Mussolini, i comunisti e il 1° Maggio

di Diego Angelo Bertozzi

Il 19 aprile del 1923 Mussolini, dall’ottobre a capo di un governo di coalizione tra forze cosiddette nazionali, annuncia: “il giorno 21 aprile dedicato alla memoria della fondazione di Roma sarà celebrata in tutto il Regno d’Italia la Festa Nazionale del lavoro e saranno passati in rassegna i reparti della Milizia volontaria” . Il capo del governo giustifica così la decisione alla Camera dei Deputati: “La grande guerra, che ha valorizzato ogni manifestazione di attività, ha sviluppato anche in tutte le classi una più profonda coscienza delle energie e del lavoro individuale. Celebrare, in un giorno all’anno, queste energie e questo lavoro è sprone ad una più fervida, proficua attività collettiva e nazionale; ed è bene che ciò sia formalmente riconosciuto in una legge dello Stato. E perché la celebrazione si ricongiunga ai ricordi della nostra storia e del genio della stirpe, il Governo ha voluto farla coincidere con la data del 21 aprile: la fondazione di Roma, data immortale da cui ha inizio il lungo, faticoso, glorioso cammino dell’Italia”. Tutta la retorica fascista, che per un ventennio coprirà e silenzierà il Paese, è qui utilizzata per cancellare dal calendario la manifestazione del Primo Maggio, che solo l’anno prima il presidente del Consiglio Facta aveva riconosciuto come giornata festiva, e per sostituirla con una di regime. Così, alle spedizioni punitive e alle efferate violenze contro le organizzazioni operaie socialiste e comuniste, tollerate quando non sostenute dagli organi statali, segue con puntualità l’attacco finale al simbolo per eccellenza del movimento dei lavoratori: quel Primo Maggio che dal 1890 ne seguiva sviluppi, vittorie e sconfitte. Primo MaggioGià negli anni precedenti in questa occasione lo squadrismo fascista aveva fatto sentire la sua presenza, tanto che nel 1921 per l’Avanti! ci si trovava di fronte al Primo Maggio “il più tragico, il più tempestoso, il più significativo tra quanti ne ha solennizzati la classe lavoratrice d’Italia”. In quasi tutto il Paese, nonostante l’astensione del lavoro sia stata ancora considerevole a Milano, Torino, Genova, Bologna, Firenze e Roma, la manifestazione si era svolta senza bandiere, senza musiche, canti e apparati festivi e organizzare comizi costituiva una intollerabile insolenza di fronte alla mobilitazione fascista. “Volete la salute? Lavorate il 1° Maggio”, recitava perentoriamente un avviso. A Torino, impedito il corteo e lo sfoggio di bandiere rosse, si era sfilato davanti alle rovine della Casa del Popolo devastata nei giorni precedenti, a Firenze si erano svolte riunioni al chiuso mentre a Mantova il terrore nero aveva costretto alla amara decisione di evitare qualsiasi manifestazione pubblica. Portare il classico garofano rosso all’occhiello o un fazzoletto rosso intorno al collo significava – e continuerà a farlo per molto – diventare in automatico un bersaglio della violenza. Nel 1922 nel Bolognese si sono contati tre morti e una cinquantina di feriti, mentre a Milano, alla fine dei comizi, una caccia all’uomo dei fascisti ha causato un morto e il ferimento di due persone. A Mantova le coraggiose operaie filatrici che, vestite di rosso e adornate di coccarde, nastrini e di garofani, hanno deciso di attraversare la principale via della città sono state insultate e percosse dalle squadre di Farinacci. Come ricorda lo storico Francesco Renda nel 1922 “solo nella giornata del 1° maggio in 26 centri furono effettuale aggressioni, sparatorie, scontri vari con 6 morti e 25 feriti; fra le città violentate c’erano Milano, Reggio Emilia, Bologna, Rovigo, Alessandria, Brindisi, Perugia, Vercelli” . La decisione mussoliniana di abolire definitivamente la Festa dei lavoratori è la conseguenza di un potere che si va sempre più stabilizzando sulle macerie della sconfitta del movimento operaio e che si avvia a passi decisi verso la definitiva torsione autoritaria. Un decisione che, a conti fatti e con il senno di poi, si rivelerà controproducente. Gli altri regimi di derivazione fascista, e più di tutti il nazismo tedesco, non cancelleranno il Primo Maggio, non gli opporranno una giornata ufficiale senza robuste radici storiche, preferendo, invece, sfruttarne la tradizione di mobilitazione e la forza evocativa declinandola in senso nazionalista o castrandola in generica glorificazione del lavoro . Considerazione, questa, che leggiamo anche sull’Avanti: “Quel duce o viceduce che escogitò la originale pensata di far Primo Maggio […] il 21 aprile, non fu buon psicologo come deve essere un demagogo, ossia un conduttore di popolo. In questa faccenda del 21 aprile, non l’hanno imbroccata bene. Regola generale, non toccate alla gente le sue feste, non toccatele certe tradizioni, certi nomi. […] Così, e peggio, delle feste, siano esse antiche, o siano, come il Primo Maggio, entrate nell’uso da tempo e accolte da simpatie sempre più larghe. È il Primo Maggio, la festa, o la giornata, del Lavoro, della fede