Novant’anni dopo Livorno. Il PCI nella storia d’Italia. Alexander Höbel, Marco Albeltaro. Editori Riuniti 2015

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A poco più di novant’anni dal Congresso di Livorno, che diede inizio alla storia del Partito comunista italiano, e a oltre venti dal suo scioglimento, questo libro si propone di esaminare alcuni momenti essenziali di quella importante esperienza storica. Dagli anni del fascismo e della clandestinità, allorché il Pcd’I rimase di fatto l’unica forza organizzata in Italia, al ruolo di primo piano svolto nella Resistenza; dalla nascita del «partito nuovo» di Togliatti allo sviluppo degli anni Sessanta, dai successi e dalle contraddizioni degli anni di Berlinguer alla crisi successiva, il Pci è stato per 70 anni un protagonista della storia politica e civile italiana. Sciolto nel 1991, la sua memoria è stata rimossa e spesso deformata, ed è oggi quasi assente dal senso comune della «seconda Repubblica». Il presente volume, frutto di due convegni promossi nel 2011 dall’Associazione Marx XXI, cui si sono aggiunti i contributi di altri autorevoli studiosi – da Aldo Agosti a Renzo Martinelli, da Claudio Natoli ad Albertina Vittoria – intende fornire un contributo alla conoscenza e alla ricostruzione critica di quella esperienza, troppo frettolosamente accantonata, e che invece offre ancora molti spunti preziosi a chi si batte per la trasformazione dell’esistente e in particolare alle nuove generazioni.

Alexander Höbel (Napoli, 1970) è dottore di ricerca in storia e si occupa in particolare di storia del movimento operaio e comunista. Ha pubblicato vari saggi sulla storia del Pci, ha curato il volume Il Pci e il 1956, La Città del Sole 2006, ed è autore dei libri Il Pci di Luigi Longo (1964-1969), Edizioni scientifiche italiane 2010, e Luigi Longo, una vita partigiana (1900- 1945), Carocci 2013. Collabora con la Fondazione Istituto Gramsci e con la Fondazione Luigi Longo. Coordina il Comitato scientifico dell’associazione Marx XXI.

Marco Albeltaro (Biella, 1982) è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Culture, politica e società dell’Università di Torino. Oltre a numerosi saggi in riviste italiane e straniere, ha pubblicato: L’assalto al cielo. Le ragioni del comunismo, oggi (a cura di, La Città del Sole 2010); La parentesi antifascista. Giornali e giornalisti a Torino (1945-1948) (Seb27 2011), Le rivoluzioni non cadono dal cielo. Pietro Secchia, una vita di parte(Laterza 2014). È redattore di Historia Magistra. Rivista di storia critica. Nel 2012 gli è stato conferito il Premio Nicola Gallerano.

 

INDICE

7 Introduzione di Alexander Höbel e Marco Albeltaro

 

Parte I Un partito rivoluzionario negli anni della reazione

17 Domenico Losurdo «Marxismo occidentale» e «marxismo orientale»: una scissione infausta

51 Renzo Martinelli Livorno 1921. Nasce il Partito comunista

71 Gianni Fresu Gramsci, dal Congresso di Lione ai Quaderni: il partito e l’analisi della società italiana

87 Marco Albeltaro Fare politica nonostante il fascismo. Appunti sulla «svolta»

131 Claudio Natoli Il movimento comunista e il fascismo nell’Europa tra le due guerre

166 Delfina Tromboni Il Partito comunista e le donne: «questione femminile» o questione maschile? Prime note sull’organizzazione delle donne comuniste (1921-1947)

 

Parte II Il Pci tra costruzione della democrazia e guerra fredda

201 Ferdinando Dubla Il Partito comunista nella Resistenza (1943-45)

222 Ruggero Giacomini Dalla Resistenza alla «democrazia progressiva». Un partito di massa per l’Italia repubblicana

235 Salvatore D’Albergo La funzione costituente del «Partito nuovo»

263 Albertina Vittoria Il Pci e gli intellettuali. La politica culturale dei comunisti e l’Istituto Gramsci dal dopoguerra alla morte di Togliatti

