Le idee-forza del comunismo di Enrico Berlinguer

Relazione di Guido Liguori al Convegno “Enrico Berlinguer e i giovani. un’altra idea del mondo” – Roma 8 maggio 2014

1. Si è tornati quest’anno a parlare di Enrico Berlinguer, in occasione del trentennale della morte, sono stati pubblicati o ripubblicati libri dedicati alla sua vita e al suo pensiero, sono stati organizzati e sono previsti vari convegni, è stato fatto persino un film, un documentario che ha avuto successo e che ha riempito le sale dei cinema.

Eppure dobbiamo chiederci se si stia dando davvero – con l’insieme di queste iniziative – un esauriente contributo di verità, ovvero se si stia davvero ricostruendo in modo adeguato la figura e soprattutto il pensiero di quello che fu il più popolare segretario del Partito comunista italiano, il Pci.

Dico questo perché a mio avviso l’immagine di Enrico Berlinguer che scaturisce dalla maggior parte di queste ricostruzioni è una immagine parziale. È una immagine che tende soprattutto a sottolineare la onestà di Berlinguer, la sua dirittura etica, la sua battaglia contro un modo corrotto di fare politica.

 
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I “pensieri lunghi” di Enrico Berlinguer su innovazione tecnologica e futuro dell’umanità

Relazione di Gennaro Lopez al Convegno “Enrico Berlinguer e i giovani. un’altra idea del mondo” – Roma 8 maggio 2014

Nel dicembre del 1983, dunque appena sei mesi prima di quel tragico 11 giugno 1984, E. B. viene intervistato su l’Unità da un ventinovenne Ferdinando Adornato. Si tratta di un testo per la verità scarsamente divulgato e ancor meno studiato. Eppure, per chi voglia approfondire la radici culturali della stessa strategia politica berlingueriana, si tratta di un fonte ricca e preziosa. L’argomento è il medesimo richiamato nel titolo di questa comunicazione. Nella conversazione si prende spunto dal noto romanzo di George Orwell intitolato 1984, con ovvia allusione, quindi, all’anno che stava per aprirsi, ma soprattutto in quanto espressione di una corrente di pensiero e letteraria tendente a presentare il progresso scientifico come fenomeno disumanizzante, che annullerebbe le specificità individuali delle persone. Il libro di Orwell, pubblicato nel 1948, B. lo aveva letto nel 1950, cioè in un periodo in cui la tendenza dominante era quella di vedere nello Stato totalitario e disumanizzante descritto da Orwell “una metafora dell’Unione Sovietica”. Va subito detto che B. non mostra particolare simpatia per Orwell: tutt’altro. Rimanendo nello stesso “genere” (la letteratura cosiddetta “distopica”), giudica Huxley (autore di Brave new world, 1932; trad. it. Il mondo nuovo) scrittore più raffinato e Jack London (autore di The Iron Heel, 1908; trad. it. Il tallone di ferro) scrittore più valido. Ma, al di là dei gusti letterari, importa sottolineare, di questa valutazione negativa, due aspetti: il primo è che “il mondo ha tradito la profezia di Orwell”, “il segno di fondo dei processi storici mondiali è stato un altro” (crollo degli imperi coloniali, processo di liberazione delle donne, un generale processo mondiale di elevazione culturale degli uomini); il secondo aspetto è che dietro la letteratura distopica tende a celarsi “un tradizionale sentimento delle élites intellettuali, che di fronte a tutti i fatti che significano socializzazione della cultura o della politica si ritraggono con l’impressione che questo poi finisca per schiacciare la vita dell’individuo, la creatività, l’arte”. “Portata all’estremo, questa diventa una posizione reazionaria. I periodi di grandi trasformazioni possono anche comportare, temporaneamente, abbassamenti del livello culturale, della creatività ma, insieme, mettono in campo nuove energie, nuovi intelletti, nuove forze. Conta in modo decisivo la capacità di orientare e governare questi processi”. “Tutti questi mezzi danno maggiori possibilità di arrivare a una dimensione onnilaterale dell’uomo proprio perché sono portatori dei un enorme arricchimento delle conoscenze, e offrono la possibilità di una cultura politecnica”. Qui è evidente l’eco di teorizzazioni marxiane e gramsciane; altrettanto evidente è la volontà di rilanciare una visione utopica costruttiva in opposizione alla negatività di ogni distopia. Lo dice esplicitamente: “Bisogna avere il coraggio di un’utopia che lavori sui ‘tempi lunghi’ per utilizzare sempre nuove scoperte scientifiche per migliorare la vita degli uomini e per guidare consapevolmente i processi economici e sociali. Cos’è il socialismo se non questo? E’ la direzione

