Guido Liguori sulla nuova edizione delle Lezioni sul fascismo di Palmito Togliatti

Indagine sul volto sociale e cangiante di una minacciaGuido Liguori , 23.01.2020

Storia. Una nuova edizione delle «Lezioni sul fascismo» di Palmiro Togliatti – con Premessa di Paolo Ciofi, Introduzione di Piero Di Siena e Prefazione di Ernesto Ragionieri – proposta dagli Editori riuniti. Nel testo viene avanzata un’«analisi differenziata» del fenomeno: dal programma ribellistico di S. Sepolcro alla violenza padronale antisocialista, alla fondazione dello Stato totalitario È quanto mai opportuna l’iniziativa degli Editori Riuniti di promuovere una nuova edizione delle Lezioni sul fascismo di Palmiro Togliatti (Premessa di Paolo Ciofi, Introduzione di Piero Di Siena, Prefazione alla prima edizione di Ernesto Ragionieri, pp. 200, euro 15). Un libro importante, non solo dal punto di vista storiografico (come riconobbe Renzo De Felice), ma anche per la lezione di metodo che contiene e che ancora ci parla.

ORGANIZZATE nel gennaio-aprile 1935 presso la scuola del Comintern a Mosca per i comunisti italiani, esse ci sono pervenute grazie agli appunti di un allievo ritrovati e pubblicati da Ragionieri solo nel 1970. Le Lezioni risalgono quindi al periodo immediatamente precedente al VII Congresso della Terza Internazionale, che lanciò la politica dei Fronti popolari. Ma già la vittoria del nazismo (gennaio 1933) aveva fatto accantonare la politica settaria del socialfascismo e dato il via, in primo luogo in Francia, a una nuova politica di alleanza tra le forze di sinistra. Togliatti che a fatica aveva accettato la svolta stalinista del 1928 e che era stato messo da parte nel Comintern era stato richiamato a guidare la nuova politica insieme a Dimitrov. Le Lezioni dunque vanno collocate in questo passaggio, in cui Togliatti diviene protagonista del comunismo internazionale. Esse sono la parte più consistente (oltre i due terzi) di un corso che il dirigente comunista tiene sulle forze politiche italiane (socialisti, anarchici, repubblicani) e ne costituiscono la parte di gran lunga più rilevante, non solo quantitativamente. Togliatti in esse accetta come punto di partenza, la definizione del fascismo della Terza Internazionale («una dittatura terroristica degli aspetti più reazionari, più sciovinisti e più imperialisti del capitale finanziario»), ma a partire da essa mette in campo un’interpretazione originale, che va oltre le tesi sostenute da altri interpreti del tempo, con l’eccezione della riflessione carceraria di Gramsci, per molti versi convergente, ma allora non conosciuta. Alla base delle Lezioni vi è la consapevolezza che con il nuovo protagonismo delle masse il vecchio Stato liberale non basta più. I liberali italiani non lo hanno compreso e la borghesia ha dovuto trovare una differente soluzione, è ricorsa al fascismo afferma Togliatti perché «non può governare coi vecchi sistemi». Il fascismo diviene poi, strada facendo, il partito unitario della borghesia, per la prima volta in Italia (come forse prima solo la massoneria era riuscita a fare).

È NOTEVOLE nel libro l’«analisi differenziata» del fascismo che Togliatti mette in campo, invitando a distinguere tra i fascismi nei vari paesi, e all’interno del fascismo italiano stesso nel corso della sua storia (dal programma ribellistico di S. Sepolcro al fascismo padronale antisocialista, alla fondazione dello Stato totalitario). Il fascismo non è sempre lo stesso, ci dice Togliatti, ed è sbagliato definire fascista ogni fenomeno reazionario: un avvertimento da tener presente anche oggi. Il termine va usato «allorquando la lotta contro la classe operaia si sviluppa su una nuova base di massa con carattere piccolo-borghese». I punti di svolta sono individuati nel momento in cui il capitale interviene e organizza il fascismo, a partire dal 1921, e poi a partire dal 1926, con l’organizzazione statuale delle masse.