socialista, della aspirazione proletaria. Voler celebrare qualcosa di simile, in un altro giorno, significa voler contrapporre, voler dividere, e voler dividere è indebolire, e ogni cosa che divide è, per definizione, krumira” . Fin da subito comunisti e socialisti sottolineano l’inutilità di questa decisione perché un simbolo come il Primo Maggio non si cancella – e neppure si concede – per decreto anche perché la sua natura è internazionalista e come tale è sempre stata vissuta . Netta è, inoltre, la contrapposizione, perché antitetici sono ideali e valori, alla nuova giornata celebrativa introdotta dal nascente regime fascista. La manifestazione operaria ha ora un nuovo nemico, per quanto sclerotizzato nella sua ufficialità di parata di graduati e gallonati. Due stralci tratti da articoli de L’Unità sono esemplificativi a questo proposito: “Nel 21 aprile i capitalisti e i proprietari terrieri festeggiano i tempi dell’Impero, i tempi in cui i proprietari romani tenevano sotto il loro tallone di ferro il mondo allora noto e, soprattutto, tenevano stretti i lavoratori alle catene della schiavitù. Il 21 aprile i nostri capitalisti risognano il sogno di ridurre alla schiavitù antica il proletariato italiano. 21 aprile e fascio littorio sono i simboli storici della schiavitù nei rapporti di classe. […] I proletari d’Italia, ridotti a schiavitù dal fascismo, nel Primo Maggio, sentono di rivivere in loro la tradizione di Spartaco” ; e ancora: “Il fascismo, che ha combattuto e vinto il proletariato per conto dei capitalisti, dei padroni, della monarchia, ha soppresso la data del 1° Maggio, e con tutte le libertà popolari ha tolto anche ai lavoratori quella di celebrare questa giornata di fede e di lotta. Il fascismo ha sostituito il 1° Maggio rosso con il 21 aprile nero. Ma il 21 aprile non dice ai lavoratori ciò che dice il 1° Maggio. […] Il 21 aprile è un giorno di esaltazione della potenza militare, della guerra, del fascismo. È la giornata dell’oppressore. In ogni casa di lavoratori, il 21 aprile, si fa questo bilancio: cosa eravamo noi prima del fascismo, cosa siamo noi oggi, dove andiamo a finire” . Nel 1933 su Battaglie Sindacali, organo della CGL, si può leggere l’articolo “Contro il 21 Aprile degli affamatori del popolo! Per il Primo Maggio proletario!” nel quale gli operai sono invitati a trasformare la manifestazione fascista in manifestazione di massa contro il regime. Ad accettare, invece, in qualche modo la calata del sipario sulla giornata operaia sono i popolari che, per bocca della Confederazione italiana dei lavoratori, invitano a seguire le indicazioni delle autorità e degli industriali in vista del 21 aprile e i repubblicani che parlano ormai di una solennità proletaria che ha “perduto irrimediabilmente gran parte del suo fascino antico” e per la quale “non valga più la pena ormai di impegnare su di essa una grande battaglia”. Tutt’altra è la posizione del Partito comunista d’Italia: la strenua difesa dei diritti dei lavoratori e la lotta al fascismo passano attraverso la difesa e il rilancio della manifestazione operaia che, dopo la sconfitta subito ad opera del fascismo, ha ritrovato “tutto il suo antico significato” e “resterà, ormai, nell’avvenire, giorno di lotta e di raccolta” . Nel 1924, all’indomani delle elezioni politiche, è rivolto senza successo un invito ai socialisti massimalisti del Psi e ai riformisti del Psu a dare vita, in ossequio alla parola d’ordine del Fronte unito dal basso, ad una manifestazione unitaria all’insegna dell’astensione del lavoro. L’intento è quello di dare una prova di forza: “Se si riuscirà ad evitare che la festa internazionale dei lavoratori passi inosservata, se i lavoratori avranno tanta forza da attuare una larga estensione dal lavoro, la classe lavoratrice avrà ottenuta un’altra vittoria, molto più significativa e promettente di quella elettorale” . Nelle principali città, nonostante intimidazioni, violenze e clima da terrore, si segnalano ancora astensioni dal lavoro, ma ad imporsi sono sempre più segni e gesti, atti di fede e di sfida che, benché isolati, mantengono vivo il ricordo del Primo Maggio, facendone già giornata di resistenza. Nell’anno in questione a Torino è fatta volare in aria, grazie a una ventina di palloncini, una enorme bandiera rossa e un piccolo gruppo di operai si reca al cimitero con due enormi cuscini di garofani rossi per commemorare i caduti “nella lotta contro gli sfruttatori”, mentre a Roma si sfila in silenzio sotto la bandiera rossa apparsa sulPrimo Maggio 1921 balcone dell’ambasciata sovietica e l’onorevole Picelli issa sull’asta del Parlamento un drappo rosso. La repressione per il 1° Maggio non è certo una novità. Era già calata con intermittenza nei primi anni della sua esistenza (in Italia dal 1890 fino al 1901), quando il movimento socialista viveva in una legalità assai precaria, ma ora diventa sistematica e capillare. Dal 1923 è sguinzagliata la milizia fascista per intimidire i lavoratori nelle fabbriche, per aggredirli o purgarli, mentre