consapevole e democratica, quindi non autoritaria, non repressiva, dei processi economici e sociali con il fine di uno sviluppo equilibrato, della giustizia sociale e di una crescita del livello culturale di tutta l’umanità”. Utopia che non è, dunque, né attesa messianica né sogno dell’impossibile, ma visione della società e del mondo che ispira l’agire politico. Se mi si passa l’ossimoro, siamo qui in presenza di una sorta di ‘utopica concretezza’, di una razionale ma non rassegnata concezione della storia: “non sono mai mancate e non mancheranno nel futuro della storia dell’uomo interruzioni brusche, rotture, anche involuzioni, periodi di tirannide, fanatismo, oppressione”, ma qui entra in gioco la politica. Quando B. ricorre ad espressioni come “orientare”, “governare”, “guidare consapevolmente”, “direzione consapevole e democratica”, allude a funzioni proprie della politica. Illuminante, a questo proposito, un altro passaggio dell’intervista ad Adornato: “Credo sia sempre più forte il bisogno di reinvestire la politica di ‘pensieri lunghi’, di progetti. Naturalmente questi pensieri devono essere sorretti da un’analisi scientifica della realtà, altrimenti si trasformano in vuote proclamazioni retoriche”. Precisazione quanto mai utile per comprendere che il riferimento teorico resta quello di Marx, con una presa di distanza da suggestioni proprie dell’illuminismo, poi del positivismo e infine dell’ideologia capitalistica degli anni del “boom economico”, tendenti a prefigurare una sorta di progresso inarrestabile dell’umanità. Già nel maggio dell’82, al congresso della FGCI, B. aveva affermato: “Per tutti gli anni ’60 imperava il vacuo ottimismo del progresso incessante, del benessere che si sarebbe via via diffuso in tutti gli strati della popolazione e a tutte le nazioni. Ma negli ultimi anni la realtà ha richiamato la necessità di una visione più lucida del futuro del mondo”. Sottolineo questo dato, del rigore teorico e di analisi del segretario comunista, mai sufficientemente approfondito, a me sembra. Eppure si tratta di tema ricorrente nelle sue argomentazioni. Quando Adornato gli chiede delle conseguenze che a livello teorico l’innovazione tecnologica può comportare, alla luce della riduzione del peso sociale della classe operaia a vantaggio di lavoratori intellettuali, tecnici, ricercatori, la risposta di B. è molto netta: egli ritiene, infatti, che sia “assolutamente da respingere l’idea che questi nuovi processi costituiscano una confutazione del marxismo e del pensiero di Marx in particolare. Il carattere sociale della produzione (e anche dell’informazione come fattore di produzione) è sempre ancora in contrasto con il carattere ristretto della conduzione economica. Questo assunto di Marx non è smentito neanche dalla rivoluzione elettronica”. Un rigore teorico, quello di B., che sarebbe tuttavia davvero sbagliato assimilare ad una sorta di ortodossia o di dogmatismo, dal momento che nello stesso contesto rivendica a se stesso e al suo partito di aver superato “tante incrostazioni ideologiche, anche proprie del marxismo”. E già nel 1976, parlando ai giovani a Milano, aveva affermato con nettezza: “la storia reale non tollera schemi” ed aveva esortato quegli stessi giovani a “cercare il nuovo con passione, con severità e con rigore … [in quanto] i giovani e le ragazze sono i più interessati, i più pronti a cogliere tutte le novità che si presentano, e i più disponibili a impegnarsi per far camminare queste novità”. Nello stesso discorso, dopo aver rilevato che dal disagio della società capitalistica “nasce quella che si potrebbe definire (e che i giovani avvertono in modo particolarmente acuto) l’infelicità dell’uomo di oggi”, indicava “la necessità di uscire dal capitalismo e di andare verso una società superiore … capace di continuare a far progredire le forze produttive, la tecnica, la scienza … [perché]

vogliamo affrontare le sconfinate distese del mare aperto per approdare a una nuova società a misura dell’uomo”. Se, dunque, dovessimo o volessimo definire con un solo aggettivo l’atteggiamento di B. di fronte alla rivoluzione tecnologica, ricorrerei al termine “laico”. Egli stesso afferma che “l’atteggiamento più corretto di fronte alle nuove rivoluzioni tecnologiche sia quello di considerarle in partenza come ‘neutrali'”. Si tratta perciò di ragionare su potenzialità e rischi. Tra i possibili rischi, B. prende in considerazione quello di una possibile passivizzazione della società, anche perché –egli dice- “i governi di quasi tutti i paesi del mondo contano sulla passività dei loro sudditi”. Qui ci sarebbe lo spunto per aprire un’interessante riflessione su come B. consideri il potere e, in particolare, alcuni centri del potere (i governi, gli apparati, i complessi militari-industriali), ma andremmo fuori tema. Per tornare, invece, al tema: rispetto ad altri fenomeni (quelli, per esempio, legati a “nuove espressioni di fanatismo ideologico o religioso che possono, in qualche paese, prendere il sopravvento”), il rischio di una crisi delle istanze di partecipazione democratica prodotta dall’uso delle nuove tecnologie viene circoscritto, in virtù di una innata tendenza dell’uomo alla “associazione collettiva”: “credo che questa sia una esigenza irrinunciabile dell’uomo e continuerà a esistere anche se in forme diverse dal passato … certo si può immaginare un mondo nel quale la politica si riduca solo al voto e ai sondaggi; ma questo sarebbe inaccettabile perché significherebbe stravolgere l’essenza della vita democratica … ci vogliono limiti precisi all’uso dei computer come alternative alle assemblee elettive … io credo che nessuno mai riuscirà a reprimere la naturale tendenza dell’uomo a discutere, a riunirsi, ad associarsi”. Alla luce di quanto poi è accaduto negli anni successivi e di quanto, ancor di più, accade oggi, si potrebbe essere tentati di definire “ottimistica” questa previsione, ma va ribadito che B. assegnava un ruolo forte alla capacità della politica di orientare, dirigere, governare questi processi innovativi: di qui l’apparente ottimismo. Tuttavia, egli aveva già chiaro un ritardo culturale e politico (una sorta di pigrizia intellettuale) che la sinistra tendeva ad accumulare di fronte ai temi della rivoluzione elettronica, tanto che al giovane Adornato rivolge quasi un rimprovero: “Avevo proposto circa un anno e mezzo fa, al Congresso della FGCI, l’idea di un convegno di futurologia che affrontasse non soltanto i problemi dell’economia e dell’industria, ma tutto intero l’arco delle questioni del nostro futuro … siamo di fronte ad una vera e propria ‘crisi del mondo’. Viviamo in un’epoca per molti aspetti suprema della storia dell’uomo, sia per le possibilità che per i rischi. Pensavo ad un convegno che mettesse insieme studi e analisi di ambiti diversi: le scienze fisiche, chimiche, biologiche, antropologiche, demografiche, informatiche, mediche … un convegno che guardasse al futuro con un po’ di fantasia ma sempre sulla base delle acquisizioni e previsioni delle varie scienze”. In effetti, proprio davanti alla platea di giovani di quel congresso della FGCI, il 25 maggio del 1982, B. aveva proposto una serie di considerazioni impegnative ed esplicite: “Dobbiamo … al progresso continuo delle scienze sperimentali le possibilità davvero inaudite e straordinarie che si aprono per migliorare la vita del genere umano … occorre riflettere bene intorno alle occasioni offerte dalla scienza per non smarrire il significato della loro portata, per cogliere quali prospettive positive possono essere aperte e quanto gravi siano, di contro, le limitazioni, le contraddizioni, i rischi generati dai vincoli sociali e politici e da un uso distorto delle scienze e delle tecniche … Quanti nel mondo – e come – pensano davvero a problemi di questa natura muovendo da