291 Giorgio Inglese Un «intellettuale organico». Ricordo di Carlo Salinari

 

Parte III Dal consolidamento alla liquidazione

297 Alexander Höbel Pci, centro-sinistra, programmazione democratica. Come incidere nella realtà stando all’opposizione

314 Vittorio Gioiello Nella crisi degli anni Settanta. I nodi della segreteria Berlinguer

341 Gaetano Bucci Il Pci e la questione dello Stato

351 Guido Liguori La fine del Pci: un esito evitabile?

360 Fausto Sorini e Salvatore Tiné Alle origini della Bolognina e della «mutazione genetica». Un contributo per tenere aperta la riflessione storica

387 Aldo Agosti L’«età dell’oro» della storiografia sul Partito comunista italiano (1960-1989)

 

408 Gli autori

415 Indice dei nomi

Quando c’era Berlinguer

Articolo sul film di Walter Veltroni di Giuseppe Pierino* 

come recita il titolo del film di Veltroni – la crisi s’addensava all’orizzonte. Per scongiurarla egli cercò un’intesa per un cambiamento radicale: rinnovare la democrazia, riformare la politica, trasformare il sistema economico-sociale. Lottò per moralizzare la vita pubblica e impedire che i partiti occupassero e degradassero lo stato. E immaginò una politica d’austerità fatta non di lacrime e sangue come sta avvenendo, ma di tagli a sprechi, privilegi e consumi superflui per riconvertire il modello produttivo, garantire a tutti standard di vita più elevati, “dare un senso e uno scopo… ad una scelta obbligata, duratura e al tempo stesso condizione di salvezza”. Dunque austerità per un cambiamento culturale profondo, consumi pubblici e privati volti a un generale arricchimento umano, piena sostenibilità ambientale. Ma superata col suo aiuto l’emergenza petrolifera, DC e ceto politico gli voltarono le spalle nel pieno dell’attacco terroristico; il tentativo naufragò nel muro di gomma della DC intenta a spremere, logorare ed isolare i comunisti ed il fallimento del compromesso storico sgombrò la strada ad una crescente degenerazione della vita pubblica, all’impoverimento del tessuto produttivo e al declino. L’eccessivo indebitamento servì infatti a garantire una più tranquilla sopravvivenza, perpetuare il potere dominante, fiaccare le coscienze illudendole d’un benessere illimitato mentre si dissipavano risorse immense a scapito delle generazioni future. Così l’Italia si votò a un ceto politico-affaristico (dal Caf: Craxi Andreotti Forlani, sino a Berlusconi) finito poi alla gogna, e passo dopo passo precipitò nel degrado stupendamente descritto da Sorrentino ne La grande bellezza.
Strappare Berlinguer da questo contesto è come togliergli l’anima. Qui si rivela la sua proposta, la peculiarità ed attualità del suo pensiero, l’assillo per le sorti del paese: la questione morale, l’austerità, la diversità, il senso dello stato che caratterizzarono la sua riflessione e la sua azione politica. Per chi l’avversò è difficile comprenderlo. Ma come uscire dalla crisi, in una fase pur così diversa: la globalizzazione, la finanziarizzazione dell’economia, la stretta che affoga l’Italia sfuggendo alle questioni allora poste da Berlinguer? Dopo l’uccisione di Moro egli si svincolò dall’abbraccio mortale della DC con realismo ed onestà. Il guado non fu certo semplice, “rischiammo – disse a Scalfari – una sconfitta che poteva metterci in ginocchio”. Tuttavia non ebbe il tempo per radicare e mettere in sicurezza l’alternativa democratica anche per le resistenze interne al gruppo dirigente che la considerava una linea moralistica e identitaria, non la necessaria correzione di rotta. Come andò a finire, è noto. Ma la dura realtà avrebbe chiarito quant’era lucida l’analisi, coerenti le proposte, profetico lo sguardo sul futuro: “I partiti non fanno più politica…hanno occupato lo stato e le sue istituzioni…la questione morale, nell’Italia d’oggi, fa un tutt’uno con l’occupazione dello stato…è il centro del problema italiano… se si continua in questo modo la democrazia rischia di restringersi…di soffocare in una palude” (intervista a Scalfari del 28.7.1981). Tutto appare oggi più chiaro, ma non c’e chi lo riconosca tra quanti respingevano, in nome della modernità, l’insistente richiamo giudicato pauperizzante, regressivo e impolitico secondo un arretrato cliché avversato dal pensiero ambientalista e fatto a pezzi dai teorici della decrescita.