le autorità di pubblica sicurezza sono chiamate, fin dai giorni precedenti, a stroncare qualsiasi movimento collettivo sospetto e a prevenire ogni attività individuale. Retate, arresti preventivi, sequestri di volantini, manifesti e di fogli sovversivi diventano normalità. Festeggiare il Primo Maggio è ormai un reato duramente punito, tanto che Critica Sociale pubblica nel 1927 un editoriale dall’evocativo titolo “Senza data”. A partire da quell’anno, in linea con le leggi eccezionali, entra in azione anche il Tribunale Speciale dello Stato che commina pesanti condanne: nel solo 1928, per aver celebrato il 1° Maggio, sette operai di Trieste, cinque di Verona, tre di Torino e uno di Milano sono condannati a più di 102 anni di carcere. Ricorda il comunista confinato Celeste Negarville: “Non si trattava, è chiaro, di fare delle manifestazioni di massa, ma si trattava di fare una manifestazione comunque, anche nelle mani del nemico, anche nelle condizioni in cui l’oppressione assume una forma diretta”. E, così, neppure i confinati politici rinunciano alla manifestazione, anche nella semplice, quanto dirompente, forma di una sfilata in paese con i vestiti delle festa e le scarpe tirate a lucido, oppure con un discorso in camerata davanti ad una tavola più imbandita del solito . A viverla nell’intimità sono anche semplici militanti come la donna romagnola che scrive una lettera all’Unità raccontando il suo gesto solitario: la deposizione di fiori rossi sulla fossa di compagni di lotta in memoria di “tutti i martiri di ieri e di oggi che all’avvenire proletario hanno consacrata e sacrificata la loro esistenza” . Resistenza privata, gesti audaci e la presenza politica – quest’ultima a partire dalla svolta comunista dei primi anni ’30 – di avanguardie comuniste vecchie e nuove si uniscono nel mantenere in vita il Primo Maggio e per farne, al contempo, giornata di riflessione e di lotta antifascista, trovando anche la crescente solidarietà di diverse forze democratiche. Le cronache, anche se sempre più sparute de L’Unità, come i rapporti dei prefetti ne dànno chiara testimonianza. Riporta l’organo comunista nel 1930: “Tacciono sulle molte migliaia di Unità e Avanguardia che sono state distribuite il Primo Maggio, malgrado le eccezionali misure di polizia. Tacciono sui centomila manifestini che hanno inondato da un capo all’altro l’Italia. […] Tacciono sui cortei avvenuti – improvvisati – al canto di Bandiera rossa a Lugo e in qualche altro paese dell’Emilia Romagna. […] Tacciono sulle molte migliaia di arresti preventivi, sulle centinaia di perquisizioni, sulla mobilitazione di tutte le forze armate che non sono riuscite ad impedire la manifestazione del Primo Maggio ”. Oltre alle richieste politiche – ancora velleitarie visti i rapporti di forza – che sono lanciate attraverso stampa e manifesti clandestini, a dare dimostrazione di un recuperato significato di lotta da parte del Primo Maggio sono soprattutto le tante testimonianze di gesti di ribellione che arrivano da tutto il Paese. A Torino nel 1927 si approfitta del passaggio del Giro d’Italia, e del conseguente assembramento di tifosi, per lanciare bandierine e volantini e attaccare drappi rossi alle biciclette di due concorrenti; a Milano, invece, nella mattinata i tram escono dai depositi pavesati di bandiere rosse e carichi di volantini e giornali clandestini. Nel 1930, sempre a Milano, alcuni taxisti si dirigono verso diverse zone della città per distribuire volontani fuori dalle fabbriche, mentre a Modena, Reggio Emilia e nel Ravennate i fascisti devono mobilitarsi per levare le molte bandiere rosse esposte su pali e alberi. Nel 1932 a Imola la distribuzione di volontani avviene mentre si svolge una sentita processione religiosa. Nel 1934 a Roma l’invito di un gruppo clandestino antifascista a sfoggiare per l’occasione una cravatta rossa genera un vero e proprio allarme, con la polizia che si mette a caccia di chi le sfoggia e ferma anche chi le porta per puro caso. La volontà fascista di togliere la manifestazione anche dal calendario ribelle è così tenace da confinare con la psicosi: in Romagna gli squadristi irrompono nelle case in cerca di tortelli, solitamente serviti sulle tavole nei giorni di festa. Sono questi solo alcuni esempi, forse i più clamorosi, della volontà di avanguardie e lavoratori di ricordare al regime che la cancellazione del 1° Maggio per decreto è rimasta solo sulla carta. Per tutto il ventennio scritte sovversive sui muri – sempre più quelle inneggianti a Stalin e all’Urss – drappi rossi su alberi e edifici e piccole riunioni private sono segnalate a Pavia, Varese, Como, Verona, Sondrio, Bergamo, Brescia, Goriza, Trieste, Udine, Venezia, Vicenza, Padova, Rovigo, Livorno, Pescara, Benevento, Foggia, Cosenza, Roma, Ragusa, Cagliari, Taranto e Trapani . A partire degli anni ’30 il 1° Maggio recupera anche il suo originario significato internazionalista. L’opposizione all’imperialismo si unisce alla lotta contro la dittatura quando si fa sempre più