne d’Ercole dell’ordinamento del capitale, dichiarate invalicabili dalla dogmatica del pensiero dominante. Un «nuovo socialismo» e dunque, come Berlinguer stesso più volte ha sottolineato, una nuova gerarchia di valori, che abbia al centro l’uomo e il lavoro umano, che esalti «le virtù più alte dell’uomo»: la solidarietà, l’uguaglianza, la libertà, la giustizia. Forse il punto più alto toccato dalla politica europea nel secolo passato. E forse proprio perciò, in questo tempo buio di crisi del Vecchio Continente e della stessa idea di Europa, oggi maggiormente trascurato, nonostante le numerose e importanti iniziative che nel trentennale della morte hanno segnato in Italia un ritorno del suo pensiero e della sua alta visione della politica.
Il segretario del Pci è vissuto e ha lottato in un’altra epoca storica. Il partito comunista da lui guidato è stato messo in liquidazione più di vent’anni fa, l’Unione sovietica e il «socialismo realizzato» sono scomparsi dalla faccia della terra, gli Stati uniti e il capitalismo finanziario globalizzato hanno trionfato, mentre potenze emergenti come la Cina e l’India stanno oggi cambiando l’assetto geopolitico del mondo. Non si può dire però che nel mondo abbia trionfato il bene comune. Al contrario, il capitalismo del nostro tempo non è stato emendato dei suoi vizi e delle sue contraddizioni che sono esplose con inusitata virulenza, fino al punto da mettere in discussione la sicurezza stessa del genere umano, come di recente ha messo in luce anche Naomi Klein[1]. I fattori di instabilità e i rischi per la pace si moltiplicano. E in Europa, invece di avanzare sul terreno dell’unità politica e di più evolute forme di democrazia e di partecipazione, prevalgono indirizzi oligarchici di tecnoburocrazie al servizio dei gruppi dominanti del capitale, che diffondono disoccupazione, precarietà e malessere di massa, alimentando moderni fascismi, populismi e nazionalismi su cui crescono aberranti forme di violenza e terrorismo. Berlinguer torna di attualità oggi proprio perché i problemi del mondo e dell’Europa che voleva cambiare non solo persistono, ma per molti aspetti si sono drammaticamente aggravati. Per questa ragione, se l’intento che ci muove è quello di costruire un’altra Europa, è utile ripercorrere i passaggi più significativi del pensiero e della pratica politica del segretario del Pci. Non per nostalgiche e impossibili riviviscenze del passato, ma per riscoprire un metodo e impadronirci di chiavi di lettura che possono aprirci le porte all’interpretazione critica del presente, e quindi alla costruzione di un mondo nuovo e di una diversa Europa. A maggior ragione dopo la vittoria di Alexis Tsipras in Grecia, che ha acceso grandi speranze e rende ancora più urgente l’esigenza di un generale cambiamento in tutto il Vecchio Continente.

2. In un’intervista rilasciata a poche ore dalla morte che lo ha colto improvvisamente a Padova durante il comizio per le elezioni europee del 1984, interrogato sulla posta in gioco in quel voto, Berlinguer rispondeva: «Prima di tutto, la questione della “unità politica” dell’Europa. È proprio dalle file del gruppo comunista che è venuta la proposta più innovativa che sia stata fatta nel corso di questi cinque anni di vita del Parlamento europeo». Quella di Altiero Spinelli, allora vicepresidente del gruppo comunista e apparentati, che – chiariva Berlinguer – «propone […] di passare da un semplice “mercato comune” a una “unificazione politica dell’Europa” e di spostare l’asse del potere dai governi che hanno fatto soltanto […] compromessi tra di loro al Parlamento europeo eletto a suffragio universale»[2]. Dunque, un tema oggi quanto mai aperto e un passaggio democratico decisivo, allora sostenuto dal Pci di Berlinguer, per costruire l’Europa dei popoli e dei lavoratori. A sua volta, Altiero Spinelli osservava: «Senza la forza del Pci non avrei potuto condurre la mia battaglia europeista». Ma – aggiungeva – «si è trattato solo di un primo passo», e se il progetto dell’Europa unita verrà alla fine affidato non al Parlamento ma alle diplomazie e ai mercanteggiamenti tra i governi avremo «la liquidazione del progetto», come poi nei fatti è avvenuto. Quanto a Berlinguer, Spinelli osservava: «La sua iniziativa ed elaborazione politica vengono da lontano, ma è stato lui che ha portato a compimento, con rigorosa conseguenza, la saldatura tra democrazia e socialismo e una politica comunista tesa a conquistare un’Europa fatta dagli europei»[3].

3. Spinelli coglieva nel segno. Esattamente in questa saldatura, ossia nel nesso organico e inscindibile tra democrazia (come valore storicamente universale) e socialismo (come civiltà più elevata lungo il contrastato cammino di liberazione umana) si situa la visione europeista connessa a un «nuovo socialismo» per la quale ha lottato il segretario del Pci. Come egli stesso osserva, nel Pci e in diversi partiti comunisti d’Europa, pur con notevoli diversità di orientamento, «si è venuta affermando la convinzione che la lotta per il socialismo e la sua costruzione debbano attuarsi nella piena espansione della democrazia e di tutte le libertà». Ed «è questa – precisa – la scelta dell’eurocomunismo»[4]. Vale a dire di un’impostazione che, senza cancellare il valore della rottura storica rappresentata dalla rivoluzione dell’ottobre 1917, intendeva aprire un altro percorso e un’altra prospettiva al socialismo in Occidente. Riprendendo e rinnovando le elaborazioni di Gramsci e di Togliatti, che nell’impianto della Costituzione della Repubblica democratica fondata sul lavoro hanno trovato originali e significativi riferimenti, in effetti Berlinguer apriva un orizzonte nuovo nei punti alti del capitalismo in crisi. Come mai prima di allora era avvenuto, il segretario del Pci andava delineando un processo rivoluzionario di trasformazione della società del tutto inedito, da realizzarsi nello sviluppo pieno della democrazia e della legalità costituzionale. Già nel 1969, quando ancora non era segretario del partito, a Mosca aveva respinto «il concetto che possa esservi un modello di società socialista unico e valido per tutte le situazioni»[5]. Nella sua visione innovativa era chiara e irreversibile l’impraticabilità in Occidente del modello del socialismo sovietico realizzato ad Oriente, che poi sarebbe crollato. Ma d’altra parte, la crisi delle società capitalistiche in Occidente, che veniva alla luce già negli anni 70, portava Berlinguer a concludere, in modo altrettanto chiaro e irreversibile, che il modello da seguire non poteva essere quello della socialdemocrazia. Non da pregiudizi ideologici, bensì dall’analisi della crisi nei punti alti del sistema scaturiva secondo Berlinguer «la necessità di uscire dal capitalismo e di andare verso una società superiore». Giacché anche nei Paesi dove i partiti socialdemocratici erano al potere da decenni, nonostante significative conquiste sociali e le protezioni del welfare, egli vedeva«tutti i segni tipici della crisi di fondo delle società “neocapitalistiche”». Una crisi che si manifestava non solo nei disagi materiali di grandi masse ma anche nella diffusa condizione di alienazione dell’individuo, in quella «che si potrebbe definire […] l’infelicità dell’uomo di oggi»[6]. Perciò occorreva ricercare e battere vie del tutto nuove. Analizzando i profondi cambiamenti che vengono alla luce nell’economia mondiale dei primi anni 70 con la svalutazione del dollaro e poi con la crisi petrolifera, e che si intrecciano con il moto di liberazione dei Paesi in via di sviluppo culminato con la vittoria del piccolo Vietnam sul colosso Usa, dopo che Salvador Allende era stato abbattuto in Cile da un golpe fascista, Berlinguer giunge alla conclusione che il mondo si trova di fronte a una «crisi di tipo nuovo». Non già a una ricorrente crisi ciclica del capitale. Esplodono – osserva – le contraddizioni intrinseche ai meccanismi economici e sociali che hanno caratterizzato lo sviluppo post-bellico dei Paesi capitalistici più progrediti, e la crisi non è solo economica, ma investe nell’insieme i rapporti sociali, la politica, la cultura, le relazioni internazionali. «Ciò non significa – precisa – che il capitalismo è vicino al suo crollo o è senza via d’uscita». Però «sta di fatto che la crisi attuale non è superabile come quelle precedenti» e richiede «trasformazioni profonde, anche di tipo socialista»[7].

4. Il giudizio di Berlinguer è netto. In definitiva, con l’esaurimento del ciclo espansivo cominciato dopo la seconda guerra mondiale (i cosiddetti “trenta gloriosi”) si esaurisce anche la spinta propulsiva della socialdemocrazia. E va in crisi il compromesso che in cambio di una condizione di elevata occupazione e di migliori livelli di vita, da ottenere attraverso la redistribuzione del reddito e l’incremento della spesa pubblica, assicurava ai gruppi dominanti del capitale la direzione dell’economia e della società. In altri termini, di fronte alla contraddizioni esplosive del capitale nella fase della sua globalizzazione finanziaria, le tradizionali vie socialdemocratiche non sono più percorribili. Berlinguer ci dice che non basta la critica al neoliberismo come ideologia della dittatura del capitale sul lavoro. C’è bisogno di una critica al modo di essere e alla natura del capitale. Anche perché, di fronte a quella che considera una crisi di fondo del sistema, appare del tutto insufficiente la riproposizione di tradizionali politiche di tipo keynesiano che galleggiano nella sfera distributiva senza toccare la sostanza dei rapporti di produzione, ossia i rapporti di proprietà. Ignorando che il capitale non è una “cosa”, un dato “naturale” al di là del tempo e dello spazio, un semplice accumulo di merci e di strumenti finanziari e tanto meno un algoritmo, bensì un rapporto sociale in continua mutazione ma storicamente determinato, che si instaura tra chi vende le proprie abilità fisiche e intellettuali in cambio dei mezzi per vivere e chi le compra per ottenere un profitto. Un rapporto sociale sempre sottoposto a tensioni, ma che nel mondo di oggi si manifesta nella contraddizione drammatica tra sfruttati e sfruttatori, portando in primo piano una questione per principio ignorata: la questione proprietaria. Come il segretario chiarisce nel rapporto al Comitato centrale del Pci il 10 dicembre 1974, «le radici delle ineguaglianze, delle ingiustizie e dello sfruttamento nei rapporti internazionali, tra popoli e Stati, sono nella divisione in classi sfruttatrici e sfruttate, al di sopra delle frontiere». «La piramide di tutto il complesso della divisione, dell’oppressione e dello sfruttamento – tra classi e tra interi Paesi – ha per base i rapporti proprietari e di produzione capitalistici, con i quali in parte si sono fusi i rapporti proprietari e di produzione agrari di origine precapitalistica e di tipo feudale”[8]. Non è superfluo ricordare che nel Manifesto di Ventotene per un’Europa libera e unita, redatto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, la questione proprietaria è ben presente. La «rivoluzione europea» – vi si legge – «dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi la emancipazione delle classi lavoratrici» affrontando il nodo della «proprietà privata», che «deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio»[9]. Una formula di grande interesse che richiama alla memoria quella di un altro manifesto, il Manifesto di Marx ed Engels, secondo cui «il comunismo non toglie a nessuno la facoltà di appropriarsi dei prodotti sociali; toglie soltanto la facoltà di valersi di tale appropriazione per asservire lavoro altrui»[10]. Resta il fatto, peraltro oggi di pubblico dominio, che non solo i liberali ma anche i socialdemocratici, pur di fronte a una crisi che porta alla luce la natura distruttiva e il limite storico del capitalismo, non hanno manifestato alcuna intenzione di mettere in discussione e di superare il rapporto sociale che riproduce il capitale, al di là delle diverse forme in cui il capitale si manifesta. E dunque di misurarsi con il presupposto della proprietà e dell’accumulazione capitalistica, che è all’origine dei drammi del mondo contemporaneo. Gli uni e gli altri, sebbene con motivazioni diverse, hanno lavorato per difendere, tutelare, coccolare il capitalismo, anche nelle sue forme più deteriori e speculative. Significative, da questo punto di vista, le “riforme” del lavoro adottate dal governo Schröder e predisposte dal capo del personale della Volkswagen. O le misure fiscali con le quali, durante la crisi ancora in corso, il socialista Gordon Brown, erede di Tony Blair, ha spinto l’ascesa della grande finanza e della city in perfetta sintonia con il pensiero neoliberista. Del resto, come è stato notato da chi se ne intende, «senza Thatcher non si diventa Blair»[11]. Per cui appare del tutto appropriato il giudizio tagliente e definitivo di Oskar Lafontaine: «Socialismo e socialdemocrazia hanno finito per sposare i dogmi del mercato e della filosofia neoliberale»[12].