Il film di Veltroni inquadra, in apertura, frotte di giovani che non sanno più chi fosse Berlinguer. E a scorno dei suoi eredi tornano in mente i versi: “Sugli estinti/non sorge fiore, ove non sia d’umane/lodi onorato e d’amoroso pianto”. Le immagini hanno un forte potere evocativo e possono suggestionare e commuovere. Sfugge ai più che può far sua l’idea della diversità chi la ritenne una vana riaffermazione d’orgoglio; o che i vertici del PDS-DS si fossero presto convertiti a un ideale di normalità al punto che su euromissili, scala mobile, alternativa democratica un suo segretario rinnegasse spudoratamente la “deriva identitaria e solipsistica di un partito che di fronte al presente non [seppe] opporsi alle sirene del passato”. Del resto ben riassume le ragioni del distacco l’odierno epitaffio d’un vecchio dirigente al passo coi tempi: “La storia di Berlinguer e della sua epoca è storia conclusa. Siamo entrati in un’epoca diversa. Lo vedo con i miei, mi rispettano, mi amano ma non capiscono cosa c’è stato”. Ma è difficile contestare che l’Italia affronti invece un passaggio sconvolgente senza scorgerne il senso, e una guida capace, nel vuoto lasciato dalla sinistra.
La trama del film presenta scarti notevoli: difetta il lungo apprendistato, la crescita intellettuale e umana del dirigente comunista mentre sfuggente è il Berlinguer delle battaglie sociali, dell’alternativa e della diversità: diversità dagli altri partiti, diversamente da come pare intenderla Napolitano, nonché immunizzazione del proprio rispetto alle inevitabili tentazioni. Carenze che inficiano la parte più curata relativa al dibattito, ed allo scontro, che ha attraversato il movimento comunista internazionale: la natura autoritaria e burocratica del socialismo reale, la necessità d’aprirsi alla democrazia, l’autonomia dei singoli partiti e la ricerca di nuove relazioni internazionali. Resta in ombra, infatti, il suo esser comunista, portatore semmai di una più evoluta concezione ideale che fu del PCI pur nell’aspra critica del socialismo realizzato. Come scrisse Pintor, egli “fece di un ideale un modo d’essere”, e fu amato per questa sua semplicità, coerenza, tenacia più che per la sua timidezza e l’apparente fragilità.
Si è detto che con Berlinguer è morto il PCI, cosa vera solo nel senso che sarebbe stato altrimenti impossibile liquidarlo in quel modo. Il PCI in realtà morì quando Natta fu defenestrato con un colpo di mano nel totale silenzio del gruppo dirigente. La caduta del muro offrì solo un pretesto, ma ormai corroso nei gangli decisivi il suo destino era segnato. Altri invece argomenta che il disegno politico di Berlinguer – dal compromesso storico all’alternativa, alla difesa della scala mobile – sia naufragato per cause e limiti intrinseci. Cosa non vera, pur non mancando gli errori: il compromesso storico, segnato dal golpe in Cile, era infatti una costruzione complessa, di largo respiro, suggerita dall’analisi pessimistica della situazione italiana, dei rapporti internazionali e dell’aggressività dell’America. Non un cedimento in cambio, magari, di qualcosa, ma un diverso e più avanzato terreno di lotta che non giustificava pertanto un’eccessiva fiducia nella DC e forse, nella fase d’avvio, avrebbe richiesto tempi più lunghi, maggiore cautela e cura al rapporto col PSI di De Martino e le altre forze laiche e democratiche. Ma questo è altro discorso. E purtroppo una perdurante reticenza ha impedito di far piena luce sulla vicenda da cui prese l’abbrivio la scomparsa del PCI e la presente deriva.
I protagonisti restano legati a un riserbo sconosciuto nel vecchio PCI, ma il diverbio tra Tortorella e Macaluso (esplicitatosi sul Corriere della sera dopo l’uscita del film, sull’isolamento dell’ultimo Berlinguer nello stesso gruppo dirigente del suo partito) sottende una storia che brucia ancora. Duole perciò che non ci sia storico interessato a indagare. E’ un po’ come per la guerra fredda, la grande impostura che ha drammaticamente deviato il corso della storia e ancora condiziona le scelte politiche, guardata con remissività. Ma un colossale imbonimento, o la silenziosa copertura d’una interessata rimozione, non può cancellare il diritto dell’uomo a conoscere, e vivere, il suo mondo reale.