un’analisi oggettiva e da una visione che abbia al suo centro la preoccupazione per il futuro dell’umanità? … Come si possono affrontare queste contraddizioni senza porsi l’obiettivo di una trasformazione degli attuali sistemi di rapporti tra gli uomini e di una guida più razionale e più democratica dei processi economici e sociali sul piano nazionale, europeo e mondiale?” Nel volere stabilire un nesso, una relazione tra politica, saperi, scienze e destini dell’uomo trovo interamente espresso lo straordinario spessore del pensiero e della visione politica di E. B. Il suo orizzonte è il mondo, nella sua globalità, e l’esigenza di renderlo più umano. C’è, in questo, una continuità di discorso che a me pare smentisca in radice chi ha voluto – e vuole – vedere due fasi nettamente distinte nella biografia politica di B. Segnalo a questo scopo, in ordine cronologico, una serie di citazioni che mi sembrano estremamente eloquenti. Febbraio 1969, XII Congresso del P.C.I.: “Noi sbaglieremmo se ci chiudessimo nella visione, non dico del nostro paese, ma anche di quella parte dell’Europa e del mondo che è formata da paesi di capitalismo maturo … Il rilancio dell’internazionalismo … passa attraverso metodi e forme nuovi, e nuovi universali contenuti … per la pace, per il progresso materiale, civile e culturale, per la libertà di tutti i popoli e dell’intera umanità”. Dicembre 1974, Comitato Centrale in preparazione del XIV Congresso del P.C.I.: “Vi sono atteggiamenti pseudo- rivoluzionari di negazione dello sviluppo produttivo, della scienza e della tecnica … Contro le tendenze irrazionalistiche e nichilistiche e contro le correnti oscurantistiche ci battiamo perché si abbia fiducia nella ragione, nella capacità di intervento degli uomini in quanto si uniscono fra loro in società”. Marzo 1975, XIV Congresso del P.C.I.: avanza l’ “ipotesi di un ‘governo mondiale’ che sia espressione del consenso e del libero concorso di tutti i paesi … [per] una nuova fase caratterizzata dall’attiva costruzione di un solido e sicuro assetto mondiale di coesistenza pacifica e di cooperazione per lo sviluppo dell’intera umanità e per la giustizia in ogni parte della Terra” [attraverso una lotta che sconfigga imperialismo e capitalismo]. Ottobre 1976, Comitato Centrale del P.C.I.: il tema di fondo è quello dei cosiddetti “elementi di socialismo”; sottolinea la necessità di collegare la lotta per una politica economica rigorosa alla trasformazione della società e alla sua umanizzazione; l’umanizzazione della convivenza civile avrà conseguenze positive sull’emancipazione della donna e per l’avvenire della giovani generazioni. Novembre 1978, intervista a l’Unità: “Promuovere una concertata divisione internazionale del lavoro che dia luogo progressivamente alla formazione di un mercato unico mondiale”. Marzo 1979, XV Congresso del P.C.I.: “Il mondo di oggi è più unito che nel passato, per alcuni tratti di fondo – di vita e di morte – che sono comuni a tutti i paesi e all’intera umanità. Il mondo di oggi, inoltre, è più unito per i nuovi legami di interdipendenza e reciproca influenza: nei campi dell’economia, delle ricerche e conquiste scientifiche energetiche e spaziali, e della medicina; nel campo dell’informazione, assurta a così nuova e decisiva importanza; nel campo del costume. E’ un mondo più unito che nel passato, perché oggi le idee – correnti filosofiche e politiche, ispirazioni e fedi religiose, gusti e modi di sentire, tendenze dell’espressione e dell’arte – hanno mezzi nuovi per attraversare barriere e rapidamente propagarsi nelle aree più vaste. Ed è un mondo unito, crediamo, anche per l’inquietudine di larga parte dell’umanità: in quanto essa, per opera delle stesse conquiste umane, è posta di fronte a un orizzonte sconfinato di progresso scientifico e tecnico e di possibilità di dominio della natura; ma, nel tempo stesso, è posto di fronte

alla crescente difficoltà di vedere su quali vie e verso quali sbocchi sta camminando … La pace è indivisibile. Indivisibili sono lo sviluppo e la libertà di tutti i popoli. Indivisibile è il destino dell’uomo. Su tutti i problemi sovrasta e incombe quello della salvaguardia della pace e della salvezza dell’umanità.” [Fa poi esplicito riferimento a Togliatti: intervista a “Nuovi Argomenti” del 1954 e discorso sul “Destino dell’uomo”, Bergamo 1963]. Ottobre 1979, comizio a Lisbona: “Decisiva è oggi, per il genere umano, la costruzione di un nuovo ordine economico internazionale … opponendosi decisamente all’imperialismo, al colonialismo, al neocolonialismo, al razzismo”. Dicembre 1981, Comitato Centrale del P.C.I.: “Necessità di una guida razionale del mondo. Ciò è diventato ormai una necessità vitale per l’umanità, vitale nel senso che è in gioco la vita stessa del genere umano, il suo futuro.”; “Aprire concretamente la strada all’affermarsi di una nuova qualità dell’esistenza dell’uomo, a trasformazioni profonde degli indirizzi e dei fini dello sviluppo.” Alla luce di quanto si è detto mi sembrerebbe non azzardato parlare di un “cosmopolitismo umanistico” di E. B., che va molto oltre l’internazionalismo di matrice marxiana, pur costantemente presente, e al tempo stesso risente dell’influenza di correnti culturali alle quali il dirigente comunista fu certamente sensibile fin dagli anni della sua formazione. All’eco del pensiero mazziniano che risuonava, com’è noto, nella casa paterna, allo studio dei classici del marxismo, altre letture concorsero all’elaborazione del suo pensiero; possiamo ipotizzarle: da Norbert Wiener [1894-1964, padre della moderna cibernetica] a Erich Fromm [1900-1980, teorico di un “umanesimo socialista”], da Robert Jungk [1913-1994; autore di “Il futuro è già cominciato” (1952, ed. it. Einaudi), “Gli apprendisti stregoni” (1956, ma pubblicato nel 1977), “L’onda pacifista” (1983, ed. it. Garzanti)] a Pierre Theilard de Chardin [1881-1955; gesuita, scienziato, teologo, teorico di un “nuovo umanesimo”]. Tutte ipotesi da verificare. Ma ho per certo che con B. e con gli sviluppi del suo pensiero si sarebbe stati in grado di contrastare, almeno culturalmente, la globalizzazione di stampo capitalistico e la sinistra, le forze progressiste non si sarebbero trovate nel guado melmoso in cui ancora oggi sono immerse.