6. All’opposto, il tentativo di Berlinguer è stato proprio quello di misurarsi con il rapporto sociale di sfruttamento della persona umana che caratterizza il capitale, sulla cui base è stata eretta la società ingiusta e alienante in cui oggi viviamo. Come, perché e per chi produrre? Viene al pettine, al di là della distribuzione della ricchezza che in ultima analisi ne è l’effetto, il nodo stringente della finalità del produrre e del consumare, e quindi dell’uso delle risorse, umane e naturali, e della loro accumulazione e proprietà. A maggior ragione in presenza di una rivoluzione scientifica e tecnologica, che cambiando il modo di produrre, di lavorare e di vivere non è più contenibile dentro le vecchie forme proprietarie. E mette in discussione l’appropriazione privatistica dei frutti del lavoro sociale, nonché la conduzione autoritaria dell’impresa, dell’economia, della società. Nel famoso discorso al teatro Eliseo di Roma, il 15 gennaio del 1977, Berlinguer afferma: «Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo»[13]. E ciò richiede, come dirà in seguito, «un intervento innovatore nell’assetto proprietario, tale da spingere materialmente la struttura economica» verso il soddisfacimento dei grandi bisogni dell’uomo e della collettività[14]. Un’operazione inevitabile, peraltro prevista dalla Costituzione italiana del 1948, per aprire la strada a un socialismo nuovo, a una soluzione socialista diversa da ogni modello esistente. Esaurite le due fasi del «movimento per il socialismo» finora ad allora conosciute, quella «scaturita dalla rivoluzione di ottobre» e «quella socialdemocratica», secondo Berlinguer «si tratta di aprirne un’altra e di aprirla, prima di tutto, nell’Occidente capitalistico». Dunque, una terza fase, o una terza via: «la terza via appunto rispetto alle vie tradizionali della socialdemocrazia e rispetto ai modelli dell’Est europeo». «Una ricerca – aggiunge – nella quale vediamo impegnati non solo alcuni partiti comunisti, ma anche alcune delle socialdemocrazie, o almeno, alcuni settori della socialdemocrazia»[15]. In campo economico, «la terza via», secondo la visione berlingueriana, rifiuta la sovranità totalitaria del mercato ma anche la statizzazione integrale dei mezzi di produzione. E si incardina invece sulla combinazione di diverse forme di proprietà – pubblica, privata, cooperativa, comunitaria; sul governo democratico del mercato come misuratore di efficienza e sulla democratizzazione dell’impresa; su una pianificazione strategica al tempo stesso flessibile, volta ad assicurare un’alta capacità produttiva e il benessere sociale. «In altri termini, sostiene il segretario del Pci, il quadro attuale del capitalismo […] – per un verso scuote nel profondo le illusioni neocapitalistiche, e ripropone la prospettiva e la necessità storica del socialismo; – per altro verso, nell’immediato, rende urgente una programmazione democratica dell’economia nei singoli Paesi capitalistici e una cooperazione internazionale, lungo una linea che non è ancora quella del socialismo, ma già esce fuori dalla logica del capitalismo e muove nella direzione del socialismo». In questo percorso, nel quale «il socialismo ci guarda da ogni finestra del capitalismo moderno»[16], è necessario e possibile realizzare la più ampia unità e collaborazione di forze sociali, culturali e politiche.

7. Il pensiero e la strategia di Berlinguer hanno una dimensione globale, ma l’epicentro della sua azione è l’Europa. Nel discorso pronunciato 18 luglio del 1979 nella prima seduta del Parlamento europeo eletto a suffragio universale, senza nascondere le diversità di posizioni con altri partiti comunisti, egli sottolinea la necessità di «sostanziali convergenze» nell’impegno volto a far avanzare nel mondo «la funzione di pace, di cooperazione e di progresso di un’Europa nuova, nella quale il socialismo – un socialismo nella libertà – si affermi come la via maestra per arrestare il declino di questa parte del nostro continente […] e per rinnovarne profondamente le strutture, i modi di vita, le classi dirigenti»[17]. «Al movimento operaio dell’Europa occidentale – aveva precisato qualche mese prima – spetta il compito storico di cogliere in tutta la sua portata la dimensione di questo processo e di farsi forza propulsiva e dirigente della costruzione di un’Europa comunitaria democratica, progressista e pacifica, che muove in direzione del socialismo»[18]. Un’impostazione che sarà confermata e arricchita nella relazione al XVI congresso del Pci nel marzo 1983 – l’ultimo al quale Berlinguer ha partecipato prima della morte -, dove sostiene che le idee e le pratiche del socialismo devono radicalmente rinnovarsi perché, in presenza di diversi fattori che interagiscono contestualmente sullo scenario globale, «la storia umana – e per i pericoli e per le possibilità – è giunta a un momento per certi aspetti supremo del suo cammino». Tali fattori li individuava in sintesi come segue. La tendenza alla sostanziale unificazione su scala mondiale della vicendadell’umanità, in cui sono ugualmente coinvolti i Paesi ad alto sviluppo capitalistico e i Paesi del “terzo” e “quarto” mondo. La rivoluzione scientifica e tecnologica, che produce effetti sconvolgenti sui modi di lavorare e di vivere e quindi «sulla politica, e sull’attività dei suoi organismi (partiti e Stati)». Il mutato carattere della guerra, che, con l’uso delle armi atomiche e termonucleari e di altre armi di sterminio in caso di deflagrazione di un conflitto tra Usa e Urss, «porterebbe alla distruzione dell’intera civiltà umana»[19]. Un rischio, questo, che Berlinguer vedeva accrescersi in conseguenza dell’inasprimento delle tensioni alimentate dalla guerra fredda. E che quindi imponeva un’iniziativa prioritaria sul terreno della sicurezza e della distensione, per affermare una pace stabile e duratura. Premesso che la lotta per la pace non elimina la lotta di classe, ma non coincide con essa perché potenzialmente è molto più ampia e pone la stessa lotta delle classi subalterne su un terreno più avanzato, Berlinguer ritiene che l’Europa, un’Europa «né antisovietica né antiamericana», possa giocare un ruolo da protagonista per far avanzare un processo di coesistenza pacifica e di distensione tra i due blocchi.

8. Nella sua visione la coesistenza non è la presa d’atto e il consolidamento dello statu quo, vale a dire della spaccatura del mondo in due. Bensì un processo dinamico, volto al superamento dei blocchi contrapposti attraverso l’isolamento delle forze dell’imperialismo bellicista e delle politiche di potenza. Ciò che comporta lo smantellamento delle basi militari in un complessivo processo di disarmo bilanciato, nel quale siano garantite la libera autodeterminazione di ogni popolo e la piena sovranità di ogni Stato. Una visione di grande dinamicità a tutto campo: che delinea un nuovo internazionalismo e ricerca punti di incontro e di azione comune con altre forze; mentre considera decisivo il rapporto Nord-Sud, in cui l’Europa gioca un ruolo centrale come porta aperta sul Mediterraneo; e perciò mira al consolidamento dei rapporti con i movimenti di liberazione e con i Paesi di recente indipendenza. Nella difficile e contrastata lotta per far avanzare l’Europa verso la conquista della sua autonomia, che avrebbe potuto portare a esiti imprevedibili nella configurazione del mondo, Berlinguer si incontra e interagisce con le posizioni più avanzate della socialdemocrazia, espresse allora da Olof Palme e da Willy Brandt con la sua ostpolitik. Un rapporto segnato da alti e bassi, che entra in crisi quando il leader della socialdemocrazia tedesca e capo del governo cede alle pesanti pressioni dell’amministrazione Nixon, dimettendosi e lasciando l’incarico a Helmut Schmidt. Il cancelliere del riallineamento europeo all’egemonia degli Usa, che nel 1976 fu tra i più accesi sostenitori del veto americano all’ingresso del Pci nel governo del Paese. Solo negli anni seguenti si riannoderà un dialogo proficuo con la socialdemocrazia, o più precisamente con una parte di essa. Berlinguer, che aveva ipotizzato un governo mondiale come espressione di un diverso ordine geopolitico, riallacciandosi al Rapporto Brandt del 1980, propone una Carta della pace e dello sviluppo «che abbia al centro il tema di un nuovo rapporto tra Nord e Sud del mondo, dell’interdipendenza e della cooperazione dei popoli, della equa distribuzione delle risorse: del cibo, dei capitali, delle risorse energetiche»[20]. Molto attento alla realtà dei rapporti di forza, il segretario del Pci sostiene che il superamento dei blocchi contrapposti, e a maggior ragione l’uscita unilaterale dalla Nato, non si può porre come pregiudiziale nell’Europa divisa in aree d’influenza tra Usa e Urss, ma si può ottenere solo se va avanti il processo di distensione. Quindi, più che un presupposto, in presenza di due superpotenze dotate di armi di distruzione totale, è un obiettivo da perseguire con un movimento reale e con adeguate iniziative che portino a un progressivo allentamento delle rigidità dei blocchi militari, fino al loro scioglimento e all’affermazione di un nuovo ordine mondiale. Il vero problema, allora, è nell’immediato «come si sta nel Patto Atlantico e quale politica debbono fare il Patto Atlantico e la Nato»[21], lottando per ottenere la riduzione degli armamenti e la soluzione negoziata dei conflitti.

9. Essenziale, in questo processo che comporta una vasta convergenza di forze democratiche e progressiste, è elevare il movimento operaio in Europa al ruolo di classe dirigente. Giacché solo la messa in mora dei vecchi e screditati gruppi di comando e l’avanzata di forze nuove potranno arrestare, nella visione di Berlinguer, il declino dell’Europa occidentale restituendole una funzione di primo piano nel progresso della civiltà e nel far avanzare uno nuovo sviluppo del socialismo. Sul punto, il giudizio del segretario del Pci è molto chiaro: il socialismo ha bisogno di un generale e profondo rinnovamento. Le sue parole, pronunciate nel marzo 1983, hanno la forza della denuncia e dell’indicazione di un programma d’azione, che con la tempra del combattente Berlinguer aveva cominciato ad attuare anche nel suo stesso partito, ma che la morte inaspettata, colpendolo all’improvviso, gli ha impedito di portare a compimento. «Dal generale panorama dell’epoca nostra – afferma – emerge […] la necessità di portare avanti la lotta per il socialismo su scala mondiale e nei singoli Paesi. Ma emerge anche la necessità di un grande rinnovamento del socialismo. E’ questo il problema che ci appassiona e che il Pci ha posto al centro del suo impegno teorico e pratico. Rinnovamento all’est e all’ovest; al nord e al sud. Generale è l’esigenza di approfondire la comprensione dei tempi attuali e di ridare vita a quella creatività che è la linfa di ogni teoria e prassi rivoluzionaria»[22]. Dunque, rinnovamento in tutti i campi. Che deve muovere dal principio teorico e ideale secondo cui per liberare l’uomo, «perché egli possa affermare in modo pieno la sua dignità di persona, è necessario un processo generale di trasformazione della società e del potere, ossia un processo rivoluzionario che, avanzando anche gradualmente, non lasci indietro né sfruttati, né subalterni, né discriminati, né emarginati, né diseredati per principio o per destino»[23]. Ciò significa che la politica deve sapersi misurare con la nuova dimensione della questione sociale e della questione ambientale, entrambe alimentate da un unico meccanismo di sfruttamento; che il patrimonio teorico e ideale dei comunisti e del movimento operaio deve saper riconoscere la portata dei nuovi movimenti, in particolare delle istanze rivoluzionarie indotte dalla differenza femminile; che non si possono sottovalutare le spinte al cambiamento provenienti da ispirazioni culturali diverse, come quelle di matrice cristiana.

10. Sulle lotte e sulle prospettive del movimento dei lavoratori in Europa – sottolinea il segretario del Pci – pesano fortemente le divisioni, le difficoltà e le resistenze a realizzare una politica di maggiore integrazione e di effettiva autonomia, facilitando con ciò la linea neoliberista di Reagan e di Thatcher che assesta duri colpi all’economia e alle conquiste sociali del Vecchio Continente, ridisegnando la configurazione delle classi sociali e ponendo su nuove basi il conflitto capitale-lavoro. Prioritaria, in queste condizioni, diventa l’esigenza di allargare le «basi sociali del movimento per una trasformazione socialista»[24], oltre la classe operaia e il movimento operaio tradizionalmente intesi. Questa, a mio parere, è una delle intuizioni di Berlinguer di maggior rilievo teorico e pratico, tuttora di grande attualità. La ricerca, secondo la sua analisi, va condotta in due direzioni. Da una parte, verso le masse crescenti degli esclusi dal lavoro, che il meccanismo di sfruttamento capitalistico, giunto all’apice del suo dominio, pone ai margini della società in posizione di perenne subalternità, precarietà e incertezza. Dall’altra, in direzione di quelle nuove figure professionali del lavoro intellettuale e di ricerca (i camici bianchi) che la rivoluzione scientifica e digitale, mentre riduce il peso numerico della classe operaia tradizionalmente intesa (le tute blu), porta alla ribalta nella «lotta per la trasformazione della società» in quanto sfruttate «dalla appropriazione privata del profitto»[25]. Si tratta di una questione cruciale, che oggi, di fronte alla frantumazione che alimenta la guerra tra “garantititi” ed “esclusi”, propone in termini del tutto inediti l’unificazione del lavoro salariato ed eterodiretto, di tutti coloro, uomini e donne, che per vivere devono lavorare. Un’area molto vasta e dai confini incerti, dove, come è stato giustamente notato, «non c’è un solo protagonista – il knowledge worker o il precario o l’erede metropolitano dell’operaio massa – ma l’insieme delle figure lavorative»[26]. Ed è proprio qui, su questo terreno, che la sinistra gioca una partita decisiva nella costruzione di un’altra Europa. Se costruire una civiltà più elevata, ossia un nuovo socialismo, vuol dire lottare per il «superamento di ogni forma di sfruttamento e di oppressione dell’uomo sull’uomo, di una classe sulle altre, di una razza sull’altra, del sesso maschile su quello femminile, di una nazione su altre nazioni» assicurando «la pace fra i popoli, il progressivo avvicinamento tra governanti e governati, la fine di ogni discriminazione nell’accesso al sapere e alla cultura»[27], come egli stesso chiarisce, allora da Berlinguer e dalle sue analisi occorre riprendere il cammino. Nelle condizioni di oggi, appare sempre più chiaro che per la costruzione di un’altra Europa è indispensabile la presenza e l’affermazione in tutto il continente di una libera a forte coalizione politica dei nuovi lavoratori del XXI secolo, con caratteristiche popolari e di massa. All’inizio di questo nostro travagliato secolo, le parole del segretario del Pci, pronunciate nel 1984, appaiono profetiche: «Si parla ormai di fallimento della Comunità. C’è chi raccomanda di tornare indietro all’Europa delle patrie. Ma non è pensabile che la via d’uscita dalla crisi della Comunità europea possa consistere nel ripiegamento di ogni singolo Stato nella sua peculiare identità. Una frammentazione dell’Europa in Stati nazionali costituisce, contrariamente a quanto avvenne nel secolo scorso, un freno allo sviluppo, alla crescita della civiltà in Europa e anche alla crescita della civiltà su tutto il pianeta. L’Europa dei popoli e dei lavoratori è l’unica Europa possibile»[28]. Questa è esattamente la questione strategica che sta di fronte a noi. E i segnali che vengono dalla Grecia e dalla Spagna ci dicono che si può aprire un percorso nuovo.