imminente l’aggressione fascista all’Abissinia e crescente è il timore di una nuova guerra mondiale che possa trovare nell’Urss la vittima predestinata. Nel 1932, accanto alle richieste per l’aumento dei salari, la libertà di organizzazione sindacale e il diritto di sciopero, compare l’invito ad opporsi all’invio di navi da guerra e di soldati in Cina e a mobilitarsi a favore della Russia sovietica. L’Unità titola a tutta pagina “Contro il fascismo, contro la guerra, per un Primo Maggio di riscossa proletaria!” e invita a trasformare la guerra imperialista in insurrezione a armata. La difesa dell’Unione Sovietica è intimamente legata a quella dei diritti dei lavoratori: “Questo paese che è diretto dagli operai e dai contadini e che compie uno sforzo gigantesco verso il benessere delle masse è un cattivo esempio per gli operai e i contadini soggetti allo sfruttamento capitalistico: contro di esso bisogna muovere una guerra che lo restituisca ai padroni, agli sfruttatori. Se il piano dei capitalisti riuscisse i lavoratori di tutto il mondo (e non solo quelli della Russia) piomberebbero per lunghi anni in una schiavitù di fronte alla quale quella fascista attuale sarebbe un ricordo di libertà” . “Compagna”, il quindicinale comunista dedicato alle donne, invita alla lotta contro l’imperialismo giapponese in Cina: “Tutte unite noi dobbiamo preparare un Primo Maggio Rosso, un Primo Maggio di lotta contro la guerra. Tutte unite dobbiamo lottare contro i nostri sfruttatori, contro i padroni, contro il fascismo. Lottiamo a fondo con tutte le nostre forze, a fianco di tutti i lavoratori, per la difesa dell’Urss e per una Cina sovietica!”. Un volantino diffuso nel 1935 nel modenese invita ad aiutare i soviet proclamati in Cina a “liberarsi dal giogo degli imperialisti cinesi, giapponesi, inglesi, americani, italiani” e sostenere, “fraternizzando coi fratelli di classe dell’Etiopia”, l’eroica resistenza dell’Abissinia contro le mire fasciste . Nel 1931, in occasione del suo ultimo 1° Maggio, lo storico leader del socialismo italiano Filippo Turati aveva chiamato il proletariato a combattere il militarismo e l’imperialismo: il fascismo – recitava l’articolo – “è la faccia interna dell’imperialismo; l’imperialismo è il fascismo tra le nazioni. Il fascismo non può vivere senza esaltare e preparare la guerra. Dire dunque disarmo e pacifismo è dire implicitamente guerra e morte al fascismo”. Mentre con il passare degli anni, e soprattutto con lo scoppio della guerra mondiale, la stretta fascista si fa sempre più capillare e le pubblicazioni a stampa calano drasticamente, compaiono, invece, sempre più scritte sovversive a sostegno della “Spagna rossa”, impegnata a difendersi contro il golpe franchista sostenuto da nazisti e fascisti, e della Russia di Stalin. La voce comunista tornerà a farsi sentire in occasione del Primo Maggio del 1942, all’indomani del rientro dei suoi quadri in Italia, con un manifesto che ribadisce la necessità di farla finita con il fascismo per imporre la pace e salvare l’Italia dalla catastrofe attraverso il sabotaggio della guerra: “Nelle giornate del Primo Maggio 1918-19-20, la vostra unione e azione aveva strappato ai capitalisti la giornata di lavoro di otto ore, l’aumento di salari, la libertà di organizzazione, di riunione e di stampa, avete impedito la continuazione della guerra e l’invio di soldati e materiale bellico contro la giovane Unione Sovietica. Lavoratori, madri, spose, soldati, italiani! Voi potete far cessare questa terribile e ingiusta guerra di Mussolini e Hitler. Per il 1° Maggio fate il vostro dovere. Impegnatevi a disertare, a rallentare, a sabotare la produzione.” . L’avvio della resistenza armata nel Nord Italia, il rinnovato protagonismo operaio con gli scioperi del 1943, nonché la notizia della vittoria sovietica a Stalingrado, danno al Primo Maggio una rinnovata vitalità, a dimostrazione che venti anni di dominazione fascista non sono valsi a cancellarlo. Nel 1944 importanti astensioni dal lavoro si segnalano in diversi stabilimenti milanesi, astensioni e sospensioni del lavoro a Torino, Genova, Novara e Pavia . Nella parte del Paese liberata per la prima volta si è tornati a manifestare liberamente e, nell’occasione, è avviata una sottoscrizione per sostenere la lotta di liberazione . Quello del 1945 sarà il Primo Maggio della liberazione, finalmente uscito dalle catacombe, nel quale si esprimono nuovamente e alla luce del sole, con la parola d’ordine dell’unità della classe operaia, gli ideali di emancipazione soffocati per un ventennio. Per l’Unità è una giornata di rinascita nazionale e di promesse: “Lavoratori! Partigiani! Popolo italiano! Il 1° Maggio 1945 sia una giornata di mobilitazione unitaria di tutto il popolo per la rinascita nazionale! I nostri morti ci chiedono di marciare decisamente sulla via della ricostruzione di un’Italia libera, democratica, progressiva dove il popolo che ha preso in mano il suo destino, possa intravedere un avvenire più felice nella pace e nella libertà!” .