RILEVANTE, e attuale, è l’autocritica che Togliatti fa in queste Lezioni: i comunisti non sono stati capaci egli dice di vedere «le cause sociali» che determinarono il fascismo. Per batterlo si doveva «conquistare una parte di quella massa» organizzata dal fascismo e «neutralizzare l’altra parte». Non fu fatto. Il fascismo così ha preso il potere e ha compreso sia la «necessità di qualche elemento di organizzazione del capitalismo, di qualche elemento di piano», sia la necessità di un controllo capillare delle masse. Da una parte dunque il fascismo riproduce quel nuovo rapporto tra economia e politica tipico della prima metà del ’900 e di tutti i regimi (democratici, socialisti, comunisti, fascisti), per far fronte alla crisi e modernizzare l’economia, dall’altra nel 1926 instaura il monopolio sindacale: inizia «la politica di massa» del fascismo ormai divenuto Stato, una politica necessaria alla borghesia di fronte alla crisi economica. Qui iniziano le bellissime lezioni sul corporativismo e sulle «organizzazioni collaterali» del fascismo. In queste ultime i comunisti devono entrare perché in esse si trovano le masse, si può far leva sulle contraddizioni della loro vita reale. I lavoratori che aderiscono ai sindacati fascisti e al dopolavoro, afferma Togliatti, «non sono nostri avversari, sono masse di lavoratori che noi dobbiamo far tutti gli sforzi per conquistare» e le masse «possono fare di queste organizzazioni dei centri di resistenza, dei centri di lotta contro il fascismo». Conclude Togliatti: «Il nostro dovere è di entrare in queste organizzazioni e di organizzarvi la lotta per i nostri principi», poiché bisogna «rimanere legati continuamente alla massa».

SONO PAROLE che sembrano rivolte alle sinistre e ai comunisti di oggi, sia pure in una situazione tanto diversa, a quelle sinistre che non hanno più rapporti di massa, che non sono più presenti tra i lavoratori, i precari, le classi popolari, che spesso rinunciano ad andare a cercare il popolo dove si trova. Le parole di Togliatti invitano a riflettere.

© 2020 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE

La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-24

In occasione del 99° anniversario della nascita del Pci, pubblichiamo il saggio di Palmiro Togliatti La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-24, prefazione del libro omonimo pubblicato dagli Editori Riuniti nel 1962.

1. La formazione di un nuovo gruppo dirigente del Partito comunista d’Italia (così esso si chiamava allora), che ebbe luogo negli anni 1923 e 1924, deve essere considerata un momento di grande, decisiva importanza nella storia del movimento operaio italiano e in particolare, s’intende, del movimento comunista del nostro paese. Gli sviluppi e le sorti di questo movimento, se quel nuovo gruppo dirigente non si fosse costituito, e costituito precisamente in quel momento e in quel modo, per iniziativa e sotto la direzione immediata di Antonio Gramsci, sarebbero stati senza alcun dubbio diversi, e anche profondamente diversi, da ciò che furono. Il partito comunista non sarebbe riuscito ad acquistare la fisionomia, la forza e il prestigio che oggi possiede, o vi sarebbe riuscito con difficoltà molto maggiore e seguendo un cammino assai più tortuoso, se, a partire dal 1924, alla sua testa non vi fosse stato un gruppo di comunisti che aveva compiuto, rispetto alla precedente direzione, un effettivo progresso qualitativo nella capacità sia di comprendere le situazioni oggettive, nazionali e internazionali, sia di adeguare ad esse non solamente una propaganda e un’agitazione, ma una vera azione politica. La conquista della maggioranza del partito venne condotta a termine da questo gruppo, di fatto, soltanto al III Congresso del partito, che si tenne a Lione nel gennaio del 1926. Le basi politiche della nuova formazione vennero però gettate nel 1923-24, attraverso un dibattito di cui ci è rimasta una documentazione di grande interesse, perché non ci mostra soltanto il valore di un risultato raggiunto attraverso una elaborazione collettiva, ma ci rivela anche le difficoltà non lievi che per giungere a questo risultato si dovettero superare e soprattutto ci fa conoscere più a fondo il pensiero e l’azione di Antonio Gramsci come dirigente di partito. Alcune delle posizioni da lui sostenute e sviluppate nel corso di questo dibattito, se si tengono presenti il momento e le condizioni in cui il dibattito stesso si svolgeva, hanno il valore quasi di illuminazioni precorritrici. Esse furono un viatico, del quale soltanto nel seguito degli anni e dopo parecchio tempo venne penetrata e cominciò a essere resa esplicita tutta la portata.