Tre lasciti di Enrico Berlinguer

Dall’intervento di Paolo Ciofi al convegno «Berlinguer e i giovani: un’altra idea del mondo», Roma 8 maggio 2014.

ciofi-berlinguer_430vertEnrico Berlinguer è vissuto e ha lottato in un’altra epoca storica. Da allora i cambiamenti sono stati radicali in Italia, in Europa e sull’intero scenario globale, ma i problemi che Berlinguer denunciava – lo sfruttamento della persona umana, la fame nel mondo e i pericoli di guerra, la disoccupazione e la distruzione dell’ambiente, l’oppressione della donna e il disagio giovanile – non sono scomparsi, al contrario si sono per molti versi aggravati. In tale condizione si può e si deve lottare per un civiltà superiore, oltre questa società capitalistica ingiusta e alienante: per una società nuova, di tipo socialista in cui si possano pienamente affermare, attraverso l’espansione della democrazia, i principi di libertà, di uguaglianza e di solidarietà, posti peraltro a fondamento della nostra Costituzione. Questo ci dice Berlinguer lungo tutto il suo percorso di dirigente comunista. E questo è un suo primo lascito fondamentale: l’idea – direi di più, la teoria e la pratica – della trasformabilità del sistema capitalistico, della società in cui viviamo.

La peggiore sconfitta è quella di non dare battaglia per una causa giusta, per combattere le ingiustizie e le sofferenze del mondo di oggi, che colpiscono soprattutto i giovani, espropriati del presente e del futuro. Perciò occorre contrastare alcune falsificazioni ideologiche che hanno fatto molta strada. Non è vero che dopo il capitalismo c’è un salto nel buio, un buco nero nel quale dovrebbe precipitare l’umanità. La storia non è finita. E le cosiddette leggi dell’economia non sono immodificabili leggi di natura, ma relazioni tra gli esseri umani che attraversano la storia. E dunque si possono cambiare. Oggi è proprio la crisi del capitalismo del XXI secolo, esplosa sul finire del 2007, che oscura il presente e il futuro dell’umanità, e rischia di far precipitare in un buco nero intere generazioni. Secondo l’economista francese Thomas Piketty, autore di un corposo volume intitolato «Il capitalismo del XXI secolo», già diventato un best seller negli Stati uniti e in Inghilterra, le disuguaglianze soffocano la società e stanno distruggendo un’intera civiltà. Per evitare che ciò avvenga – questa è la sua tesi – bisogna fare esattamente il contrario di ciò che le classi dirigenti stanno facendo, vale a dire assecondare i mercati. «La questione centrale è semplice – afferma Piketty su la Repubblica del 6 maggio – la democrazia e le autorità pubbliche devono essere messe nella condizione di poter riacquistare il controllo del capitalismo finanziario e di regolamentarlo in maniera efficace». Di fronte a questa questione di fondo la politica attuale nel migliore dei casi appare impotente. Dunque, occorre cambiare il senso, le finalità e la pratica della politica. E qui interviene il secondo lascito di Berlinguer: c’è bisogno, come lui sosteneva, di una rivoluzione copernicana della politica, a partire dai contenuti. Ciò comporta il rovesciamento della concezione attuale del partito politico, vale a dire l’abbandono di ogni visione elitaria, verticale, padronale. Non più il leader padrone del partito, ma il leader al servizio del partito, di una libera associazione di donne e di uomini che si uniscono per cambiare lo stato di cose presente.

Quindi, la politica come servizio, come impegno sociale, come impegno culturale e morale, non come mezzo di arricchimento e di corruttela per la tutela dei propri interessi personali e di gruppo. In proposito è opportuno ricordare le parole di Togliatti, cui Berlinguer si ispirava: «Fare politica significa agire per trasformare il mondo. Nella politica è quindi contenuta tutta la filosofia reale di ognuno, nella politica sta la sostanza della storia e, per il singolo che è giunto alla coscienza critica della realtà e del compito che gli spetta nella lotta per trasformarla, sta anche la sostanza della sua vita morale. […] Non vi può essere dubbio che la politica, in questo modo intesa, [è]collocata al vertice delle attività umane». Se dunque, come sostiene Piketty, il problema di oggi è mettere sotto controllo il capitalismo finanziario, è ovvio che ciò non si può ottenere se i sistemi politici sono conformati, a livello nazionale ed europeo, sugli interessi della finanza e della grande proprietà capitalistica. La sinistra, in proposto, viene chiamata direttamente in causa. Esiste o non esiste (come sostiene Tony Blair) oggi una differenza tra destra e sinistra? E cosa vuol dire oggi essere di sinistra? Qui emerge, in tutta la sua corposa attualità, il terzo lascito di Berlinguer. Secondo il segretario del Pci essere di sinistra significa stare dalla parte del lavoro, non del capitale; dalla parte degli sfruttati e degli oppressi, uomini e donne; dalla parte degli emarginati, di chi non ha voce né rappresentanza. Di tutti coloro che sono colpiti dalla crisi del sistema e che vivono nella precarietà. Ma anche di quelle figure professionali che emergono dalla rivoluzione scientifica e digitale, che ha cambiato a tutti i livelli i modi di lavorare e di vivere, senza trascurare ampi strati della piccola e media imprenditoria. Berlinguer guardava avanti. Alla domanda come deve affrontare il partito la nuova epoca caratterizzata dalla rivoluzione elettronica, rispondeva così: «Innanzitutto bisogna impadronirsi il più possibile» della conoscenza dei fenomeni nuovi. «Credo che dobbiamo considerare come un dato ineluttabile la progressiva diminuzione del peso specifico della classe operaia tradizionale. […] Alcuni traggono da ciò la conclusione che la classe operaia è morta. Secondo me non è così. A condizione che si sappiano individuare e conquistare alla lotta per la trasformazione socialista altri strati della popolazione che assumono anch’essi, in forme nuove, la figura di lavoratori sfruttati come i lavoratori intellettuali, i tecnici, i ricercatori. Sono anch’essi, come la classe operaia, una forza di trasformazione. E poi ci sono le donne, i giovani… […] Il carattere sociale della produzione (e anche dell’informazione come fattore di produzione) è sempre ancora in contrasto con il carattere ristretto della conduzione economica. Questo assunto di Marx non è smentito neanche dalla rivoluzione elettronica».