[1]
[1] Naomi Klein, Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile, Rizzoli, Milano 2015

[2]
[2] L’intervista di Enrico Berlinguer è stata ripubblicata dal Fatto Quotidiano il 19 maggio 2014

[3]
[3] Intervista di Altiero Spinelli a Romano Ledda, L’Unità, 11giugno 1984

[4]
[4] E. Berlinguer, Relazione al XV congresso del Pci, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 37.

[5]
[5] E. Berlinguer, Un’altra idea del mondo, Antologia 1969-1984 a cura di P. Ciofi e G. Liguori, Editori Riuniti university press, Roma 2014, p. 58

[6]
[6] Ivi, pp.131, 130

[7]
[7] E. Berlinguer, Rapporto e conclusioni al CC e alla CCC in preparazione del XIV congresso del Pci, in La questione comunista, Editori Riuniti, Roma !975, p. 827

[8]
[8] Ivi, p.844

[9]
[9] A. Spinelli, E. Rossi, Il manifesto di Ventotene, Mondadori, Milano 2014, pp. 26, 27

[10]
[10] K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 71

[11]
[11] Il Foglio, 16 dicembre 2013

[12]
[12] Il Fatto Quotidiano, 5 maggio 2014

[13]
[13] E. B., Un’altra idea del mondo, cit., p. 160

[14]
[14] Ivi, p. 201

[15]
[15] Ivi, pp.175, 179

[16]
[16] E. Berlinguer, Rapporto e conclusioni al CC…, cit.pp.827-28, 843

[17]
[17] E. Berlinguer, Discorsi al Parlamento europeo, Editori Riuniti, Roma 2015, pp. 21-22

[18]
[18] E. Berlinguer, Relazione al XV congresso…, cit., p. 36

[19]
[19] E. Berlinguer, Relazione al XVI congresso del Pci, Editori Riuniti, Roma 1983, pp. 22,23

[20]
[20] Alexander Höbel, Berlinguer e la politica internazionale, in Critica marxista, n. 3-4 2014. Vedi anche: Raffaele D’Agata, Jalta e oltre. Sicurezza collettiva, stabilità geopolitica e prospettiva socialista, Ciclostilato; Fiamma Lussana, Il confronto con le socialdemocrazie e la ricerca di un nuovo socialismo nell’ultimo Berlinguer in Francesco Barbagallo e Albertina Vittoria, Enrico Berlinguer, la politica italiana e la crisi mondiale, Carocci, Roma 2007

[21]
[21] E. Berlinguer, Relazione al XVI congresso del Pci, cit., p. 27

[22]
[22] Ivi, p.32

[23]
[23] Ivi, p.38

[24]
[24] Ibidem, p. 36

[25]
[25] Cit., p. 36

[26]
[26] Benedetto Vecchi, il manifesto, 11 novembre 2014

[27]
[27] E, Berlinguer, Un’altra idea del mondo, cit., p.306

[28]
[28] Critica Marxista, 1984

Enrico Berlinguer parlamentare europeo. Il dialogo con Altiero Spinelli

Relazione di Alexander Höbel al convegno “Berlinguer e l’Europa. I fondamenti di un nuovo socialismo”, Roma, 6 marzo 2015

1. Antefatti. Le premesse di un dialogo

A differenza di altri leaders italiani eletti a Strasburgo […] Berlinguer prendeva sul serio il suo mandato. Nonostante gli impegni in Italia, veniva abbastanza spesso e interveniva. Ascoltava, si informava seriamente, poi scriveva di suo pugno gli interventi. Erano discorsi che lasciavano il segno. […] quel che diceva obbligava a pensare.

Con queste parole Altiero Spinelli, intervistato sulla figura di Enrico Berlinguer poco dopo la morte del leader comunista, ne ricordava l’impegno di parlamentare europeo [Maggiorani-Ferrari 2005, pp. 330-331]. A Strasburgo Berlinguer era entrato nel 1979, a seguito delle prime elezioni a suffragio universale per il Parlamento europeo; e nella stessa occasione Spinelli era stato eletto come indipendente nelle liste del Pci.

Il terreno su cui era avvenuto il riavvicinamento tra Spinelli e il partito da cui era stato espulso nel 1937 [Spriano 1970, p. 169; Graglia 2008, pp. 122-123] – ha scritto Paolo Ferrari – era stata “la riflessione su come superare gli squilibri socio-economici del pianeta attraverso dinamiche democratiche e di partecipazione popolare”, che Spinelli applicava innanzitutto alla Comunità europea e alle sue istituzioni. Nella ritrovata sintonia, dunque, pesa anche “l’attenzione che Berlinguer pone alla scala mondiale come livello al quale affrontare i problemi globali” [Ferrari 2007, pp. 209-210; cfr. Pasquinucci 2000, pp. 270 sgg.]. Quanto alla Comunità europea, già negli anni Sessanta Spinelli ne aveva criticato l’eccessivo schiacciamento sulla dimensione atlantica, auspicando una netta distinzione dei due ambiti[1].

Il primo incontro tra Berlinguer e Spinelli avviene nel gennaio 1974 a Bruxelles, dove il Segretario del Pci si trova per la Conferenza dei partiti comunisti occidentali. A luglio c’è un altro colloquio, e a settembre Spinelli partecipa alla tavola rotonda sull’Europa del festival dell’“Unità”. Pur muovendo da posizioni diverse, sia il leader federalista sia il Pci puntano a una democratizzazione delle istituzioni europee e a un loro rafforzamento, che consenta loro di confrontarsi con la crisi economica, col peso delle multinazionali, con la questione del controllo dei capitali, coi problemi energetici: tutte questioni che richiedono vere e proprie “riforme di struttura” che i singoli Stati stentano ad attuare e che dunque necessitano di una dimensione sovranazionale, la quale però sia legittimata sul piano democratico e profondamente rinnovata [Ferrari 2007, pp. 212-214, 191].

È questa la linea che Berlinguer espone a Tindemans, il primo ministro belga incaricato di elaborare un progetto relativo all’Unione Europea, nell’ottobre ’75. Per il leader comunista, “è necessario porre su nuove basi il processo di integrazione comunitaria”, e i punti principali sono quattro: “l’autonomia della Comunità sul piano internazionale”, il che significa l’emancipazione della Cee dagli Stati Uniti; “il suo riequilibrio interno”, il che vuol dire puntare sullo sviluppo delle aree e dei paesi meno avanzati; “la sua democratizzazione”; e infine “l’apertura verso l’esterno”, ossia verso i paesi socialisti e il Sud del mondo [Ferrari 2007, pp. 195-196].

È in questo quadro che matura la proposta di candidatura al Parlamento italiano che il Pci fa a Spinelli per le elezioni del 1976. La proposta, presentata in prima battuta da Amendola, è illustrata a Spinelli da Berlinguer in un incontro a Botteghe oscure. Per il leader federalista, “è la prova che il Pci vuole battersi veramente per l’Europa” [Maggiorani-Ferrari 2005, pp. 57, 64-65, 329-330]. E questa interpretazione è confermata anche da parte comunista[2]. Eletto alla Camera come indipendente nelle liste del Pci, Spinelli presiederà il Gruppo misto. Al tempo stesso rientra nella delegazione italiana al Parlamento europeo, dove invece si iscrive al Gruppo comunista [Mura 2006, pp. 56-57].

Il dialogo tra Berlinguer e Spinelli verte dunque essenzialmente sulle questioni europee. Nell’ottobre 1977 Spinelli scrive al Segretario comunista riguardo alla conferenza stampa del Movimento federalista europeo sulle elezioni per il Parlamento di Strasburgo a cui sono stati invitati i segretari dei partiti. Berlinguer ha incaricato Galluzzi, e Spinelli rileva che sarebbe “il solo segretario generale assente”, e si può ben “immaginare come la [s]ua assenza sarebbe commentata”. Nella sua risposta, Berlinguer ribadisce che la riunione del Comitato Centrale gli impedisce di partecipare alla Conferenza stampa. Ma – aggiunge – “non vedo come un’assenza così motivata possa dar luogo a interpretazioni […] in netta contraddizione con le posizioni assai nette che abbiamo assunto sul problema delle elezioni del Parlamento europeo”[3].

Il Pci, infatti, superate le resistenze dei comunisti francesi, si è schierato per l’elezione diretta a suffragio universale dell’Assemblea di Strasburgo. Nell’estate del ’78, intervistato da Scalfari, Berlinguer non solo ribadisce il legame del Pci con la sua storia e l’identità comunista del partito, ma si sofferma anche sulla Comunità Europea:

Sappiamo che il processo di integrazione europea viene condotto […] prevalentemente da forze e da interessi […] legati a strutture capitalistiche che noi vogliamo trasformare – afferma –. […] Ma noi riteniamo che comunque bisogna spingere verso l’Europa e la sua unità e che la sfida […] vada accettata, portando la lotta di classe […] a livello europeo.

Il leader del Pci, quindi, chiede di coordinare gli sforzi ed elaborare una strategia unitaria del movimento operaio su scala europea, anche per contrastare quei “processi di dissoluzione anarchica e di disgregazione corporativa” cui è sottoposta la democrazia nelle società a capitalismo avanzato [Berlinguer 2014b, pp. 185-186].

L’intervista di Berlinguer ispira a Spinelli una serie di note sulla politica del Pci, che sfoceranno nel libro Pci, che fare?, edito da Einaudi. Il libro tocca una serie di punti tradizionalmente ritenuti “critici” dall’opinione pubblica liberal-socialista. Al contrario l’autore riconosce la validità del centralismo democratico che vige nel Partito comunista, individua il “leninismo del Pci” in una tensione morale che accomuna i comunisti italiani ai “calvinisti non conformisti” nell’Inghilterra della Riforma e ai giacobini nella Francia rivoluzionaria, e infine ripensa la stessa proposta del compromesso storico, visto come possibile “modello per altre democrazie d’Europa”. Se un governo è innovatore, osserva, “la sua volontà va in senso contrario a quella dell’establishment”, cosicché se può contare solo sul 51% o è debole e di breve durata, o è costretto a

mettere da parte ogni velleità innovatrice. […] È questo il bel modello che i nostri fini adoratori delle democrazie nazionali occidentali augurano al nostro paese, rimproverando ai comunisti […] di non crederci troppo […] [Spinelli 1978, p. 18].

Quanto alle prospettive, anche Spinelli rileva le insufficienze del modello sovietico e di quello socialdemocratico, auspicando che il Pci delinei meglio i caratteri di quella “terza via” di cui Berlinguer ha parlato in più occasioni [Spinelli 1978, pp. 29-33]. Austerità, nuovi rapporti coi paesi del Sud del mondo, piani di sviluppo sono termini del lessico berlingueriano che si ritrovano anche nel pamphlet di Spinelli [ivi, pp. 48-59]. E non è un caso se l’esponente federalista fa pressione sul segretario del Pci affinché egli, come Brandt e altri leader, guidi la lista del suo partito alle prossime elezioni europee [Spinelli 1992, p. 214].

Intanto, proprio in vista delle elezioni, nel novembre ’78 il Cespi, il Centro studi politica internazionale legato al Pci, promuove un convegno sul tema “Quale Europa?”. Nel suo discorso Spinelli ribadisce l’esigenza che la Cee promuova “piani di sviluppo dei paesi e delle regioni” più arretrati, il che significherebbe “dare uno scopo grandioso alla austerità”, ma soprattutto chiede che il nuovo Parlamento europeo abbia un “potere costituente”, possa cioè elaborare un nuovo trattato fondativo tra i paesi Cee riformando le istituzioni esistenti: una linea che in parte Amendola richiama nelle conclusioni [Spinelli 1987, pp. 24-27].