D’altra parte, la formazione di un nuovo gruppo dirigente era per il partito comunista, alla fine del 1922, una necessità politica e di organizzazione da cui non si poteva prescindere, per ragioni di ordine elementare. Il partito era giunto, dopo nemmeno due anni dalla sua fondazione, a una profondissima crisi della direzione. O la si risolveva, o non si sarebbe più andati avanti se non a stento e male. La crisi non fu allora evidente, in tutta la sua ampiezza e profondità, né agli iscritti al partito né a tutti i suoi quadri dirigenti. Non se ne avvidero né gli amici, né gli avversari e questi ultimi avrebbero potuto trarne un vantaggio assai serio, se non li avessero accecati, come sempre accade, il loro odio preconcetto e la loro stupidità. Le persecuzioni poliziesche e gli efferati crimini squadristi temprarono il partito, anziché scuoterlo; ne ridussero gli effettivi e ne ostacolarono l’azione, ma in pari tempo ne strinsero le file e rinsaldarono la unità interiore, impedendo ai contrasti che laceravano il centro di ripercuotersi in profondità. La gravità della crisi che il centro attraversa viene però alla luce non appena si considerino obiettivamente le circostanze di fatto di quel momento. In sostanza, si può affermare che alla fine del 1922 il partito si trovò ad essere praticamente decapitato, e non soltanto per l’offensiva poliziesca che portò all’arresto e al processo dei suoi dirigenti più noti, ma per motivi di natura politica, che traevano origine dal suo interno. La sua direzione era stata l’espressione di una politica determinata; ma dopo soli due anni questa rivelava di non essere più rispondente né ai compiti immediati concreti né alle prospettive lontane della situazione. Si erano creati nel movimento operaio nuovi rapporti di forza, era sorta una nuova situazione nazionale e si annunciava l’inizio di una nuova situazione internazionale. Per far fronte a queste nuove realtà tutto un nuovo orientamento ideale e pratico era necessario, che il vecchio gruppo dirigente per la sua stessa natura non era in grado di dare. A meno che il partito non accettasse di trasformarsi in una setta rinsecchita di talmudisti tagliati fuori da qualsiasi sviluppo reale degli avvenimenti, il mutamento di direzione era la prima cosa da farsi. E per fortuna venne fatto, e fatto a tempo.
2. Al congresso di fondazione del partito, a Livorno, il 21 gennaio 1921, era stato eletto un Comitato centrale di 15 compagni, che erano, nell’ordine alfabetico, i seguenti:
Ambrogio Belloni, Nicola Bombacci, Amadeo Bordiga, Bruno Fortichiari, Egidio Gennari, Antonio Gramsci, Ruggero Grieco, Anselmo Marabini, Francesco Misiano, Giovanni Parodi, Luigi Polano, Luigi Repossi, Cesare Sessa, Antonio Tarsia, Umberto Terracini.
Questo Comitato centrale venne eletto senza dar luogo a contrasti. Qualche delegato avrebbe voluto opporsi alla inclusione di Gramsci, riferendosi alla stolida accusa messa in giro da riformisti e massimalisti durante le aspre polemiche precongressuali, ch’egli fosse stato «interventista» e persino «ardito» al fronte, ma la questione non giunse sino alla tribuna del congresso. Gli uomini più responsabili della nuova direzione giustamente pensavano che la campagna fatta in seno al partito socialista contro chi avesse avuto esitazioni di fronte alla questione dell’intervento in guerra nel 1914-15 era stata un errore e doveva essere smessa. Pietra di paragone per i militanti doveva essere soltanto la condotta tenuta durante la guerra stessa e soprattutto dopo di essa, nella grave crisi politica e sociale apertasi dopo l’armistizio. A Gramsci, poi, non si poteva contestare che un articolo scritto nel 1914, oggi ripubblicato tra i suoi scritti giovanili [1]. Durante la guerra era stato, come tutti sapevano, redattore del settimanale socialista torinese («Il grido del popolo») e della cronaca torinese dell’«Avanti!». Nel momento più duro, dopo la sanguinosa rivolta dell’agosto 1917, a lui era stata affidata la segreteria della sezione socialista di Torino.