Come definire la Repubblica

Intervento di Palmiro Togliatti all’Assemblea Costituente del 22 marzo 1947

Qui si tratta di scegliere tra due formule: «Repubblica democratica fondata sul lavoro» oppure «Repubblica democratica fondata sui diritti di libertà e sui diritti del lavoro».
Queste due formule vengono presentate dopo che è stata respinta la formula da noi presentata, alla quale avevano aderito alcuni gruppi e che diceva: «Repubblica democratica di lavoratori».
Di fronte all’alternativa che adesso si presenta, devo dichiarare a nome del gruppo al quale appartengo, che noi preferiamo la formula proposta dall’onorevole Fanfani: «Repubblica democratica fondata sul lavoro».
Il motivo mi sembra evidente: prima di tutto la formula del collega Fanfani è quella che piú si avvicina a quella che noi avevamo presentato. Per questo semplice motivo, noi avremmo il dovere di votarla.
Per la sostanza, la formula «Repubblica fondata sul lavoro», si riferisce a un fatto di ordine sociale, e quindi è la piú profonda; mentre la formula che viene presentata dall’onorevole La Malfa ed altri colleghi, trasferendo la questione sul campo strettamente giuridico e introducendo anche una terminologia poco chiara e poco popolare sui «diritti di libertà» e «di lavoro», ci sembra sia da
respingere. Da ultimo, essa se mai non è appropriata a questa parte della Costituzione, ma appartiene alla seconda parte, alla parte successiva.
Per questi motivi, il nostro gruppo voterà contro la formula dell’onorevole La Malfa e in favore della formula dell’onorevole Fanfani.

Paolo Spriano storico del Pci

Relazione di Gianpasquale Santomassimo al convegno organizzato dall’Istituto Gramsci a Roma il 4 aprile scorso sulla figura di Paolo Spriano.