Tra Berlinguer e Spinelli non mancano peraltro le occasioni di dissenso. Alla fine del 1978, il leader federalista vota a favore dell’adesione dell’Italia al “sistema monetario europeo”, rispetto alla quale non solo il Pci ma anche la Sinistra Indipendente e il Psi sono invece contrari. È una divergenza non secondaria, se si pensa che proprio la vicenda dello Sme segna uno dei primi momenti di rottura tra il Pci e il governo delle astensioni [Galasso 2012, pp. 96-97; Barbagallo 2006, p. 339].

Una divergenza simile si registra un anno dopo sugli euromissili Nato, su cui il Pci tiene ferma la sua opposizione, denunciando con Berlinguer la “nuova accelerazione della corsa al riarmo”, mentre Spinelli è molto più possibilista [Barbagallo 2006, pp. 354-355; Spinelli 1992, pp. 389-390]. Nel novembre 1979 i due uomini politici hanno un lungo colloquio, nel quale l’esponente federalista esprime riserve sulla posizione del Pci sugli euromissili a nome anche di altri parlamentari della Sinistra indipendente. La politica del compromesso storico, sostiene, “implica un sostanziale accordo […] sull’Alleanza atlantica”; certo, la stessa costruzione europea ha tra i suoi fini quello di “una Europa capace di diminuire ed infine far sparire l’emprise impériale [la supremazia imperiale] americana su di noi”, ma intanto, se il Pci non vuole isolarsi, i missili Cruise e Pershing vanno accettati. Berlinguer dissente: c’è il rischio concreto – osserva – “che si inizi una nuova spirale […] nella corsa al riarmo”, e ad essa “noi dobbiamo opporci fin dall’inizio”. Piuttosto, il Pci potrebbe chiedere al governo italiano di proporre all’Urss di sospendere la produzione di SS20, offrendo come contropartita il “no” italiano “alla produzione ed installazione dei Pershing e Cruise” [Spinelli 1992, pp. 366-371]. Berlinguer insomma cerca di intervenire nella controversia sull’equilibrio degli armamenti con una proposta che vada in direzione del disarmo.

2. Berlinguer parlamentare europeo

Intanto, alle elezioni europee del giugno 1979, Berlinguer, capolista per l’Italia centrale, ha ottenuto una significativa affermazione[4]. Le elezioni segnano peraltro un risultato non brillante dei partiti socialisti e socialdemocratici, i quali – commenta Berlinguer in Comitato centrale – non sembrano costituire “un argine valido ai ritorni conservatori e reazionari”; “a poco hanno servito […] dunque le varie Bad Godesberg”. I comunisti avrebbero cercato convergenze con quelle forze, ma confermando la propria “autonomia ideale e politica” [Pons 2006, p. 156].

Benché i suoi impegni non gli lascino molto tempo, Berlinguer frequenterà l’Assemblea di Strasburgo “con assiduità” [Barbagallo 2006, p. 359], tenendovi sette discorsi in quattro anni. Esponente di spicco del gruppo comunista e apparentati, il leader del Pci vede nel Parlamento europeo anche un luogo di confronto anche con altri settori del movimento operaio, trovando interlocutori attenti nella sinistra socialista e socialdemocratica.

In questo senso, ha scritto Donald Sassoon, per certi versi Berlinguer “deve essersi sentito meno isolato nel Parlamento europeo” che in un Parlamento italiano nel quale il Pci è tornato a “combattere da solo contro la maggioranza” [Sassoon 2001, p. XLIV]. Se questo è in parte vero, non si può d’altra parte negare come molti dei richiami fatti dal leader comunista nei suoi discorsi a Strasburgo rimarranno inascoltati, essendo espressione di una linea di sviluppo radicalmente diversa da quella che la Cee stava seguendo e che poi seguirà l’Unione europea.

Nel suo primo discorso, Berlinguer riconosce le differenze esistenti all’interno del gruppo comunista, ma sottolinea “le sostanziali convergenze” su punti fondamentali: la necessità di

lottare contro il prepotere delle società multinazionali, di democratizzare la vita della Comunità; di affermare […] la funzione di pace, di cooperazione e di progresso di un’Europa nuova, nella quale il socialismo – un socialismo nella libertà – si affermi come via maestra per arrestare il declino di questa parte del nostro continente […] e per rinnovarne profondamente le strutture, i modi di vita, le classi dirigenti [Berlinguer 2014a, pp. 20-22].

Sono parole di grande attualità, se non altro perché sono sempre più evidenti le conseguenze della condotta opposta seguita da Cee e Ue. E d’altra parte è questo per Berlinguer il nucleo della proposta eurocomunista, nel quadro e con l’obiettivo di “un nuovo ordine economico internazionale”, in cui la Cee prenda atto dei mutati rapporti di forza nel mercato mondiale in seguito allo sviluppo dei paesi di nuova indipendenza, all’aumento dei prezzi delle materie prime ecc., e dunque imposti in termini radicalmente nuovi i rapporti coi paesi del Terzo Mondo e all’interno stesso della Comunità [Berlinguer 2014a, pp. 26-28].

Nel gennaio 1980 il Parlamento europeo discute dell’intervento sovietico in Afghanistan. Berlinguer ribadisce la condanna del Pci, sulla base di quel “diritto dei popoli all’indipendenza nazionale” pure “più volte […] calpestato dai paesi capitalisti, e in particolare dagli USA”. Al contrario, prosegue, “la distensione non ha alternative […] bisogna riaprire la via del dialogo e del negoziato”, ma per giungere a questo risultato è “indispensabile una specifica politica europea” [Berlinguer 2014a, pp. 32-38].

Berlinguer vede dunque una inadeguatezza delle istituzioni e delle politiche comunitarie, e proprio la coscienza di questi limiti rafforza in lui l’esigenza di una loro profonda riforma. Nel maggio 1980, in una riunione dei parlamentari del Pci a Strasburgo, si decide che Spinelli lanci la proposta della Costituente. E anche nel Parlamento italiano il Pci presenta una mozione secondo la quale la riforma della Cee “spetta al Parlamento europeo” anziché alla Commissione o alle trattative tra i governi [Spinelli 1992, pp. 462-463].

Poco dopo Spinelli lancia l’iniziativa di un gruppo di lavoro informale che prepari un primo schema per un progetto di trattato che modifichi la forma istituzionale della Cee. È quello che sarà noto come “Club del Coccodrillo”, al quale per il Pci partecipa fin dall’inizio Silvio Leonardi[5].

Negli stessi giorni Berlinguer interviene a Strasburgo sul programma presentato dal lussemburghese Thorn per il suo semestre di presidenza, e lo fa in termini molto critici. “O c’è un’iniziativa rinnovatrice” – afferma – “o c’è il pericolo – anzi la certezza – del declino e della disarticolazione della Comunità”. Ma perché il processo di integrazione politica non va avanti?

Secondo noi, perché i gruppi economici e politici dominanti hanno, sì, interesse a una liberalizzazione dei mercati e degli scambi […] ma non hanno uguale interesse all’adozione di politiche comuni che perseguano l’obiettivo di uno sviluppo economicamente e socialmente più equilibrato, e più giusto, in tutta l’area della Comunità [Berlinguer 2014a, pp. 44-46].

Quella che pone il Segretario comunista, dunque – e questo soprattutto lo differenzia da Spinelli – non è solo una questione di riforma istituzionale della Cee, ma di quali siano le classi, le forze sociali che guidano il percorso, e di come gli interessi delle attuali classi dominanti ritardino e ostacolino l’integrazione politica e la democratizzazione della Comunità.

Al tempo stesso, intervenendo sul golpe militare avvenuto in Turchia – paese della NATO legato alla Cee da un rapporto di associazione – Berlinguer, oltre a chiedere la sospensione di tale legame, ribadisce la necessità di un ruolo autonomo della Comunità europea, che non può essere “una specie di appendice del Patto atlantico”. In questo quadro egli lancia l’idea “di una Conferenza paneuropea [che comprenda dunque anche l’Europa dell’Est] sul disarmo”, individuando proprio nella iniziativa europea per la distensione e la cooperazione un terreno prioritario per le forze di sinistra [Berlinguer 2014a, pp. 55-60].

Negli stessi giorni il gruppo aggregatosi attorno a Spinelli presenta un progetto di risoluzione, che affida al Parlamento europeo il compito di preparare i progetti di riforme istituzionali della Comunità. Berlinguer è tra i primi a sottoscriverlo, prendendo una posizione più netta, ricorderà Spinelli, degli stessi Brandt e Mitterand[6].

A febbraio intanto il presidente della Commissione Thorn presenta un rapporto sulla situazione della Cee dal quale emerge uno stato di crisi sempre più evidente. Per Berlinguer, occorre dare “maggior rilievo alla Commissione nei confronti del Consiglio e al Parlamento nei confronti di entrambi”. Ma i problemi, osserva, sono più profondi, e riguardano la crisi della distensione, con la contrapposizione tra gli Usa di Reagan e l’Urss di Brežnev; e ancora, il “crescente squilibrio tra i paesi economicamente progrediti e le immense aree del sottosviluppo”, che egli giudica “il problema più angoscioso ed esplosivo dei nostri tempi”, mentre anche all’interno della Cee gli squilibri regionali si aggravano, poiché la logica dello “sviluppo capitalistico, abbandonato alla sua spontaneità”, tende a concentrare le risorse “nelle zone dove i capitali sono già concentrati”. Tuttavia – sottolinea – l’interdipendenza raggiunta è tale che “la degradazione delle zone economicamente più arretrate blocca lo sviluppo delle zone più avanzate”. È questa dunque una tendenza “da rovesciare”, mirando allo sviluppo delle aree depresse del continente e del mondo intero, con l’obiettivo di una crescita equilibrata complessiva [Berlinguer 2014a, pp. 64-74].

È questo, del febbraio 1981, il discorso forse più impegnato che il Segretario del Pci tiene a Strasburgo, nel tentativo di portare anche in quella sede la sua elaborazione sui problemi globali e sulla necessità di una svolta sistemica, con l’introduzione di “elementi di socialismo” nei rapporti economici mondiali. Tuttavia la storia sta andando nella direzione opposta. La controrivoluzione neoliberista guidata da Reagan e da Margaret Thatcher sta ormai dispiegandosi.

A dicembre la “lady di ferro”, presidente di turno del Consiglio europeo, riferisce all’Assemblea sui lavori del Consiglio e su un incontro dei ministri degli Esteri Cee, riconoscendo che in entrambe le occasioni non si è raggiunta una posizione comune. Nel suo intervento, Berlinguer riconduce il mancato progresso dell’unificazione europea alla “incapacità organica” delle classi dominanti “di far avanzare l’integrazione”, subendo il peso di “spinte centrifughe, protezionismi e anche di nazionalismi”. Lo stesso movimento operaio, prosegue il leader del Pci, deve però superare resistenze e remore, non attardandosi su “visioni puramente nazionali dei propri interessi e della propria funzione”, costituendo anzi – nell’intreccio col movimento per la pace – la forza che “può ridare uno slancio e un segno nuovo al processo d’integrazione”. In questo quadro Berlinguer ribadisce la condanna della proclamazione della legge marziale da parte di Jaruzelski in Polonia, cui aggiunge una condanna altrettanto ferma dell’annessione israeliana dei territori occupati nella Guerra dei Sei giorni [Berlinguer 2014a, pp. 78-82].

Il tentativo di Berlinguer è quello di contribuire ad aprire, facendo leva sulla forza del Pci e sulle interlocuzioni costruite a livello internazionale, una “terza fase” della lotta per il socialismo, dopo quella della II Internazionale e quella aperta dalla Rivoluzione d’Ottobre. Per Berlinguer lo scenario nel quale tale fase può essere avviata è quello dei “punti alti dello sviluppo capitalistico”, che vivono peraltro una crisi strutturale, e in particolare quello costituito dall’Europa e dal movimento operaio occidentale, dei quali probabilmente il leader del Pci sopravvaluta le potenzialità. La sua insistenza sul possibile ruolo di una Comunità europea profondamente rinnovata si lega dunque alla tematica dell’eurocomunismo e delle nuove vie al socialismo [Berlinguer 1982, pp. 24-34; Liguori 2014, p. 45; Höbel 2014, pp. 51-53].

Non si tratta di cercare una via di mezzo tra il socialismo e il capitalismo – afferma Berlinguer – Si tratta di superare il capitalismo allo stadio cui esso è giunto qui da noi, nell’Occidente industrializzato […] costruendo un socialismo che si realizzi nella […] salvaguardia delle libertà democratiche già conquistate e del loro sviluppo [ivi, p. 26].

È questa la linea che egli porterà avanti fino alla fine. La ripresa della corsa agli armamenti e la crisi della distensione, però, riducono gli spazi non solo per l’iniziativa del Pci, ma anche per quel ruolo autonomo dell’Europa occidentale auspicato dal Segretario comunista. Anche per questo, oltre che per la consapevolezza di un rischio globale sempre più concreto, negli ultimi anni Berlinguer – come ha scritto Antonio Rubbi – assegna una “assoluta priorità […] alle questioni della pace e del disarmo”, collegandosi sempre più strettamente col movimento per la pace e con tutte quelle forze – paesi non allineati, sinistra europea, Chiese ecc. – che possono collaborare in questa lotta, individuando nella Comunità europea la struttura potenzialmente in grado di spostare l’accento dai fattori militari a quelli politici [Rubbi 1994, pp. 228-230; Pons 2006, p. 242].