La composizione del Comitato centrale eletto a Livorno avrebbe potuto essere discussa per ben più seri motivi. I compagni già aderenti alla frazione astensionista, diretta da Amadeo Bordiga e il cui organo era stato il settimanale «Il Soviet», erano il gruppo più numeroso e più forte (Bordiga, Grieco, Fortichiari, Repossi, Parodi, Polano, Sessa, Tarsia). Venivano poi i massimalisti (Belloni, Bombacci, Gennari, Misiano) tra i quali uno (Marabini) appartenente al gruppo che in preparazione di Livorno si era collocato più vicino alla frazione centrista «unitaria» di Serrati, nel tentativo di staccare da essa il maggior possibile di adesioni e due compagni (Gramsci e Terracini) del gruppo torinese dell’«Ordine Nuovo». Questo gruppo, che aveva condotto la lotta più efficace contro il grande padronato borghese, per aprire alla classe operaia la via della presa del potere, e nel corso di questa lotta aveva educato un buon numero di dirigenti, sia operai che intellettuali, fu confinato all’ultimo posto. Dal Comitato centrale erano assenti, in particolare, ad eccezione di Parodi, i quadri proletari che avevano dato via al movimento dei Consigli di fabbrica e di questa assenza si sentirono, in seguito, le conseguenze, anche perché Parodi fu assai presto costretto a uscire dall’Italia per sfuggire alle persecuzioni poliziesche.
Non risulta che Gramsci e Terracini, o altri compagni del vecchio gruppo torinese, abbiano chiesto che questo fosse diversamente rappresentato. Questo gruppo non si era mai data, in seno al Partito socialista, una organizzazione nazionale di frazione. I compagni che lo dirigevano, giovani e poco conosciuti fuori della loro città, avevano dedicato tutta la loro attività agli sviluppi del movimento torinese e alle sue lotte, trascurando la creazione di una rete di legami e di gruppi nel resto del paese. Questo difetto, che venne scontato in seguito seriamente, rendeva persino materialmente impossibile la richiesta di una diversa composizione del Comitato centrale. Ma non è questo il solo elemento che deve essere preso in considerazione.
La cosa più importante è che, nello slancio di costruzione e rinnovamento succeduto alle precedenti polemiche e alla scissione, si era creato e prevaleva, non soltanto nei semplici aderenti al partito, ma nei suoi quadri dirigenti, qualunque fosse la frazione da cui provenivano, un senso nuovo e una concezione nuova della disciplina ideale e pratica che si voleva fossero proprie dell’avanguardia comunista. Le precedenti differenziazioni dovevano considerarsi cose del passato, il semplice richiamo ad esse presentandosi come una violazione dei nuovi principi politici e di organizzazione, per affermare i quali il partito era sorto e che dovevano reggere anche la sua vita interiore. Questa posizione può sembrare a noi, oggi, che peccasse di ingenuità, soprattutto quando ricordiamo come già fossero apparse profonde le divergenze nell’orientamento politico delle tre diverse correnti (massimalisti, ordinovisti e astensionisti) che si erano unite per creare il nuovo partito. In realtà non si trattava di ingenuità, ma di un carattere nuovo che si voleva imprimere al partito stesso e di una grande fiducia nella possibilità e capacità di riuscirci.