Roberto Battaglia avrebbe dovuto scrivere la Storia del Pci. Era una designazione naturale e scontata, dopo il grande successo della Storia della Resistenza italiana, con le sue tormentate e sofferte edizioni presso Einaudi. Si era disposto a questo compito con grande entusiasmo, convinto di scrivere la storia dell’unico partito «non provinciale» in Italia. Battaglia però non fece a tempo neppure a iniziare il suo lavoro, colpito da infarto nel 1962 e poi scomparso il 20 febbraio 1963. Quella di affidare in seguito il compito a Paolo Spriano fu anch’essa una decisione abbastanza naturale. Per il forte legame con Einaudi e la cultura torinese, per le prove che aveva già dato nella ricostruzione della Torino operaia e socialista. Per il suo stile piano e leggibile che si avvicinava a quello di Battaglia, pur senza la forbitezza letteraria del più anziano storico dell’arte. Spriano, che aveva scritto la sua tesi di laurea su Piero Gobetti nella stessa biblioteca di casa Gobetti dove era stato ospitato durante gli anni universitari. Fino ad allora la storia del partito comunista aveva visto opere per lo più agiografiche o puramente polemiche. Il precedente immediato, l’auspicio e l’esempio di una storia rigorosa e fondata sui documenti era venuta da parte dello stesso Togliatti col libro su La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924 , in polemica contro la storia concepita come una «ininterrotta processione trionfale». Subito dopo la morte di Togliatti veniva dato un indirizzo risolutivo in direzione di una storia scientifica e fondata su documenti. La decisione era presa nel settembre 1964. Il progetto originario prevedeva un solo volume, ma ben presto ci si rese conto che il progetto era destinato ad ampliarsi. «Al partito si manifestano contentissimi del progetto – scriveva Spriano il 7 ottobre 1964 a Giulio Bollati – e mi promettono l’accesso a tutti i documenti, mentre io ho precisato il carattere scientifico del lavoro e la mia responsabilità personale». Continua a leggere “Paolo Spriano storico del Pci”

Storici comunisti e storia del Pci di Guido Liguori

Ha fatto benissimo la Fondazione Istituto Gramsci a organizzare il 4 aprile a Roma un convegno per ricordare Paolo Spriano a venticinque anni dalla morte, chiamando al lavoro studiosi come Agosti e Santomassimo, Albertina Vittoria e Leonardo Rapone, Albeltaro, Masella e altri. Non solo perché Spriano è l’autore della monumentale Storia del Partito comunista italiano di tanti altri libri sul movimento operaio e su Gramsci. Il convegno è stato opportuno anche e soprattutto perché ha ricordato autorevolezza e ruolo della storiografia comunista in Italia negli anni ’60 e ’70 in un momento in cui è di moda – ed è un segno dei tempi – farne carne di porco.

Spriano, proveniente dalla Resistenza e dal giornalismo militante, ha iniziato il suo lavoro di storico – destinato a un grande successo di critica e di pubblico – all’inizio degli anni ’60, dopo che Togliatti aveva chiuso la stagione agiografica della storia del partito soprattutto con il saggio su La formazione del gruppo dirigente del Pci, scritto nel 1960. Come ha ricordato Santomassimo, fu l’Einaudi a chiedere a Spriano, già distintosi per alcuni lavori sul socialismo torinese, di prendere il posto di Roberto Battaglia, gravemente malato dopo essere stato incaricato dalla casa editrice torinese di scrivere la storia del Pci. Il successo fu immediato, fin dal primo volume. Esplose una passione di massa per la storia dei comunisti. Si moltiplicarono, accanto agli studi scientifici, i libri di memorialistica, utilissimi e preziosi, ma sicuramente di tipo diverso rispetto alla ricerca storica di Paolo Spriano.

La ricerca di Spriano è universalmente apprezzata per lo spirito critico, per la problematicità, per lo scrupolo addirittura accademico, per la decisione con cui non teme di correggere leggende storiografiche e di esibire verità scomode. È indicata come modello storiografico dallo stesso Hobsbawm. E non ricerca mai, né riceve, l’avallo degli organismi di partito. Lo stesso Spriano ebbe a dire che avrebbe potuto evitare qualche errore se avesse fatto leggere preventivamente le sue opere dai dirigenti del Pci prima della pubblicazione, cosa che non fece per evitare qualsiasi tipo di intromissione. Né il Pci di quegli anni volle mai avere – anche in campo storiografico, come in campo filosofico, ecc. – una “verità di partito”.