In questo quadro, per Berlinguer, la preziosa peculiarità del Pci sta nel suo essere uno dei pochi elementi di collegamento tra i paesi socialisti, movimento operaio europeo, movimenti di liberazione e paesi del Terzo Mondo [Pons 2006, pp. 221-223]. In Europa, inoltre, afferma nel 1982, forze e movimenti sempre più ampi “entrano in conflitto con i meccanismi economici del capitalismo […] reclamano una società diversa”, ma soprattutto si è affermato un modello sociale nel quale il movimento operaio ha inciso in modo significativo. È anche per questo, ritiene Berlinguer, che la sinistra europea può porsi l’obiettivo di favorire la costruzione di un nuovo ordine economico internazionale [Sassoon 1987, pp. 125-127].

Il dramma della battaglia del leader comunista sta però nel fatto che proprio allora l’Europa e tutto l’Occidente stanno andando in una direzione opposta, quella della restaurazione neoliberista. E in una Direzione del novembre 1983 egli stesso ne appare consapevole, rilevando la “offensiva mondiale anticomunista” lanciata dagli Stati Uniti, che rimette in discussione anche il loro rapporto con l’Europa [Pons 2006, pp. 240-241].

D’altra parte, la stessa situazione della Cee non è brillante. Nel suo ultimo discorso al Parlamento europeo, quello sulla risoluzione presentata da Spinelli sul varo di una commissione che rediga il progetto di trattato per la riforma della Comunità, Berlinguer lo denuncia con forza: “Alcuni Stati – afferma – si muovono ormai sulla base di una visione puramente ‘contabile’ della loro presenza nella Cee”, sottovalutando il “crescente declino” dell’Europa, che si riflette nel calo del tasso di crescita, nel forte aumento della disoccupazione, e più ancora nel campo delle “tecnologie più avanzate”, anche per la “frammentazione che esiste nell’azione comunitaria in materia di politica energetica, industriale e di ricerca”; una condizione che rischia di ridurre i paesi della Cee, “nel giro di alcuni anni, ad un ruolo di supplenza economica rispetto alle altre aree più sviluppate”. Per scongiurare tale esito Berlinguer torna a porre il problema di un ruolo nuovo del movimento operaio, esortandolo a fare propria fino in fondo la “dimensione comunitaria”, che “crea un terreno nuovo […] ma più ampio e favorevole all’unità delle classi lavoratrici e alla loro lotta per trasformare l’attuale stato di cose” [Berlinguer 1984a, pp. 84-94].

All’inizio del 1984 Berlinguer aderisce all’appello “per il Trattato d’Unione Europea” promosso da Spinelli[7]. A marzo accetta l’invito al congresso del Movimento Europeo che si tiene a Bruxelles, dicendosi “orgoglioso” del fatto che, grazie ai voti comunisti, il Parlamento europeo ha potuto giovarsi del contributo di Spinelli e ribadendo che quello europeo è “un terreno più ampio ed avanzato per le battaglie del movimento operaio”. Berlinguer si sofferma però anche sul fallimento dell’ennesimo vertice tra i leader europei. “Si è ormai giunti ad un punto limite – osserva –. Se non vi sarà una netta inversione di tendenza, il rischio […] è quello della disintegrazione della Comunità”. Occorre dunque una sua “vera e propria rifondazione”, “un profondo cambiamento nei contenuti e nelle forme della cooperazione e dell’integrazione comunitaria”. La nascente Unione Europea va posta quindi su basi completamente nuove[8].

Le cose, com’è noto, andranno diversamente. L’Unione Europea non solo non supererà i limiti di fondo del processo di integrazione avviato nel ’57, per cui – come osserva l’economista Massimo Pivetti – “nessun processo di unificazione politica e di connessa centralizzazione dell’intera politica economica […] ha accompagnato, compensandola, la perdita di sovranità subita da ciascun Stato membro” [Pivetti 2011, p. 46]; ma piegherà le sue scelte ai dogmi del neoliberismo e del monetarismo.

Rispetto agli anni di Berlinguer, dunque, oggi moltissime cose sono cambiate, e alla fiducia verso le possibilità di riforma delle istituzioni europee e delle loro politiche è subentrata una disillusione di massa non certo ingiustificata.

D’altra parte, proprio l’allarme lanciato dal Segretario del Pci sulla inevitabile crisi di una Comunità che avesse continuato a percorrere vecchie strade, così come l’esigenza di una sua “rifondazione” su basi nuove, e dunque di un mutamento delle forze sociali alla guida del processo, rimangono di grande, drammatica attualità, come un monito da cui ripartire e un insegnamento da sviluppare.

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Riferimenti bibliografici:

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Rubbi 1994: Antonio Rubbi, Il mondo di Berlinguer, Roma, Napoleone, 1994

Sassoon 1987: Donald Sassoon, Oriente e Occidente, in Berlinguer oggi, a cura di Paolo Corsini e Massimo De Angelis, Roma, Editrice “l’Unità”, 1987

Sassoon 2001: Donald Sassoon, Introduzione a E. Berlinguer, Discorsi parlamentari (1968-1984), a cura di M.L. Righi, Roma, Camera dei deputati, 2001

Spinelli 1978: Altiero Spinelli, Pci, che fare?, Torino, Einaudi, 1978

Spinelli 1987: Altiero Spinelli, Discorsi al Parlamento europeo, 1976-1986, a cura di Pier Virgilio Dastoli, Bologna, il Mulino, 1987

Spinelli 1992: Altiero Spinelli, Diario europeo 1976-1986, Bologna, il Mulino, 1992

Spriano 1970: Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. III, I fronti popolari, Stalin, la guerra, Torino, Einaudi, 1970

[1] A. Spinelli, Atlantic Pact or European Unity, in “Foreign Affairs”, 1962, vol. 40, n. 2. Cfr. anche il promemoria del 1961 inviato a Nenni, Alleanza atlantica o Unità europea? Una riconsiderazione del problema, in Nenni-Spinelli 2007, p. 50; e il saggio di Ilenia Pasquetti pure citato in bibliografia alla fine del presente testo.

[2] Per Renato Sandri, “la candidatura di Spinelli ebbe il significato di un impegno che il Pci assumeva nei confronti del progetto da lui incarnato per decenni”, era volta cioè a “garantire la scelta europeista del partito” [Maggiorani-Ferrari 2005, p. 138]. Ricorda a sua volta Trentin: la candidatura “voleva dire riconoscere […] non soltanto che la Comunità europea era ormai una realtà, ma anche che bisognava rovesciare il processo puntando decisamente all’unione politica” [ivi, p. 109].

[3] Fondazione Istituto Gramsci (d’ora in avanti FIG), Fondo Berlinguer, serie 3, Corrispondenza II, b. 136, u.a. 211, Corrispondenza Berlinguer-Spinelli (1977-1981), lettere del 26 e 27 ottobre 1977.

[4] “l’Unità”, 13 giugno 1979.

[5] FIG, Archivio del Partito comunista italiano (APC), 1980, Estero, mf. 467, pp. 1864-1866; mf. 485, pp. 1105-1106.

[6] FIG, Fondo Berlinguer, serie 3, Corrispondenza II, b. 136, u.a. 211, Corrispondenza Berlinguer-Spinelli (1977-1981), lettere del 6 e 9 gennaio 1981; Ferrari, pp. 73-74, 331.

[7] FIG, APC, 1984, Estero, mf. 567, p. 1169.

[8] Discorso di Enrico Berlinguer al congresso del Movimento Europeo (Bruxelles, 22 marzo 1984), in FIG, Fondo Berlinguer, serie 6, Attività istituzionale, b. 155, u.a. 8.

Europa e mondo nel pensiero di Enrico Berlinguer

Contributo di Gennaro Lopez “Berlinguer e l’Europa. I fondamenti di un nuovo socialismo” – Roma 6 Marzo 2015

La crisi dei primi anni ’70 del Novecento ha un peso fondamentale nell’elaborazione teorica e politica di Enrico Berlinguer; essa ne condizionerà l’evoluzione fino agli ultimi giorni di vita del leader comunista. Berlinguer pone al centro della sua analisi il mutamento delle ragioni di scambio fra paesi industrializzati e paesi esportatori di materie prime, un fenomeno che metteva in discussione il paradigma keynesiano, fondato sulla disponibilità di materie prime a basso costo, e spingeva a porre il tema di un nuovo modello di sviluppo.Nel dicembre del 1973, intervenendo alla riunione del CC del Partito, Berlinguer sottolinea che la crisi “investe l’intera Europa occidentale e l’insieme del mondo capitalistico”; non è solo – dice- “la crisi del petrolio”, in quanto “interessa tutto il settore dell’energia e quello del rifornimento delle materie prime” ed ha “stretti legami con la tempesta monetaria scatenata dalla svalutazione del dollaro nel 1971”. B. vede nell’aumento del prezzo del petrolio e di altre materie prime “prodotte nei paesi in via di sviluppo” il “sintomo di un fenomeno di fondo più generale, destinato a durare nel tempo e a svilupparsi”, cioè il “risveglio dei popoli oppressi”, un “moto di emancipazione dei popoli del terzo mondo”, definito come “fenomeno grandioso” e “processo irreversibile”. C’è proprio qui un passaggio-chiave dell’analisi berlingueriana, quando egli afferma: “La nuova situazione può contribuire a sollecitare i movimenti operai di tutti i paesi capitalistici a liberarsi dalla egemonia borghese, a conquistare la pienezza della propria autonomia ideale e politica, a lottare con più decisione e slancio per una trasformazione profonda della struttura sociale ed economica e degli indirizzi dello sviluppo nazionale, e a trovare le vie del benessere in modi, certo in larga misura, necessariamente diversi da quelli finora praticati, ma anche più giusti, più veri, più umani … per una diversa qualità della vita”.

Il punto di vista è con tutta evidenza di classe, così come evidente è la convinzione che ci si trovi in presenza di una crisi strutturale del capitalismo. Naturalmente, un ulteriore e ineludibile terreno di analisi era rappresentato dall’interpretazione del nesso che legava la crisi specifica italiana a quella mondiale: questo spiega come mai, almeno inizialmente, il problema di dar vita ad un nuovo modello di sviluppo, che sarà poi declinato (a partire dal 1977) nei termini di una “politica dell’austerità”, appare riferito soprattutto alla realtà nazionale: la crisi viene vista come “una grande occasione per avviare un processo di trasformazione e di rinnovamento della nostra società … una trasformazione profonda dei modi dello sviluppo economico, sociale e civile del paese e della stessa struttura della produzione e dei consumi … introducendo nella struttura -appunto- economica e sociale e nei modi di vita dei cittadini almeno alcuni elementi che non esitiamo a definire di socialismo”. Tuttavia, vedremo come gli elementi essenziali di questa proposta verranno ripresi guardando all’Europa e, infine, all’umanità intera. Già intervenendo alla Conferenza di Bruxelles dei partiti comunisti dell’Europa occidentale (26 gennaio 1974), Berlinguer afferma: “Alle origini dell’attuale situazione vi sono ragioni di fondo, irreversibili, e fra queste ragioni assume ora particolare rilievo quella rappresentata dalla crisi del vecchio sistema di sfruttamento e di oppressione verso i paesi del terzo mondo. Il processo di emancipazione politica ed economica dei paesi in via di sviluppo è un grande fattore positivo, un momento importante nella storia della lotta dei popoli contro l’imperialismo e il colonialismo, del cammino complessivo dell’umanità. E’ vero, d’altra parte, che da questa spinta a mutare i termini di scambio con i paesi sviluppati nascono problemi difficili e complessi anche per il movimento operaio dei nostri paesi. Quel che è certo è che tali problemi possono essere affrontati solo sviluppando la lotta per una trasformazione profonda della struttura sociale ed economica e, al tempo stesso, con la lotta perché si creino con i paesi in via di sviluppo rapporti di cooperazione di tipo nuovo, fondati sulla eguaglianza e sul reciproco interesse.”