paolo-ciofi-con-berlinguer2In conclusione. Per porsi oggi all’altezza delle sfide del nostro tempo, c’è bisogno di un cambio di cultura e di comportamenti. Non si tratta solo di sconfiggere la cultura dell’egoismo proprietario e dell’individualismo esasperato. Tutti noi, vecchi e giovani, dobbiamo riabituarci a lottare, acquistando consapevolezza di noi stessi e abbattendo la gabbia culturale- mediatica in cui siamo stati rinchiusi come cittadini e lavoratori, mediatizzati e declassati al ruolo di subalterni, se non di sudditi che chiedono per favore ciò che ci spetta per diritto. Dal diritto stiamo camminando all’indietro verso la restaurazione della carità e della benevolenza del sovrano, sia esso un manager, un proprietario universale, un finanziere, un capo del governo, un burocrate europeo. Senza la lotta non si ottiene niente, ci insegna Berlinguer. Il quale sosteneva che «non ci può essere inventiva, fantasia, creazione del nuovo se si comincia dal seppellire se stessi, la propria storia e realtà». Seppellire se stessi, la propria storia e realtà, aggiungeva citando Francois Mitterrand, sarebbe «il gesto suicida di un idiota». Occorre dunque dare battaglia sul fronte culturale per recuperare qual filone del pensiero critico e della politica come mezzo di trasformazione della realtà che da Gramsci si dipana attraverso Togliatti e Longo fino a Berlinguer. Il progetto c’è. È la Costituzione, nella quale sta scritto che la principale disuguaglianza risiede nella distribuzione della proprietà, che secondo l’articolo 42 deve svolgere una «funzione sociale», e deve essere resa «accessibile a tutti». Il tema è particolarmente attuale, in un paese nel quale secondo le analisi del Censis il patrimonio delle 10 persone più ricche è uguale a quello di mezzo milione di famiglie operaie.

Con Berlinguer si raggiunge il punto più alto nella lotta, duramente contrastata con tutti i mezzi, per una civiltà più avanzata secondo i principi costituzionali. La sua grandezza stanel tentativo di aprire una via nuova in Europa di fronte alla crisi del capitalismo in Occidente e del socialismo realizzato ad Oriente. Quel tentativo non è riuscito, ma questo non vuol dire che le ragioni di Berlinguer non fossero fondate. Per questo motivo il segretario del Pci non è un nostalgico bene rifugio in tempi di crisi della politica, è una guida per l’azione. Cerchiamo allora di restituire a Berlinguer la caratteristica che gli è propria: quella di essere un moderno rivoluzionario. «Tutte le lotte che noi combattiamo – sono sue parole – tendono ad affermare una nuova gerarchia di valori, che abbia al centro l’uomo e il lavoro umano, che esalti le virtù più alte e serie dell’uomo: la solidarietà, l’uguaglianza, la libertà, la giustizia». Oggi viviamo dentro una contraddizione clamorosa: siamo in presenza di una pletora di “innovatori”, i quali si sbracciano in tutti i modi per conservare il sistema sociale esistente, che opprime, impoverisce e sfrutta milioni di esseri umani. Al contrario, c’è bisogno di un rivoluzionamento della società, e che i giovani si impadroniscano della propria vita e della costruzione consapevole del proprio destino. Tornano di particolare attualità le parole di Gramsci: istruitevi perché c’è bisogno di tutta la vostra intelligenza, organizzatevi perché c’è bisogno di tutta la vostra forza.

“Berlinguer e i giovani: un’altra idea del mondo” Incontro con gli studenti di Roma Tre

Seminario-Convegno svolto nell’Aula Volpi dell’Università Roma Tre l’8 maggio 2014 sul tema “Berlinguer e i giovani: un’altra idea del mondo”

Relazioni

Le idee-forza del comunismo di Enrico Berlinguer – Guido Liguori

I “pensieri lunghi” di Enrico Berlinguer su innovazione tecnologica e futuro dell’umanità – Gennaro Lopez

Tre lasciti di Berlinguer – Intervento conclusivo di Paolo Ciofi

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Enrico Berlinguer, “La sinistra verso il 2000”

2a6860fc0557dfcedeae93f4f101c49aIntervista a «l’Unità», 18 dicembre 1983, ora in E. Berlinguer, Un’altra idea del mondo. Antologia 1969-1984, a cura di P. Ciofi e G. Liguori, Editori Riuniti 

Quando hai letto «1984», che reazioni ti ha suscitato?