Ovviamente i lavori di Spriano ricevettero anche critiche e sollevarono discussioni, soprattutto dentro il Pci e anche da parte di altri storici comunisti di valore. Come è giusto che sia in una discussione di livello scientifico. A riprova che non si trattava di una storia addomesticata, né scritta per compiacere il “principe”. Insomma, non una «storia sacra», come di recente ha sostenuto Luciano Canfora, cercando di squalificare insieme a Spriano, accusato addirittura di manomettere gli archivi come in una spy story cinematografica, quasi l’intera storiografia comunista. Ma i grandi storici comunisti – oltre a Spriano, ricordiamo almeno Ragionieri, Franco De Felice, Gastone Manacorda, Procacci, solo per citare gli studiosi purtroppo scomparsi – non erano esecutori delle direttive del Pci. Contribuivano semmai a definire la cultura del partito e la sua identità, e dunque, indirettamente ma in modo sostanziale, anche i suoi orientamenti politici di fondo. Oggi i partiti non si nutrono più di ricerca storica – e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Proprio la ricchezza del dibattito, la differenza delle posizioni, le polemiche di allora testimoniano della libertà della ricerca e del dibattito. Vi possono essere stati errori, dunque, ma non in nome di presunte “verità di partito”. Anche su questo aspetto il Pci è stato diverso, ha percorso un’ altra strada rispetto a quella seguita dai maggiori partiti comunisti, al modello rappresentato dal Breve corso di storia del P.C.(b) dell’Unione Sovietica. La storiografia odierna – per i maggiori documenti a disposizione – può anche conseguire a volte risultati più avanzati, come accade nella ricerca scientifica. Ciò non dovrebbe autorizzare però a insultare storici della levatura di Spriano e degli altri storici comunisti degli anni ’60 e ’70. Sia perché non è detto che chi si erge oggi a giudice consegua nello specifico suo lavoro risultati migliori, sia perché si dovrebbe stare attenti a non unirsi al coro di quanti oggi insultano, e non disinteressatamente, la storia e la storiografia del Pci. Il loro scopo è soprattutto quello di distruggere la memoria e la storia di una parte politica protagonista della scrittura della Costituzione e della costruzione della democrazia nel nostro Paese. Spesso si vuole delegittimare le prime, la storia e la storiografia comunista, per demolire le seconde. Viene il sospetto che la partita che ancora una volta si vuole giocare sul tavolo storiografico sia soprattutto politica. Un «breve corso» alla rovescia, in cui si insinua che il Pci è sempre stato una banda di spie e che i comunisti migliori, in primo luogo Gramsci, erano in realtà liberali. Insomma, anche loro non sarebbero mai stati comunisti…