*Già Deputato eletto nelle liste del Pci – Nato a Cetraro (Cosenza, Calabria) il 15 gennaio 1937

Un libero contadino che coltiva la Repubblica. Togliatti e le campagne

Alexander Höbel, dal saggio di Alfonso Pascale “Un libero contadino che coltiva la Repubblica. Togliatti e le campagne”. 

«Palmiro Togliatti era nato a Genova in una famiglia tipica della piccola borghesia piemontese. I genitori erano maestri elementari e lui era terzo di quattro fratelli. Nel retro della casa di Sondrio, dove si erano trasferiti quando lui era ancora bambino, c’era un orto, a cui la mamma Teresa accudiva per integrare il bilancio familiare. Lì Palmiro e i suoi fratelli avevano imparato ad allevare ogni sorta di animali e a coltivare fiori e ortaggi. Per due mesi dell’estate andavano a vivere a duemila metri in un fienile affittato per poche lire e si nutrivano del cibo dei pastori. Nei pochi giorni di riposo concessigli dal lavoro, il padre Antonio faceva da guida ai ragazzi in lunghissime gite. L’amore per la terra e la passione per le escursioni in montagna non lo abbandoneranno mai più. I nonni paterni vivevano a Coassolo Torinese ed erano proprietari di poco più di un ettaro di terreno, coltivato a prato e a pascolo e con qualche albero da frutta; qualche pecora e pochi animali da cortile completavano il loro magro patrimonio. Col suo puntiglio storico e filologico, il futuro capo del PCI andrà alla ricerca delle origini della sua famiglia e scoprirà che fin dal 1300 i suoi antenati erano “liberi contadini”. “Come vede – scrive a Carlo Trabucco – non mi mancano i titoli di nobiltà, e quella vera”. In questo scritto esaminerò le ricadute di queste peculiarità della cultura politica dei comunisti sulla vita democratica del paese e sull’evoluzione storica e mentale della società civile non già in termini generali ma guardandole da una particolare visuale: quella dell’apporto di Togliatti all’elaborazione di politiche per l’agricoltura e alla costruzione di iniziative di massa nelle campagne. Restringere il campo di osservazione a siffatto ambito non significa scegliere un modo più agevole per indagare una questione complessa, ma vuole essere un modo per mettere a fuoco uno snodo essenziale della modernizzazione del paese: il passaggio da una società prevalentemente agricola ad una società prevalentemente industriale. E in tale trasformazione un Togliatti inedito e poco studiato sorprendentemente si rivela, come vedremo, protagonista di primo piano. Ma prima vediamo in cosa consistono le principali novità introdotte dal capo del PCI, come queste si siano venute delineando nella maturazione del suo pensiero politico, soprattutto nel periodo della sua permanenza a Mosca, e come si traducono nelle scelte di politica agraria e nella costruzione del rapporto con le masse rurali.»

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