3. Dissensi profondi erano esistiti, erano stati manifestati pubblicamente, a proposito del problema della trasformazione delle commissioni interne di officina in Consigli di fabbrica, della funzione di questi Consigli nella lotta della classe operaia per il potere, del movimento sorto attorno ad essi e delle serie lotte cui era arrivato, con la ispirazione e la guida dei redattori dell’Ordine Nuovo, il proletariato torinese. Né i massimalisti né gli astensionisti avevano compreso e condiviso le posizioni difese da questo gruppo, il quale, da parte sua, era assai critico verso la condotta dei dirigenti massimalisti anche di sinistra (Gennari, Bombacci, ecc.), respingeva l’astensionismo parlamentare dei seguaci di Amadeo Bordiga e col gruppo diretto da Bordiga non era mai riuscito a raggiungere una piena intesa per l’azione da svolgersi in seno al partito socialista e tra le masse su scala nazionale, quantunque, sul terreno locale torinese, nel movimento sindacale e di fabbrica, astensionisti e ordinovisti collaborassero molto strettamente. La decisione del II Congresso dell’Internazionale comunista, che dava agli ordinovisti una particolare investitura, affermava che le loro posizioni «corrispondevano pienamente a tutti i principi fondamentali della III Internazionale» e chiedeva che il programma di rinnovamento del partito socialista formulato da Gramsci fosse preso come base perla preparazione del Congresso di Livorno, aveva sorpreso e urtato tutti gli altri gruppi, anche di sinistra, e di fatto era stata dimenticata. Se un dibattito sulla funzione e sui compiti immediati del partito comunista in Italia si fosse aperto e si fosse approfondito, sarebbero certamente venute alla luce divergenze di fondo sui problemi di importanza decisiva. Ma questo dibattito, nel periodo in cui venne immediatamente preparata la creazione del partito e subito dopo di essa, non poteva accendersi. Il fuoco era stato concentrato contro la destra riformista e contro il gruppo di centro che non voleva isolarla ed espellerla dal partito, e in questa impostazione tutti erano concordi. Le posizioni programmatiche e politiche erano state definite dai congressi dell’Internazionale e, per quanto si riferisce alla vita interna del partito, esisteva pieno accordo nel proposito di rompere decisamente con la vecchia pratica del partito socialista e dare al partito comunista una struttura completamente nuova, fondata essenzialmente sulla disciplina politica e sulla unità. Si era infatti tutti d’accordo nel ritenere che il partito socialista era venuto meno in una situazione oggettivamente rivoluzionaria, al suo compito rivoluzionario, perché le diverse correnti esistenti nel suo seno si erano contrastate e paralizzate a vicenda. Il partito comunista doveva quindi sorgere e funzionare come un organismo unito, compatto, nel quale non vi fossero più differenze di correnti, gruppi e frazioni. Questa era una condizione preliminare, necessaria perché la linea tracciata dai congressi internazionali potesse realizzarsi, attraverso le necessarie iniziative e un’attività continua dell’organismo nel suo complesso, sotto la direzione di un centro, che a sua volta doveva essere omogeneo per poter agire e dirigere con fermezza, senza esitazioni e tentennamenti. L’unità e la disciplina politica dovevano essere accompagnate, quindi, da una forte centralizzazione. Anche su questo punto venne alla luce più tardi, un serio dissenso, tra la concezione di un centralismo «organico», tendenzialmente burocratico, e quella di un centralismo «democratico»; ma all’inizio questo dissenso non poteva venire alla luce, per la stessa energia con la quale si riteneva necessario sottolineare e si sottolineava il momento della unità e della disciplina («severissima», aveva scritto Lenin nelle pagine dell’Estremismo), per poter superare la pratica confusionaria e la disgregazione interna del vecchio partito socialista.
4. In generale, questa nuova impostazione dei problemi interni del partito era valida e per lo più giusta. Corrispondeva alle decisioni e richieste de congressi dell’Internazionale comunista. Discendeva direttamente dalle critiche mosse al vecchio partito socialista, sulla base di una lunga esperienza. Era praticamente dettata, inoltre, dalla situazione oggettiva, nella quale si stava scatenando un’aspra guerriglia di classe e chi si schierava col partito comunista doveva sapere che questo era una organizzazione di combattimento. Non si può negare, agli uomini che allora furono alla testa di questa organizzazione e le dettero la sua prima forma, il merito di essere stati impavidi e tenaci, come le circostanze esigevano. La massa degli iscritti accolse l’indirizzo che essi dettero al partito con convinzione ed entusiasmo; le organizzazioni periferiche ne ricevettero aiuto a resistere e anche a svilupparsi. Tutto questo è vero. Altrettanto vero è, però, che molto rapidamente tanto per ciò che riferisce alla direzione del partito, quanto per la sua attività concreta, si venne creando una situazione che era in contrasto con i principi che debbono reggere la vita di un partito comunista.