Lo lessi nel 1950, appena uscito in edizione italiana. E la reazione che ebbi allora fu probabilmente molto influenzata dall’utilizzazione che del libro si fece durante la guerra fredda: antisovietica e anticomunista. Tutti videro infatti nello Stato descritto da Orwell una metafora dell’Unione Sovietica. Oggi non è più così. Oggi lo si può rileggere con maggiore distacco e anche apprezzarne alcune intuizioni. Tuttavia mi pare che quel romanzo contenga un decisivo difetto: è pervaso da un’ossessione sull’ineluttabilità della fine dell’individuo e delle sue espressioni che ne condiziona tutto l’impianto. E ne condiziona anche la “profezia”. Orwell lo scrisse nel 1948. Bene, cosa è successo nel mondo da allora? Certo, abbiamo assistito anche al rafforzamento di tendenze autoritarie e dispotiche, ma il segno di fondo dei processi storici mondiali è stato un altro: pensa al grandioso processo di liberazione costituito dal crollo degli imperi coloniali e quindi dal risveglio di interi popoli prima abbrutiti (e non certo abbrutiti dall’uso dei computer); pensa ai nuovi traguardi raggiunti nel riscatto delle masse proletarie e povere dei paesi industrializzati, pensa al processo di liberazione delle donne. Tutti questi dati, visti nel loro insieme, cosa altro sono se non gli indicatori di un generale processo mondiale di elevazione culturale degli uomini? No, se guardiamo alla storia del secondo dopoguerra ci accorgiamo che il mondo ha tradito la “profezia” di Orwell. Il mondo è andato in un’altra direzione.

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Sì, ma la rivoluzione elettronica è appena agli inizi. I suoi sviluppi non sono ancora immaginabili. Tu come vedi il futuro di questa terza rivoluzione industriale: come un futuro di libertà o come un futuro di autoritarismo? Ti segnalo un dato curioso: allora il libro fu interpretato come una metafora del dispotismo sovietico. Oggi uno storico di quel paese come Medvedev sostiene che i computer apriranno un processo di liberalizzazione. Invece in America, proprio lì dove l’elettronica è più avanti, sta nascendo una grande paura.

Credo che l’atteggiamento più corretto di fronte alle nuove rivoluzioni tecnologiche sia quello di considerarle in partenza come «neutrali». L’esito di queste rivoluzioni, infatti, così come è sempre accaduto nel passato, non dipende dallo strumento in sé, ma dal modo col quale gli uomini decidono di utilizzarlo. Per essere più chiaro io vedo oggi la possibilità di due processi contemporanei: da una parte l’uso della microe¬lettronica per rafforzare il potere dei gruppi economici domi¬nanti, il potere di quello che in una parola viene chiamato il complesso militare industriale. Dall’altra però vedo una grande diffusione di nuove conoscenze che può portare ad un arricchimento di tutta la civiltà.

E per quanto riguarda l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti?

I dati che mi hai riferito sono interessanti. Tuttavia io non mi sentirei di fare una profezia in quel senso. Non mi sentirei di dire che in Unione Sovietica i computer porteranno sicura¬mente ad una liberalizzazione e che negli Stati Uniti invece si andrà verso un’involuzione. Le profezie lasciamole a Orwell. Anche se le ha sbagliate. (…)

Insistiamo ancora sul tema dell’elettronica. Come deve prepararsi il partito ad affrontare questa nuova epoca?

Innanzitutto bisogna impadronirsi il più possibile della conoscenza di questi fenomeni. A tutti i livelli. Su questa base bisogna poi definire politiche adeguate a stimolare, a orientare, controllare e condizionare le innovazioni in modo che non siano sacrificate esigenze vitali dei lavoratori e dei cittadini. Ma bisogna anche saper vedere i problemi che si pongono per la composizione sociale del partito. Credo che dobbiamo ormai considerare come un dato ineluttabile la progressiva diminu¬zione del peso specifico della classe operaia tradizionale. Le congiunture economiche possono, di volta in volta, accelerare o decelerare questa tendenza. Con le lotte sindacali e politiche si deve poi intervenire in questi processi, per evitare che essi assumano un carattere selvaggio e si risolvano in un danno per i lavoratori. Ma la tendenza è quella. Alcuni traggono da ciò la conclusione che la classe operaia è morta e che con essa muore anche la spinta principale alla trasformazione. Secondo me non è così. A condizione che si sappiano individuare e, conquistare alla lotta per la trasformazione socialista altri strati della popolazione che assumono, anch’essi, in forme nuove, la figura di lavoratori sfruttati come i lavoratori intellettuali, i tecnici, i ricercatori. Sono anch’essi, come la classe operaia, una forza di trasformazione. E poi ci sono le donne, i giovani…

Si può arrivare a dire che i lavoratori intellettuali sostituiranno la classe operaia tradizionale?

È una domanda che si spinge molto avanti nel tempo. Forse avanti di alcuni decenni. Comunque già oggi i processi industriali spingono a far sostituire da questi strati notevoli settori di classe operaia. Mi pare però che sia assolutamente da respingere l’idea che questi nuovi processi costituiscano una confutazione del marxismo e del pensiero di Marx in partico¬lare. Il carattere sociale della produzione (e anche della informazione come fattore di produzione) è sempre ancora in contrasto con il carattere ristretto della conduzione economica. Questo assunto di Marx non è smentito neanche dalla rivoluzione elettronica.

Ma in un mondo nel quale le informazioni, anche le più sofisticate, possono arrivare direttamente nelle case della gente, resisterà il partito di massa? Avrà ancora senso un partito che costruisce un proprio sistema autonomo di informazione con gli iscritti? L’elettronica non spezzerà il circuito della partecipazione?