Dal 10 al 12 dicembre 1974 si tiene la riunione del CC in preparazione del XIV Congresso (Roma, 18-23 marzo 1975). Anche in questa occasione, al centro dell’analisi viene posta “la crisi che attraversano le società capitalistiche su scala mondiale … una crisi profonda e di tipo nuovo, dovuta al concorso di grandi processi di portata storica, quali: il mutamento dei rapporti di forza tra paesi imperialisti e paesi socialisti; l’ingresso e il peso crescente nell’area mondiale dei popoli e degli Stati prima soggetti al dominio coloniale; e l’esplodere delle contraddizioni intrinseche ai meccanismi economici e sociali che hanno caratterizzato lo sviluppo post-bellico dei paesi capitalistici più progrediti … una crisi che investe tutti i campi: l’economia, la politica, la cultura … “. Dunque, Berlinguer appare sempre più convinto che ci si trovi di fronte ad una crisi strutturale e di sistema e compie un ulteriore passo avanti su questo terreno là dove afferma che “sarebbe sbagliato fermarsi all’analisi dei processi economici … sono cresciuti il peso sociale e la coscienza politica della classe operaia, come provano le lotte che si sviluppano nei paesi capitalistici … in vasti strati sociali, e soprattutto fra i giovani, oltre che nella classe operaia, si sviluppano vasti fenomeni di ribellione contro gli aspetti più intollerabili e degradanti di una organizzazione sociale basata sul profitto, sullo sfruttamento, sulla distorsione dei consumi, sulla alienazione … Questo non vuol dire che il capitalismo è vicino al suo crollo o è senza via d’uscita … però vi sono pure possibilità nuove per avviare cambiamenti, trasformazioni profonde, anche di tipo socialista. In altri termini, il quadro attuale del capitalismo … ripropone la prospettiva e la necessità storica del socialismo”. Faccio notare come qui l’analisi berlingueriana proponga come decisivi due elementi: la forza antagonistica della classe operaia e il protagonismo politico dei movimenti di massa, in particolare di quelli giovanili. Decisivi rispetto a quale obiettivo? Leggiamo. “Di fronte a tutte le forze progressive e rivoluzionarie stanno oggi due grandi compiti, fra loro collegati: uno è la costruzione di un nuovo assetto del mondo, l’altro è la creazione di una nuova organizzazione della vita sociale, economica e politica nei singoli paesi. Questi compiti richiedono entrambi lotte assai dure e, in pari tempo, proposte costruttive e grandi iniziative politiche unitarie”.   A conferma della profondità della crisi, B. prende in considerazione anche aspetti di un crescente degrado culturale, in particolare quelli che si manifestano attraverso “l’estendersi di tendenze irrazionalistiche e nichilistiche, di correnti oscurantistiche”. Difficile qui non risentire l’eco ravvicinata della voce di un grande intellettuale italiano: Pier Paolo Pasolini. Credo si possa affermare che proprio in quel CC veniva data forma e sistemazione organica ad una strategia e ad un progetto politico (con una ipotesi alternativa e organica di welfare state). E nella relazione al XIV Congresso, nel successivo marzo 1975, il tema del rapporto tra situazione italiana e crisi delle economie capitalistiche veniva affrontato con un suggestivo ed efficace parallelo: “Nessuna politica economica è valida in Italia, nessun rinnovamento è possibile se non si avvia a soluzione la questione meridionale. Oggi il nostro discorso si allarga: nessuna politica è valida, nessun avanzamento e rinnovamento è possibile in Occidente se non contiene in sé la soluzione dei problemi del Terzo e Quarto mondo.”

L’attenzione all’Europa, al suo possibile ruolo sulla scena internazionale, conoscerà un “crescendo” nella riflessione politica di Berlinguer, man mano che le sue idee su un nuovo ordine economico, fondato su “elementi di socialismo” andranno allargandosi dall’ambito nazionale a quello continentale e mondiale. In proposito, due brevi citazioni. Intervenendo alla riunione del CC del 29 ottobre 1975: “La politica seguita dalle vecchie classi dominanti –afferma- mette in pericolo non solo la possibilità di un ordinato progresso civile dei vari paesi dell’Europa occidentale, ma il ruolo e l’iniziativa stessa del nostro continente negli affari mondiali e nello sviluppo complessivo della società umana … La via maestra è quella di una iniziativa unitaria e unificatrice delle classi lavoratrici e dei loro partiti, tale da sollecitare e realizzare progressivamente un insieme di trasformazioni di carattere democratico nelle strutture economiche e sociali e nella vita e direzione politica degli Stati, oltre che nelle stesse istituzioni europee.” E ancora, parlando alla conferenza dei partiti comunisti e operai d’Europa (Berlino, 30 giugno 1976): “Un’Europa che proceda sempre più coraggiosamente sulla strada della distensione e della cooperazione sarà in grado di dare un immenso contributo alla risoluzione di quel fondamentale problema del nostro tempo che è la costruzione di un nuovo ordinamento economico internazionale fondato su basi di eguaglianza e di reciproco vantaggio, tale da consentire anche il superamento degli inaccettabili, spaventosi squilibri economici e nelle condizioni di vita che caratterizzano la situazione del mondo contemporaneo.”

E’ lecito domandarsi: come ha letto Berlinguer la crisi economica mondiale degli anni Settanta? Ci fu un limite in quella lettura? Va detto, in positivo, che di certo aumentò l’attenzione verso il rapporto quantità/qualità dello sviluppo, verso il problema dei rapporti tra Nord e Sud del mondo, verso la necessità di difendere l’ambiente naturale e di sviluppare la persona umana. Il tema dell’austerità tese progressivamente a proiettarsi nello spazio e nel tempo verso l’obiettivo di una più efficiente ed equa distribuzione delle risorse tra Nord e Sud del mondo, nella crescente consapevolezza che la risposta alla grande ristrutturazione liberista poteva venire solo dalla proposta di un diverso modello di sviluppo, impossibile da realizzare in una dimensione esclusivamente nazionale. Il punto debole delle strategie socialdemocratiche era stato per decenni proprio la scarsa attenzione ai problemi del Sud del mondo, ma già nella seconda metà degli anni Sessanta il più prestigioso fra gli intellettuali socialdemocratici scandinavi, il premio Nobel Gunnar Myrdal, uno dei padri fondatori dello Stato sociale, analizzando la tendenza a una progressiva distanza nello sviluppo delle diverse parti del mondo, aveva raccomandato di andare oltre lo Stato sociale: quel richiamo aveva poi suscitato una crescente attenzione ai problemi del Sud del mondo nel partito socialdemocratico svedese di Olof Palme e indotto Willy Brandt a mobilitare l’Internazionale socialista su quel problema, fino all’elaborazione di un documento specifico: il c.d. “rapporto Brandt” del 1980. Quanto ai limiti, il principale fu forse quello di sottovalutare o di non pre-vedere gli elementi di dinamismo e le capacità di ristrutturazione del capitalismo. Limite tutto socialdemocratico, perché restò invece salda in Berlinguer l’idea di un superamento in senso socialista del modello capitalistico di società. Va detto, peraltro, che in quegli anni il capitalismo ebbe la capacità di aprire una nuova fase storica del suo sviluppo nel segno di una rivoluzione informatica e tecnologica, di un aumento delle attività terziarie e di una delocalizzazione dei processi produttivi. Tutto ciò produsse l’effetto di una espansione dei consumi e dei soggetti in grado di consumare. Si profilava, inoltre, una lunga offensiva ideologica neoconservatrice – inaugurata dalla coppia Margaret Thatcher-Ronald Reagan – che oggi pare essersi infranta davanti all’attuale crisi, ma che ha cambiato anche il modo di essere delle sinistre. Ci fu anche, probabilmente, una certa difficoltà a definire i c. d. “elementi di socialismo”. In ogni caso, fu merito indiscutibile di E. B. quello di aver elaborato una critica qualitativa del sistema capitalistico, andando nel profondo, al senso generale dello sviluppo: che cosa produrre e perché produrre, facendo altresì emergere la connessione tra contraddizione sociale e contraddizione ecologica. Alcune domande fondamentali che sono alla radice del pensiero berlingueriano (quale senso dare al lavoro? quale alla produzione?) sono più che mai attuali.

Non credo che oggi E. B. avrebbe sposato la teoria della decrescita di Serge Latouche, ma piuttosto si sarebbe espresso per uno sviluppo compatibile con l’ambiente e con una qualità della vita più umana. Egli era persuaso che il divario fra il Nord e il Sud del mondo avrebbe dovuto obbligare l’Europa a qualificarsi come soggetto politico forte e unitario, dentro un quadro di «governo mondiale» dell’economia. I non numerosi interventi di E. B. in seno al Parlamento europeo, per incisività e lucida chiarezza, ripropongono efficacemente la sua visione dell’Europa e del mondo.

Intervenendo a Strasburgo del 16 gennaio 1980, nel corso di un dibattito dedicato alla vicenda afghana: “Una specifica iniziativa europea è essenziale per contribuire a superare i drammatici squilibri economici e sociali fra il Nord e il Sud del mondo, che diverrebbero ancora più esplosivi se continuasse la tendenza alla tensione tra gli USA e l’URSS, tra l’Est e l’Ovest. Gli squilibri, le ingiustizie, le sofferenze, la fame, la denutrizione che colpiscono miliardi di uomini sono il tragico retaggio di secoli di dominazione colonialista e di rapina imperialista … E’ in queste direzioni che deve andare la politica europea: promuovendo iniziative anche nuove per il disarmo; rifiutando ogni forma e tentazione di neo-colonialismo; stabilendo con i popoli e paesi del terzo mondo uno schema di rapporti fondati non sul semplice aiuto, ma sull’uguaglianza e la cooperazione reciprocamente vantaggiosa. ma bisogna anche dare la prova di comprendere che la causa della pace e della giustizia nel mondo non tollera più quei privilegi e quegli sprechi, quei modelli di vita e di consumi propri delle società industrializzate … Anche nel movimento operaio dell’Europa occidentale non vi è ancora consapevolezza adeguata della portata delle trasformazioni che si impongono nel tipo di sviluppo e nei modi di vita dei paesi industrializzati per creare assetti sociali fondati, al tempo stesso, sulla parsimonia e sulla giustizia.” Concetti poi ribaditi ancora l’11 febbraio 1981: “Sullo sfondo di tutta la presente situazione mondiale domina il problema costituito dal crescente squilibrio tra i paesi economicamente progrediti e le immense aree del sottosviluppo, della miseria, della povertà e della fame. E’ un problema insoluto, che diventa sempre più grave; è il problema più angoscioso ed esplosivo dei nostri tempi … Ci può essere un avvenire per l’Europa e per l’affermarsi di una sua nuova funzione nel mondo, solo se il sollevamento e lo sviluppo produttivo delle aree economicamente arretrate del Sud del mondo, e innanzi tutto del bacino mediterraneo e dell’Africa, diverranno una direttrice centrale delle attività economiche nei paesi della Comunità. … Quel che occorre è dunque lo sviluppo coraggioso di una iniziativa autonoma dell’Europa nel mondo, sia nei rapporti Est-Ovest, sia nei rapporti Nord-Sud.”

Solo pochi mesi prima dalla morte, Berlinguer interviene al Congresso del Movimento federalista europeo (Bruxelles, 22 marzo 1984) e afferma: “La sfera europea è ormai la sfera necessaria in cui si devono condurre -insieme alle lotte che ognuno conduce nel proprio paese- le lotte per il lavoro, per una nuova qualità dello sviluppo e della vita, per un nuovo ordine internazionale fondato sulla pace, sulla fine della corsa agli armamenti, a cominciare da quelli nucleari e missilistici, sulla cooperazione, su un nuovo rapporto fra Nord e Sud e tra Est ed Ovest. … Un’Europa di pace e di progresso: di questo hanno bisogno i nostri popoli, di questo ha bisogno la società internazionale. Senza un’Europa di questo tipo tutto il mondo sarà più insicuro, e più incerte saranno le prospettive dell’umanità.” Sta in queste parole il lascito più prezioso, perché attualissimo, del pensiero “europeo ed europeista” di Enrico Berlinguer, un pensiero che si inscrive in una visione politica dal respiro universalista, con l’intuizione straordinaria di un “governo mondiale” (in un mondo non ancora globalizzato!), basato su un multilateralismo atto a promuovere progresso sociale, diritti, valore del lavoro, cittadinanza democratica. In siffatto contesto E.B. sollecita un ruolo attivo e propulsivo dell’Europa come fattore di equilibrio di fronte alla crisi dello Stato-nazione e protagonista di un processo di superamento, da un lato della contrapposizione Est/Ovest, dall’altro lato dei meccanismi dello scambio ineguale fra Nord e Sud del mondo.

Il rapporto Nord/Sud del mondo e le prospettive del socialismo nell’ultimo Berlinguer

Contributo di Fiamma Lussana “Berlinguer e l’Europa. I fondamenti di un nuovo socialismo” Roma 6 Marzo 2015

Alla fine del ’79, parlando dalla tribuna delle Nazioni Unite, il presidente dei paesi non allineati Fidel Castro aveva lanciato un drammatico appello al mondo: «Quale è il destino dei paesi sottosviluppati? Morire di fame? […] A che serve la coscienza dell’uomo? A che servono le Nazioni Unite? A che serve il mondo?». Berlinguer fa suo il grido d’allarme di Castro: nel mondo c’è una tensione crescente che si collega allo sviluppo ineguale, alla cosiddetta interdipendenza non paritaria fra paesi capitalistici occidentali e paesi arretrati. Al centro dei conflitti del mondo contemporaneo non c’è solo la contrapposizione fra capitalismo e socialismo. Lo scontro è ora fra paesi industrializzati e paesi sottosviluppati. Il mondo insomma è sempre più diviso fra un Nord industrializzato e opulento sul quale soffia, dall’inizio degli anni Settanta, il vento della crisi energetica, e un Sud che muore di fame.

Negli anni del suo cancellierato, Willy Brandt aveva attivamente cercato una soluzione alla divisione del mondo in blocchi contrapposti. Divenuto nel ‘76 presidente dell’Internazionale socialista, nella sua politica era diventato centrale il problema del divario crescente fra paesi ricchi e paesi poveri. Nella sua Ostpolitik l’Europa giocava un ruolo importante: un’Europa comunitaria forte e integrata, non antisovietica, ma nemmeno antiamericana, avrebbe avuto un compito decisivo non solo nel regolare il dialogo intertedesco, ma anche nel porsi come sistema di stabilità dell’intero equilibrio internazionale. In politica estera, sono due i punti strategici di raccordo fra Brandt e Berlinguer: il confronto fra Est e Ovest e l’orizzonte politico del Rapporto Brandt sul Nord e il Sud del mondo.