Crisi dei partiti, crisi della sinistra

9788806215545
Acquista Libro

Finale di partito. Recensione di Fabio Vander al libro di Marco Ravelli 
L’ultimo libro di Marco Revelli (Finale di partito, Torino, Einaudi, 2013, pp. 137) ha per tema un argomento non certo inedito, ma che affrontato in modo originale può riservare ancora interesse: la crisi della “democrazia dei partiti”. Fenomeno di carattere universale, che si è diffuso in tutte le democrazie occidentali particolarmente dopo il 1989, suscitando tra l’altro un’ampia messe di studi di storia e sociologia politica, di cui Revelli dà in parte conto.
Eppure a nostro avviso il libro è piuttosto un capitolo della crisi della cultura politica della sinistra italiana. E da questo riguardo intendiamo ragionarne. Il rischio è infatti che dietro un’analisi di scuola delle ragioni della crisi – la solita “società liquida” (del solito Bauman) che di necessità determinerebbe la fine di strutture pesanti e ingombranti come i partiti di massa ecc. – si nasconda un atteggiamento corrivo con la ‘logica’ dell’anti-politica e in ultima istanza dell’anti-democrazia. Dietro cioè l’approccio a tutta prima scientifico, finisce con il filtrare una malcelata soddisfazione per le difficoltà di un sistema di relazioni politiche che non si è mai riusciti davvero ad accettare.
Ma l’anti-politica non si contrasta con l’anti-politica. Discorso che del resto vale anche per la ricerca scientifica. Non basta l’analisi, occorre anche la critica. A Bauman ad esempio si potrebbe obiettare che non è che c’è la crisi della politica perché c’è la “società liquida”, semmai è perché c’è la crisi della politica (perché è finito il comunismo, perché l’Occidente non ha più bisogno di quella democrazia vera, efficiente, che era necessaria dovendo contrastare il nemico globale, ecc.) che la società si è resa “liquida”, meno strutturata, con meno partecipazione e organizzazione, alla fine meno democratica.
E invece l’impressione è che Revelli, facendosi forte di analisi quali quelle ora accennate, rimanga fermo alla ‘fotografia’ della crisi e quindi alla rigida contrapposizione di partiti e società, spontaneità e organizzazione, partecipazione e costituzione. Un atteggiamento che è un topos dell’anti-politica di sinistra e che ha importanti precedenti nel ’900 (da Sorel al partito-movimento di anni più recenti) ma con un abbrivio che arriva, a guardar bene, a Grillo.
Non a caso Revelli contrappone i referendum (maxime i recenti sull’acqua pubblica e contro il nucleare) alla democrazia rappresentativa, la “sfera pubblica” alla “sfera politica” (cfr. p. 20), insistendo con una connotazione extra-politica della “sfera pubblica” tralatizia quanto pericolosa. E invece è facile obiettare che il referendum, istituto di democrazia diretta, è presente in Costituzione, dunque è costituzionalizzato, pacificamente convivente con gli altri istituti che, tutti insieme, fanno la democrazia italiana.
Tanto più poi che a scendere sul terreno di una acritica esaltazione degli strumenti di democrazia diretta, si rischia di incorrere nell’obiezione (ovvia) che i referendum non sempre sono stati vinti, che il popolo sovrano ha spesso frustrato le aspettative dei promotori meglio intenzionati, ecc. I clamorosi tonfi, in fatto di partecipazione-validazione popolare, dei referendum sull’art. 18 del 2003 o contro la legge elettorale nazionale (del 2009), ma si potrebbero fare molti altri esempi (la gente non votò addirittura per il referendum contro i pesticidi), autorizzano forse a concludere che l’art. 18 va abolito? Aveva ragione la Fornero? Il “Porcellum” va bene così? Bisogna stare sempre attenti con la retorica della società civile. Una lezione che certa sinistra non impara mai.
Tornando allo specifico della crisi dei partiti, Revelli sembra per altro spiegarla secondo i canoni di un determinismo alquanto vetero. Sostiene infatti che essa dipende dal superamento del «modello organizzativo ‘fordista’», con le sue istituzioni politiche stabili e coese, sostituito da un sistema produttivo «leggero, aperto, diffuso, policentrico ecc.» (p. 32). E anche questa, come quella della “società fluida”, l’abbiamo già sentita.
Le due cose per altro vengono regolarmente connesse: nell’epoca della globalizzazione la società si libera dai vecchi vincoli, diviene mero flusso; “an other country” rispetto alla politica.
Anche le molte pagine che Revelli dedica a Robert Michels appaiono poco critiche (se non proprio simpatetiche). Nel senso che il teorico della “legge ferrea della oligarchia”, quella secondo la quale i partiti (e ogni forma di organizzazione umana) sono destinati a ridursi appunto all’“oligarchia”, al prepotere di una minoranza, viene apprezzato in chiave anti-partitica, senza considerare adeguatamente i rischi di questo modo di ragionare. Revelli sa che Michels dal giovanile socialismo passò al fascismo, ma cerca di tranquillizzarci dicendo che il suo non era proprio fascismo, bensì “mussolinismo”….
Il pregiudizio anti-partito porta a questi equivoci, ad accreditare la lezione di un pensatore fascista come Michels. Che insieme a tutti gli altri teorici della “dottrina delle élites”, da Mosca a Pareto, passando per lo stesso Croce della dottrina del “meta-partito”, fu parte attiva a quella crisi intellettuale e morale che fu causa determinante ed esaustiva dell’avvento del fascismo.
Dopo di che, se è giusto lamentare la crescente distanza fra istituzioni e cittadini, il problema si risolve cercando di riformulare il rapporto, trovando nuove forme di partecipazione e decisione, non semplicemente abolendo uno dei termini del rapporto. E invece Revelli a questo approda, quando conclude che il nesso fra democrazia e partiti non è affatto «indissolubile» e definisce “improbabile la prospettiva di un qualche recupero dei partiti politici al loro compito storico e alla loro natura originaria di gestori della partecipazione» (p. 103).
Revelli chiama anzi «retorica della ‘fine della democrazia’» la preoccupazione di quanti temono una democrazia senza partiti. Non realizzando che costoro temono in verità proprio quella che abbiamo chiamato retorica della società civile, che è la cifra dell’anti-politica e dell’anti-democrazia di tutti i tempi.
Né sorprende poi che un tale campione della sinistra estremista alla fine si ritrovi dalle parti di Grillo perché, se pure diffida della «viralità della Rete», la ritiene comunque l’unica possibilità di vincere la «dura resistenza dell’Organizzazione», che con la sua viscosità resiste «a lasciarsi soppiantare dalla libera e piena partecipazione» (p. 119).
Un vero compendio, questo libro, dell’anti-politica e dell’anti-democrazia, ma al tempo stesso testimonianza della profondità della crisi “intellettuale e morale”, è il caso di dire, della sinistra italiana.