La questione esiste ed è anche più ampia di quella che tu poni. Non riguarda solo il Pci e i partiti di massa ma riguarda il destino e le possibilità stesse dell’associazione collettiva. Io francamente credo che questa esigenza sia una esigenza irrinunciabile dell’uomo e continuerà ad esistere anche se in forme diverse dal passato. La lotta, la pressione di massa saranno sempre necessarie. Certo si può immaginare un mondo nel quale la politica si riduca solo al voto e ai sondaggi; ma questo sarebbe inaccettabile perché significherebbe stravolgere l’essenza della vita democratica…

Ma già si parla di «democrazia elettronica»: la gente risponde da casa ai quesiti posti sul video dall’amministrazione…

La «democrazia elettronica» limitata ad alcuni aspetti della vita associata dell’uomo può anche essere presa in considerazione. Ma non si può accettare che sostituisca tutte le forme della vita democratica. Anzi credo che bisogna preoccuparsi di essere pronti ad affrontare questo pericolo anche sul terreno legislativo. Ci vogliono limiti precisi all’uso dei computer come alternative alle assemblee elettive. Tra l’altro non credo che si potrà mai capire cosa pensa davvero la gente se l’unica forma di espressione democratica diventa quella di spingere un bottone. Ad ogni modo lo ripeto: io credo che nessuno mai riuscirà a reprimere la naturale tendenza dell’uomo a discutere, a riunirsi, ad associarsi. Ogni epoca, certo, ha e avrà i suoi movimenti e le sue associazioni. Vedi, per esempio, nella nostra i movimenti pacifisti, i movimenti ecologici, quelli che, in un modo o nell’altro, contrastano la omologazione dei gusti e il conformismo: chi avrebbe saputo immaginarli quaranta o anche venti anni fa? Naturalmente compito dei partiti dovrà essere quello di adeguarsi ai tempi e alle epoche. È qui che si misura la loro tenuta: sulla loro capacità di rinnovarsi.

Quindi tu non credi che anche partiti storici come quelli della vecchia Europa possano diventare solo dei partiti-immagine…

Possono, certo che possono. Ma intanto bisogna attrezzarsi per saper essere anche partiti-immagine e partiti d’opinione. Il rischio è quello di diventare solo questo. Perché sarebbe un impoverimento non solo della vita politica, ma della vita dell’uomo in generale.

Il rischio segnalato dagli intellettuali che si occupano di queste materie è che l’immagine tende progressivamente a svuotare di significato le parole, i contenuti, la sostanza di una linea per appiattirla al modello pubblicitario. Vince chi ha la reclame più efficace…

Dietro a questa e ad altre paure che vengono segnalate rispetto alla rivoluzione elettronica c’è spesso un tradizionale sentimento delle élite intellettuali che di fronte a tutti i fatti che significano socializzazione della cultura o della politica si ritraggono con l’impressione che questo poi finisca per schiacciare la vita dell’individuo, la creatività, l’arte. Del resto è stato così anche per Orwell. E non era neanche una grandissima novità perché era stato preceduto da altri che avevano la stessa «ossessione» ed erano anche scrittori più raffinati di lui come Huxley. Io credo che, in linea generale, bisogna avere un atteggiamento critico verso questi sentimenti, che, anche quando non esprimono la volontà di mantenere esclusive certe posizioni di privilegio intellettuale, finiscono per opporsi alla diffusione della cultura.

Gùnter Grass nel suo articolo dice: sì d’altra parte gli intellettuali sono poi pronti a sostenere il contrario il giorno dopo che le rivoluzioni sono avvenute…

No, io non sto accusando gli intellettuali di opportunismo. Dico solo che, in genere, l’intellettuale non accetta volentieri i fenomeni di socializzazione e teme spesso, ma sinceramente, in buona fede, che la massificazione possa portare ad una caduta di «tono» della civiltà. Del resto questo nella storia è già accaduto. L’entrata di nuove masse nella storia talvolta ha prodotto davvero la caduta di intere civiltà. In fondo l’impero romano non è stato travolto dai barbari che erano appunto «popoli nuovi»? Ma era un fatto ineluttabile. Non ci si può opporre ad avvenimenti di questo genere schierandosi con il «vecchio» o cercando di mantenere un carattere chiuso al patrimonio culturale. Perché, portata all’estremo, questa diventa una posizione reazionaria. I periodi di grandi trasformazioni possono anche comportare, temporaneamente, abbassamenti del livello culturale, della creatività, della creazione artistica ma, insieme, mettono in campo nuove energie, nuovi intelletti, nuove forze. Conta in modo decisivo la capacità di orientare e governare questi processi.

D’accordo, ma tu come te la immagini una vita nella quale si passa ore e ore a casa di fronte ad uno schermo gigante, nella quale si hanno a disposizione video-cassette che renderanno forse anche inutile la scuola così com’è?

Intanto bisogna vedere quali sono i contenuti di queste trasmissioni ricevute a casa. Il contenuto può essere tale da spingere gli uomini in una situazione di maggiore solitudine, di maggiore frustrazione, di maggiore ostilità nei confronti degli altri oppure può avvenire il contrario. Io dico che dipende molto da questo. Naturalmente se questi strumenti diventeranno espressione di una spinta che punta a rafforzare sentimenti egoistici questo sarà una cosa molto negativa.

Allora tu dici: attenzione al contenuto. Il mezzo in sé non ha poteri…

No, anche il mezzo conta. È evidente che non andare per niente a scuola o andarci magari soltanto per un’ora cambierà la vita della gente. Ma questi aspetti sono oggi difficilmente immaginabili. Prendiamo l’esempio della scuola e del libro: naturalmente io adesso sosterrei che la lettura del libro è insostituibile e anzi deve diventare ancora più importante. E sosterrei la stessa cosa anche per la scuola, naturalmente una scuola molto rinnovata. Però, anche qui, io non mi sento di fare affermazioni assolute. È difficile immaginare un computer che crei vera poesia o una opera d’arte e da questo punto di vista è difficile non tenere conto del grido d’allarme, che tu riferivi, di Vespignani. Tuttavia non si può escludere l’ipotesi che lo stesso mezzo televisivo possa produrre cose di altissima qualità che soddisfino anche le esigenze più raffinate e più creative.