Un dialogo intenso fra il PCI e la SPD era iniziato dopo la metà degli anni Sessanta quando, parallelamente all’esperienza del centrosinistra in Italia, i socialdemocratici avevano formato nella Germania federale il governo della “grande coalizione” con i partiti di ispirazione cristiana. Brandt guardava con speranza alla doppia natura del PCI, grande forza politica nazionale e popolare, radicata nel paese e nelle istituzioni e, nello stesso tempo, punto di riferimento fra i più autorevoli del movimento comunista internazionale. L’allora ministro degli Esteri e vicecancelliere Brandt coglieva la doppia anima del PCI di Berlinguer, grande partito europeo occidentale, ma anche forza strategica per aprire il confronto con i paesi socialisti dell’Est europeo, perno del movimento operaio occidentale, impegnato sul terreno della libertà, della democrazia e del pluralismo, ma anche partito “rivoluzionario”. Dieci anni più tardi, a Roma, inizieranno fra Brandt e Berlinguer una serie di incontri, incentrati in particolare sulla ricerca di nuovi equilibri internazionali, sul superamento della logica del bipolarismo e sul rafforzamento dell’autonomia europea. Come nota Rubbi, allora viceresponsabile della sezione Esteri del PCI, Brandt e Berlinguer «avevano quasi sempre le stesse posizioni».

Con la crisi della distensione, la ripresa della conflittualità mondiale, la vertiginosa corsa agli armamenti da parte di USA e URSS, si accentua lo sviluppo ineguale: crescono il degrado, l’impoverimento e la miseria assoluta di ampie aree del Sud del mondo. Compito del Rapporto Brandt, elaborato fra il ’77 e il ‘79, è studiare la disuguaglianza sociale e le disparità economiche della comunità mondiale per dare un contributo alla soluzione dei grandi problemi connessi allo sviluppo ineguale fra Nord e Sud del mondo. Il Rapporto è una summa di raccomandazioni ai potenti della terra che mette a fuoco i drammatici problemi dello squilibrio del mondo, partendo dall’assunto che ripensare i rapporti fra Nord e Sud è un problema cruciale per le sorti dell’umanità.

I due temi principali del Rapporto sono il nesso pace/sviluppo e lo sviluppo inteso come interdipendenza. La pace è il presupposto dello sviluppo ed è un bene da preservare, non è un’acquisizione meccanica. Bisogna lottare per la pace. È necessario ripensare il rapporto esistente fra armamenti e sviluppo: «è una tragica ironia della sorte – scrive Brandt – che il trasferimento più attivo e rapido di attrezzature altamente sviluppate e di tecnologia da paesi ricchi a paesi poveri sia stato in forma di strumenti di morte». La reciprocità di interessi fra paesi industrializzati e paesi ricchi di materie prime ha incrementato i rapporti di interscambio: il Nord ha bisogno di allargare i propri mercati e il Sud di importare risorse tecnologiche. L’interdipendenza economica crea le basi per una migliore comunicazione non solo fra Nord e Sud, ma per la distensione mondiale. È la condizione stessa dello sviluppo.

Dopo aver letto il Rapporto e poco prima di partire per il suo viaggio in America Latina, Berlinguer prepara la Carta per la pace e lo sviluppo: nella sua riflessione, la ricerca di un nuovo ordine internazionale, con le sue implicazioni economiche, sociali e morali, diventa centrale. La Carta riprende in forma sintetica tutte le tematiche affrontate nel Rapporto e presenta il problema Nord/Sud in forma di programma politico in cui un’attenzione specifica è rivolta al ruolo dell’Italia e dell’Europa. Una riforma ragionevole del mondo secondo i principi prospettati da Brandt è possibile. L’interdipendenza fra popoli e nazioni non ha ridotto la distanza fra Nord e Sud, la popolazione di due terzi del mondo vive in condizioni di povertà e arretratezza e mai come ora il rapporto fra pace e sviluppo è necessario. Solo emancipando quei due terzi dell’umanità, il mondo sarà più sicuro e lo sviluppo sarà reale anche per i paesi industrializzati la cui crescita è impensabile se più di metà del mondo muore di fame.

Le rivoluzioni socialiste hanno emancipato popoli, riscattandoli dal sottosviluppo che storicamente è un prodotto del capitalismo imperialistico. Berlinguer ripropone nella Carta lo schema teorico della contrapposizione fra socialismo e capitalismo, della crisi del capitalismo e della necessità storica del suo superamento attraverso la diffusione del socialismo nel mondo. Ma fa un passo avanti. Una frattura profonda segna il mondo attuale: la crisi degli anni Settanta ha incrinato la crescita economica dei paesi capitalistici che dal dopoguerra era stata prorompente e incontrastata. Si è rotto il ciclo economico e politico scaturito dagli accordi di Bretton Woods. La crisi energetica e l’inflazione che colpiscono il mondo capitalistico sono le conseguenze e non le cause di una nuova guerra imperialistica, per ora solo virtuale, il cui obiettivo strategico è una politica di potenza e di saccheggio delle risorse del pianeta da parte dei paesi industrializzati. Esiste dunque un rapporto fra crisi del mondo capitalistico e rinvigorita corsa al riarmo per accaparrarsi l’uso del mondo. USA e URSS condividono una politica di potenza che giustifica l’uso della forza per garantirsi vantaggi economici e supremazia politica. La crisi economica ha spinto l’amministrazione Reagan a inasprire lo scontro fra Nord e Sud, concepito come naturale contrapposizione fra l’America che consuma e le aree depresse del mondo che le forniscono materie prime. Ma la logica dei blocchi contrapposti si riflette anche sulla accresciuta tensione fra Est e Ovest. La Carta denuncia il ruolo dell’URSS nella crisi della distensione mondiale: «L’intervento in Afghanistan – scrive Berlinguer – […] ha avuto effetti negativi per la distensione mondiale e la causa della liberazione dei popoli».

La soluzione dei rapporti fra Nord e Sud sta in un progetto molto ambizioso che la Carta di Berlinguer sviluppa in sintonia con il Rapporto Brandt: è la costruzione di un nuovo modello sociale in cui si produca di più e meglio, in cui gli sprechi siano aboliti e ci sia spazio per la crescita soggettiva. Insomma bisogna pensare una nuova etica dello sviluppo. Per i paesi industrializzati, promuovere sviluppo nelle aree depresse del mondo dovrà significare soprattutto costruire un modello di società di tipo globale-integrale. Globale nella trasformazione della produzione, nella riorganizzazione dei consumi. Integrale nei principi di una nuova etica dei rapporti sociali che all’individualismo, edonismo e consumismo, dilaganti nelle società industriali avanzate, sostituisca i valori di una società socialista. Riforma dello Stato sociale, ma anche riforma morale e intellettuale. Lo sviluppo presuppone un’attenzione specifica ai nuovi bisogni e alle nuove speranze che agitano il mondo contemporaneo e di cui sono portatori i soggetti emergenti, le donne, i giovani, gli emarginati. La fascia debole dell’umanità è il corrispettivo sociale delle aree depresse del mondo che chiede diritto di esistenza, di sopravvivenza, di cittadinanza. Il nuovo assetto del mondo dovrà raccogliere questa ansia di liberazione.

Le socialdemocrazie tedesca e svedese e il laburismo inglese, che Berlinguer definisce la socialdemocrazia “seria”, si sono occupate soprattutto dei lavoratori sindacalmente organizzati. «poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. […] Noi – sostiene Berlinguer – abbiamo messo al centro della nostra politica non solo gli interessi della classe operaia propriamente detta e delle masse lavoratrici in generale, ma anche quelli degli strati emarginati della società». Il PCI, insiste Berlinguer, deve ascoltare bisogni e speranze dei nuovi soggetti. Non c’è solo la classe operaia: nella nuova strategia politica del segretario comunista entra con forza inaspettata la protesta diffusa delle masse non protette, non organizzate, non sindacalizzate.

La differenza fondamentale fra il tipo di società prefigurato da Brandt e quello di Berlinguer sta nel rapporto sviluppo/socialismo. Il modello socialdemocratico è la risposta meccanica, funzionale, ai nuovi bisogni della società. Punta a costruire un mondo di progresso. A fare del moderno Stato sociale il terreno di una nuova convivenza civile e democratica. Ma secondo Berlinguer ha spezzato la sua radice teorica col socialismo. Il paradosso della socialdemocrazia occidentale è insomma il suo ispirarsi a un modello di società in cui ci siano norme giuridiche progressive, democrazia diffusa, servizi sociali, ma senza socialismo. Berlinguer sposta l’accento sul socialismo, spinta ideale di qualunque riforma democratica. Più democrazia e più socialismo saranno gli ingredienti del nuovo PCI. Non solo l’una o solo l’altro. Perché nel primo caso si ha l’appiattimento della società in forme di democrazia sociale, progressive, ma senza ideali; nell’altro si cade nel rischio di creare uno Stato socialista ideologico che non sa rinnovarsi e persegue una politica di potenza e di autoaffermazione.

Nella sua idea di socialismo Berlinguer unisce insieme il pragmatismo delle socialdemocrazie occidentali e l’idealismo rivoluzionario che quelle avrebbero perduto. Propone un’idea di socialismo che dovrà diffondere nel mondo, al Nord e al Sud, le idee di libertà, uguaglianza e democrazia. È un socialismo di tipo nuovo, gramsciano nell’ispirazione e togliattiano nella realizzazione. Un socialismo che valorizza le vie nazionali di avanzata verso il socialismo sulla base di un processo rivoluzionario che è soprattutto morale e intellettuale. Che guarda avanti perché accoglie bisogni e speranze dei nuovi soggetti balzati sulla scena della storia accanto alla vecchia classe operaia: i giovani, le donne, le masse non protette. In tale prospettiva, il nemico principale resta il capitalismo nella sua forma esasperata, ovvero quel capitalismo che corrisponde a una certa fase avanzata dello sviluppo industriale e che si preoccupa della crescita produttiva, del benessere individuale, dei nuovi consumi, ma non della qualità dello sviluppo. L’antidoto all’esasperazione consumistica delle società industrializzate occidentali, alla disperazione e alla solitudine delle società del benessere è per Berlinguer l’etica socialista. Insomma, ciò che differenzia profondamente questo tipo di socialismo globale/integrale dalla tradizione del socialismo italiano di matrice positivistica, che è diventata parte integrante della cultura politica della sinistra italiana, è l’idea che il progresso non è sempre fonte di felicità, non è una linea retta che procede senza scosse e senza impedimenti verso il benessere dell’umanità: se non è sorretto da contenuti etici, può diventare una catastrofe.

Lo sviluppo industriale è necessario, ma nel mondo attuale, è aumentato il rischio di abuso di progresso, di un suo uso perverso. Il progresso industriale e tecnologico incrementa e perfeziona la produzione di armi sempre più micidiali, danneggia l’ambiente provocando disastri ecologici, alimenta il consumismo sfrenato, radicalizza la distanza fra un Nord sempre più ricco e un Sud sempre più povero. L’etica socialista può riconvertire lo sviluppo distorto. Può trasformare i1 capitalismo cattivo in un modello economico e politico di tipo socialista e democratico.

Il progetto politico di Berlinguer rimane intrappolato in una contraddizione. Come Brandt, il segretario del PCI pensa a costruire un modello di sviluppo avanzato, ma si ostina a ribadire che qualunque modello sociale basato su meccanismi di produzione di tipo capitalistico non è un modello etico. Il modello delle società a capitalismo avanzato è un modello sociale malato. La contraddizione della strategia politica di Berlinguer all’inizio degli anni Ottanta sta proprio nell’irrisolto rapporto fra necessità di uno sviluppo avanzato e progressivo, ricalcato in tutto e per tutto sul modello delle socialdemocrazie europee, e l’idea di un socialismo etico, demiurgo dei guasti e dello sfacelo prodotti dal capitalismo. Il confronto con le socialdemocrazie europee fa emergere una sempre più netta difformità fra i riformismi europei e la politica del PCI. Fra le politiche economiche e sociali dei partiti socialdemocratici di Svezia, Austria e della Repubblica federale tedesca, che puntano allo sviluppo del “welfare”, e il rigorismo, l’austerità e i sacrifici proposti dal PCI.

Nell’ultima fase della sua vita Berlinguer intraprende una nuova riflessione, tesa alla ridefinizione e al rinnovamento dell’idea di socialismo e alla costruzione, interrotta dalla sua improvvisa scomparsa, di una nuova cultura di governo socialista, più democratica e più aperta alle problematiche e ai conflitti del mondo contemporaneo. Berlinguer condivide e rilancia la cosiddetta “terza fase”, che significa andare oltre le degenerazioni prodotte dal capitalismo, oltre i rischi di involuzione delle società dell’Est europeo (che hanno perso la spinta propulsiva a rinnovarsi). Dal capitalismo si può uscire per via democratica. Quello a cui pensa Berlinguer non è un modello socialdemocratico, ma una forma di socialismo “democratizzato”.