Insomma la tecnologia non distruggerà l’individuo…

Nessuna epoca ha mai raggiunto la realizzazione dell’individuo, della maggioranza degli individui. Nel passato moltissimi individui erano «distrutti» non solo sul piano morale ma anche sul piano fisico. Pensa agli schiavi nell’antichità o ai negri razziati e trasportati in America. Quante erano le persone che riuscivano a diventare «individui» nel passato? Molte meno di oggi. Ma anche nel sistema capitalistico la morte precoce per lavoro dei fanciulli nella prima rivoluzione industriale non era una distruzione? E oggi, i bambini, gli uomini, le donne, che muoiono di fame o che restano analfabeti nel Terzo mondo non sono «distrutti»? Anzi in questi casi non si può neanche parlare di distruzione ma di vero e proprio impedimento della crescita e della vita dell’individuo.

Insomma «l’uomo onnilaterale» di Marx e Gramsci potrà nascere proprio dal computer?

Mettiamola così: tutti questi mezzi danno maggiori possibilità di arrivare ad una dimensione onnilaterale dell’uomo proprio perché sono portatori di un enorme arricchimento delle conoscenze, e offrono la possibilità di una cultura politecnica.

Carlo Bernardini scrive: «È finito il tempo dei pensieri lunghi». Elmar Altvater aggiunge: non ci sono più forze in Europa capaci di esprimere grandi utopie sulla società e sullo Stato. Condividi questi giudizi?

Credo anch’io che sia sempre più forte il bisogno di reinvestire la politica di «pensieri lunghi», di progetti. Naturalmente questi pensieri devono essere sorretti da una analisi scientifica della realtà, altrimenti i progetti si trasformano in vuote proclamazioni retoriche. Ma c’è da aggiungere una cosa: il pensiero e l’azione del movimento socialista in Italia (ma anche in tutti i paesi europei) sono stati influenzati da una visione che non era propria di Marx e che veniva in parte dall’illuminismo e poi dal positivismo. Sulla base di essa si concepiva la storia dell’umanità come un progresso continuo verso traguardi sempre più alti di benessere, di cultura, di democrazia. Per certi aspetti anche l’ideologia capitalistica negli anni del «boom» ha cercato di far intendere che si era entrati in una fase di inarrestabile progresso. Tutte queste ideologie si sono rivelate fallaci: non sono mai mancate nel passato, e non mancheranno nel futuro della storia dell’uomo, interruzioni brusche, rotture, anche involuzioni. E, sono stati possibili anche periodi di fosca tirannide, di fanatismo, di oppressione. Oggi si parla di Orwell ma io ricordo prima di lui uno scrittore forse ancora più valido come Jack London immaginare nel Tallone di ferro un periodo lungo in cui tutto il mondo civile sarebbe tornato in condizioni di assoluta tirannide. Bisogna avere coscienza che questi pericoli esistono e anche che si ripresenteranno sempre in forma diversa dal passato. Ma bisogna anche avere il coraggio di una utopia che lavori sui «tempi lunghi» per raggiungere l’obiettivo di utilizzare sempre nuove scoperte scientifiche per migliorare la vita degli uomini e, nello stesso tempo, di guidare consapevolmente i processi economici e sociali. Cos’è il socialismo se non questo? È la direzione consapevole e democratica, quindi non autoritaria, non repressiva, dei processi economici e sociali con il fine di uno sviluppo equilibrato, della giustizia sociale e di una crescita del livello culturale di tutta l’umanità.

All’inizio dicevi che lo scenario catastrofico del futuro non lo vedi per l’elettronica ma per la guerra. Ti faccio una domanda che avrai già ricevuto centinaia di volte. Credi davvero alla possibilità della guerra nucleare globale?

Sì, penso sia davvero possibile. Non c’è nessuna legge storica che ci possa far dire: è impossibile. Per quanto la mente si ritragga, assolutamente inorridita, di fronte alla eventualità della fine della civiltà umana, questo non è un motivo sufficiente ad arrestare la possibilità della guerra. E direi che, negli ultimi tempi, il pericolo è diventato più reale. Infatti, mentre per una certa fase il cosiddetto «equilibrio del terrore» ha funzionato come deterrente, oggi comincia a non essere più così. Il rischio si è aggravato soprattutto per la crescente incontrollabilità dei processi economici e politici mondiali. Nello stesso tempo c’è stato un nuovo salto di qualità nella sofisticazione tecnologica delle armi. Sono stati spesi fiumi d’inchiostro, da studiosi e strateghi, per descrivere queste novità: quando ci sono strumenti coi quali si può colpire l’avversario in pochi minuti questo può far nascere la tentazione di sferrare il primo attacco. Oppure può far sorgere la paura di riceverlo e quindi, per reazione, la tentazione di sferrarlo per primi. E poi c’è l’ormai verificata possibilità dell’errore che tanti scienziati hanno più volte dimostrato come reale. Errori ad esempio nei sistemi d’avvistamento: ho letto che negli Stati Uniti sono avvenuti diversi di questi errori tutti poi corretti dopo alcuni minuti. Ed è immaginabile che altrettanto sia avvenuto in Urss. Ma questi tempi, con i nuovi missili e con altre armi, possono essere ancora ridotti e può arrivare il giorno in cui l’errore non potrà più essere corretto in tempo. E i missili, una volta lanciati, non possono essere fermati. Ma c’è di più: sento che oggi si comincia a parlare di «guerra nucleare limitata» o di «guerra nucleare vittoriosa». È già un segnale gravissimo che si parli in questi termini, che si pensi di poter uscire vittoriosi da uno scontro nucleare. E anche che qualcuno pensi di poterne uscire incolume. Questa è una concezione molto pericolosa. Ricordo un film degli anni sessanta: L’ultima spiaggia di Stanley Kramer. Si svolgeva in Australia. Un’Australia che era l’unica terra risparmiata dal conflitto nucleare. Poi alla fine erano tutti costretti ad ingoiare una pillola per uccidersi pur di evitare le atroci sofferenze provocate dalle radiazioni nucleari che, lentamente, si avvicinavano anche su quell’ultima spiaggia, su quell’ultima terra del mondo. Già negli anni sessanta si sapeva che un conflitto nucleare non lascia tregua a nessuno. Figuriamoci se non dobbiamo aver noi, oggi, ben viva questa coscienza.