Questo nuovo socialismo ricalca la gramsciana rivoluzione morale e intellettuale e le strategie del potere che, all’inizio degli anni ‘20, Gramsci aveva prefigurato valorizzando la peculiarità e la diversità delle vie nazionali al socialismo. Differenziandosi da Brandt e dal suo programma di rifondazione politica della SPD, ma anche, per certi versi, dal Gramsci di Americanismo e fordismo, Berlinguer non crederà mai che il capitalismo in quanto tale possa avere un carattere innovativo comportando forme di modernizzazione della società. Brandt spera in un mondo in cui sviluppo e progresso siano compatibili con una nuova qualità dell’esistenza. Condivide con Berlinguer la sfiducia in un progresso che sia sempre fonte di benessere: lo sviluppo sociale, economico, tecnologico ha cioè un forte potenziale distruttivo se non è sorretto da contenuti etici. Ma crede in un modello di società che sappia coniugare benessere individuale e forme avanzate di sviluppo capitalistico. Crede nelle potenzialità innovative del capitalismo. Berlinguer nega invece che possano coesistere nel medesimo modello di società benessere soggettivo, giustizia, uguaglianza accanto al capitalismo nella sua attuale forma globalizzata. Il mondo che Berlinguer vede fra la fine del decennio Settanta e l’inizio degli anni Ottanta è ancora drammaticamente segnato dal muro contro muro fra socialismo e capitalismo. Fra un socialismo in marcia verso una profonda revisione democratica dei suoi principi e le forme “degenerative” del capitalismo. La stessa dualità irriducibile si rispecchia nel divario crescente fra un Nord industrializzato e un Sud oppresso e depauperato.

Nell’estate dell’‘80, nel decimo anniversario della presa del potere di Unidad Popular, Berlinguer invia al senatore Ugo Miranda, presso la Casa del Cile, una sua lunga testimonianza su Salvador Allende. Lo scritto, conservato fra le carte del segretario comunista, ripercorre in particolare gli ultimi tre anni della democrazia cilena che si erano chiusi tragicamente con il colpo di Stato dell’11 settembre ‘73 e con l’assassinio di Allende. A pochi mesi da quella che sarà definita la “seconda svolta di Salerno”, ovvero la strategia dell’alternativa democratica presentata da Berlinguer alla fine di novembre dell’‘80, queste pagine sulla situazione cilena offrono importanti spunti di riflessione che gettano luce anche sul nuovo corso della politica del PCI. Nel ’73, dall’analisi dell’esperienza cilena era nata la strategia del compromesso storico. A differenza di allora, scrive Berlinguer, per le responsabilità della DC nel degrado della vita pubblica italiana, il PCI vuole ora diventare il perno della nuova coalizione di alternativa democratica. Ma come allora il PCI tiene fermi due principi fondamentali: che non si può governare senza avere un largo consenso popolare che venga da tutte le forze democratiche del paese e che proprio questa larga rappresentanza politica è l’unica garanzia contro possibili tentativi di svolta autoritaria. «Proprio questa permanenza di un comune terreno democratico – scrive Berlinguer – era venuto a mancare in Cile nell’estate del ‘73».

La democrazia cilena non è riuscita a saldare in un’ampia maggioranza sociale, prima che elettorale, l’alleanza delle masse popolari e dei ceti medi contro la destra nazionalistica e oligarchica. Il caso cileno resta un paradigma. Ma in Italia come si fa l’alternativa democratica? Per governare il paese non basta la rivoluzione morale. Ci vogliono alleati di governo. La nuova strategia proposta da Berlinguer cade in un paradosso: punta a fare del PCI il perno, il “pilastro rivoluzionario” di un ampio schieramento di forze laiche e progressiste che governi il paese contro lo sfascio del sistema politico, ma accentua il carattere etico del maggiore partito di opposizione, la sua diversità o qualità morale superiore, scavando così un solco fra il PCI e gli altri partiti.

All’inizio degli anni Ottanta, l’America Latina è un osservatorio speciale perché è insieme terra di fame e sottosviluppo, ma è anche una parte del mondo in cui 1a speranza socialista è viva. Che tipo di socialismo esiste nel Centro America? A Cuba, prima tappa del suo viaggio che, nell’ottobre dell’‘81, proseguirà in Nicaragua e Messico, Berlinguer ha un colloquio di sette ore con i vertici del Partito comunista cubano sui problemi e le contraddizioni del Sud socialista del mondo. A Cuba, sostiene Fidel Castro, come in altri paesi del subcontinente latino-americano, il socialismo non può che essere rivoluzionario. A dispetto della tradizione politica occidentale, a Cuba il socialismo si impone con la forza, non con la democrazia: «Io avevo una strategia rivoluzionaria – afferma Fidel Castro – prendere il potere attraverso la lotta armata […] A noi […] non passa per la testa la necessità del pluripartitismo […] Per noi non sono valide le forme storiche della democrazia borghese, siamo per […] la dittatura del proletariato». Il socialismo dell’America Latina è settario e dogmatico. E come Berlinguer avrà modo di constatare proseguendo il suo viaggio in Nicaragua e in Messico, un’economia debole e dipendente si accompagna a forme di socialismo difettose e precarie. Il dato nuovo che emerge dal viaggio di Berlinguer è che il sottosviluppo non favorisce la democratizzazione del socialismo.

Ma rinnovare il socialismo è anche un impegno a rinnovare il modo di fare politica. Mentre nell’ottobre dell’‘81 Berlinguer parla dalla tribuna del XX Congresso del Partito comunista messicano, all’Università di Firenze che gli conferisce la laurea honoris causa in Scienze politiche, Brandt pronuncia un discorso in cui riprende i temi della distensione e dello sviluppo a misura d’uomo. Berlinguer sottolinea a penna alcune parti di tale discorso, la cui copia è conservata fra le sue carte. Ancora una volta Brandt e Berlinguer sono in sintonia. Per entrambi la politica è uno strumento formidabile per cambiare il mondo e per viverci meglio. È un’azione dotata di senso che non restringe il suo campo alle piccole manovre del giorno per giorno. Ma incontra ostacoli perché è lontana dalle modalità correnti, dagli interessi personali, dalle clientele. A rischio di sembrare perdente e utopistica, sa leggere le contraddizioni del nostro tempo. Il mondo in cui speravano e per cui operarono Brandt e Berlinguer continua a non esistere. E i timori della guerra globale, di uno sviluppo che distrugge l’ambiente, di una politica senza etica, si sono avverati.

Enrico Berlinguer è morto nel 1984, ma molte delle sue idee-forza possono essere utili ancora oggi.

Articolo di Guido Liguori

Anche per quel che concerne la politica internazionale – vera e propria passione del comunista sardo e palcoscenico centrale della sua attività politica – e in particolare lo scenario europeo, le prospettive della sinistra oggi in Europa, dopo la vittoria di Tsipras in Grecia. È a partire da queste convinzioni che Futura Umanità, l’associazione nata per studiare e diffondere «la storia e la memoria del Pci», insieme alle fondazioni e agli istituti culturali della Linke e di Syriza e al gruppo parlamentare europeo Gue/Ngl, hanno promosso un incontro internazionale in programma per venerdì prossimo a Roma (Auditorium di via Rieti 11, dalle ore 9.30). Sia per ricordare l’eurocomunismo di Berlinguer, il suo dialogo con le correnti di sinistra delle socialdemocrazie europee, il suo proficuo incontro con Altiero Spinelli; sia per valutare il cammino fatto e da fare per «la costruzione di una sinistra nuova in Europa», come recita una sessione del convegno.

Oltre l’esperienza sovietica

Berlinguer vedeva nel capitalismo un sistema che rendeva strutturalmente instabile la pace e a rischio la sopravvivenza del genere umano e del suo ambiente; la fonte insuperabile di crisi economiche, di fenomeni di disoccupazione di massa e di impoverimento, di sfruttamento e alienazione dei lavoratori. E considerava endemici i rischi di autoritarismo e fascismo, tanto da scrivere che «proprio per salvare la democrazia, per renderla più ampia, più forte, più ordinata possibile bisogna superare il capitalismo». Nel contempo, al centro dell’azione di Berlinguer vi è stata, soprattutto dopo l’invasione di Praga del 1968, la convinzione che il modello di socialismo per cui potevano essere chiamate a lottare le classi subalterne dei paesi a capitalismo avanzato. Nel contempo, al centro dell’azione di Berlinguer vi è stata, soprattutto dopo l’invasione di Praga del 1968, la convinzione che il modello di socialismo per cui potevano essere chiamate a lottare le classi subalterne dei paesi a capitalismo avanzato non poteva che essere diverso da quello del socialismo autoritario nato con l’esperienza sovietica. Quali connotati doveva avere allora questa società socialista per la quale si batteva Berlinguer? Pur riconoscendo i meriti storici della Rivoluzione russa del ’17 e dell’Urss, egli affermava che i comunisti italiani avevano «coscienza dei limiti» di quella esperienza, innanzitutto del fatto che essa negava alcune fondamentali libertà politiche. Non solo Berlinguer, in polemica coi sovietici, dichiarò ripetutamente che il Pci intendeva avanzare verso il socialismo «su una via democratica»: egli arrivò a sostenere proprio a Mosca, nel 1977, in occasione dell’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, che la democrazia è un «valore universale» e che dunque una società socialista non può essere davvero tale se non è democratica. Ovviamente anche per la democrazia – sosteneva Berlinguer – non esiste un unico «modello» che «vada bene per tutti». Il parlamento è dunque uno strumento utile per esercitare la volontà popolare, ma può essere affiancato da altri strumenti democratici, più diffusi e più capaci di favorire la partecipazione. Non erano solo e tanto le forme della rappresentanza a definire per Berlinguer la democrazia, poiché esse possono variare, a seconda delle tradizioni, dei costumi, delle esperienze storiche. Quello che era indispensabile per Berlinguer era «il riconoscimento del valore delle libertà personali e della loro garanzia; i principi della laicità dello Stato, della sua articolazione democratica, della pluralità dei partiti, dell’autonomia del sindacato, delle libertà religiose, della libertà della cultura, dell’arte, delle scienze… una pianificazione che faccia leva sulla coesistenza di varie forme di iniziativa e di gestione pubblica e privata». Era questa via di costruzione del socialismo nella libertà il cuore della proposta politica che fu detta dell’eurocomunismo prima e poi della «terza via», intesa come una via diversa sia dal socialismo autoritario sovietico, sia dalla socialdemocrazia che aveva rinunciato a cambiare il sistema capitalistico. Bisognava insomma aprire una «terza fase» della lotta per il socialismo, dopo che quelle della Seconda e della Terza Internazionale avevano esaurito la loro «spinta propulsiva».Profondamente intrecciata con la proposta eurocomunista appare la nuova attenzione per la Comunità europea (come si chiamava allora la Ue) che i comunisti italiani dimostrano negli anni Settanta. Berlinguer vedeva l’Europa come fondamentale in primo luogo per la lotta per la pace, per la distensione internazionale, una «distensione dinamica» che non fosse accettazione dello status quo, ma permettesse anzi di superare le rigide delimitazioni imposte dagli accordi di Yalta. Ma anche per il tema, connesso, di un diverso governo mondiale delle risorse e di «un nuovo ordine economico internazionale», che non condannasse alla morte per fame e per sete milioni di persone: questo terreno, come è noto, costituì il luogo di incontro con due leader socialdemocratici di sinistra come il tedesco Willie Brandt e lo svedese Olof Palme.

Il rapporto con Spinelli

Certo Berlinguer non ignorava il fatto che il processo di unità europea fosse anche condotto da forze legate «a strutture capitalistiche che noi vogliamo trasformare», ma pensava che la sfida andasse accettata, «portando la lotta di classe a livello europeo». Una lotta che aveva come obiettivo la democratizzazione della Comunità europea, la costruzione di «un’Europa dei popoli e dei lavoratori», come presupposto perché il «socialismo nella libertà» divenisse la via maestra per arrestare il declino del Vecchio Continente. Anche perché la soluzione – affermava Berlinguer – non poteva essere quella di chi, anche allora, predicava il ripiegamento nei vecchi Stati nazionali. Su queste basi avvenne l’incontro con Altiero Spinelli, che si batteva per passare «da un semplice “mercato comune” a una “unificazione politica dell’Europa”». Il padre del federalismo europeo fu eletto nelle liste del Pci sia nel parlamento italiano che in quello di Strasburgo, e del gruppo comunista europeo divenne anche vicepresidente, intessendo con Berlinguer un dialogo fatto di qualche dissonanza, ma soprattutto di convergenze e battaglie comuni. Di questi temi, di evidente attualità, parleranno venerdì a Roma studiosi e politici italiani, tedeschi, greci, francesi e spagnoli. Tra essi Heinz Bierbaum (Die Linke), Paolo Ciofi, Gianni Ferrara, Eleonora Forenza, Gilles Garnier, Haris Golemis (Syriza), Alexander Höbel, Rita Maestre (Podemos), Curzio Maltese, Maite Mola (Izquierda Unida), Gerard Streiff, Aldo Tortorella e molti altri. Alexis Tsipras, che a dicembre aveva promesso la sua partecipazione, ora ha, per fortuna sua e anche nostra, altro da fare. Ma si tratta di una battaglia comune.

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