Riflettendo oggi, a distanza, ai primi anni del Partito comunista italiano, si ha l’impressione di uno sviluppo che ha due aspetti, collegati l’uno all’altro, ma in realtà contraddittori. Da un lato si compie lo spostamento, su posizioni di avanguardia e di lotta rivoluzionaria, di uno strato di parecchie decine di migliaia di proletari e di lavoratori, la cui influenza tra le masse è, non ostante tutto, non in diminuzione da Livorno in poi, ma in aumento. Questo fu l’elemento positivo, destinato a pesare in modo via via più grande nelle successive vicende del movimento operaio e del paese. D’altro lato si assiste al tentativo di incapsulare questa spinta rivoluzionaria entro una cornice angusta, che ne limita la efficacia; di dirigerla secondo uno schema rigido, avulso dalla realtà, tale che non consente alla potenziale forza rivoluzionaria di dispiegare tutta la sua efficacia politica reale. Per di più, il positivo e il negativo si intrecciano e confondono, anche per le circostanze oggettive di quegli anni, in modo tale che non è sempre facile separare l’uno dall’altro. Una rottura, però, a un certo punto era inevitabile.
5. La direzione immediata di tutto il lavoro del partito venne affidata dal Comitato centrale, dopo Livorno, a un comitato esecutivo, di cui fecero parte Bordiga, Grieco, Terracini, Repossi e Fortichiari. Repossi ebbe il controllo della azione da svolgersi nei sindacati. Fortichiari il compito di creare l’attrezzatura cosiddetta illegale, riguardante la sicurezza dei collegamenti tra il centro e la periferia e internazionali, la difesa dagli attacchi fascisti e delle persecuzioni poliziesche, la preparazione a eventuali azioni insurrezionali, ecc. Grieco e Terracini curavano la propaganda e i contatti con le organizzazioni periferiche. Il vero dirigente di tutto il lavoro fu però Amadeo Bordiga. Questi era dotato di una forte personalità politica e di notevoli capacità direttive. Aveva svolto per anni un sistematico lavoro di organizzazione della propria frazione in seno al partito socialista e in questo modo acquistato vaste conoscenze e prestigio tra i quadri di sinistra del movimento. Sapeva comandare e farsi ubbidire. Era energico nella polemica con gli avversari, quantunque per lo più scolastico nell’argomentazione. Tutto ciò ebbe come conseguenza che il gruppo dirigente fu centralizzato esclusivamente attorno alla sua persona. Si creò la convinzione ch’egli fosse il vero «capo» di cui il partito aveva bisogno e che lo avrebbe sempre guidato bene, anche nelle situazioni più difficili. Era stato in dissenso con l’Internazionale comunista e apertamente criticato da Lenin per aver predicato l’astensione dalle elezioni e dalle attività parlamentari, nelle quali egli vedeva la fonte principale delle degenerazioni opportunistiche del movimento socialista, ma, costituitosi il partito comunista, aveva rinunciato all’astensionismo, pur conservando della partecipazione al parlamento e ai suoi lavori una concezione puramente strumentale e subalterna. Dovevano esser fatti deputati, a preferenza, compagni che fossero incapaci di qualsiasi altro proficuo lavoro: la segreteria del partito avrebbe poi pensato a passar loro le dichiarazioni e i discorsi da leggersi nell’aula. Però questa non era, tra le sue posizioni, né la più importante né la peggiore, in sostanza. Il peggio era la sua concezione del partito, della sua natura, della sua formazione e della sua tattica. Egli non partiva, per risolvere questi problemi, dalla classe operaia, di cui il partito comunista è una parte, dall’esame delle situazioni reali in cui essa si trova e si muove e dalla determinazione, quindi, degli obiettivi concreti che a ogni situazione corrispondono. Partiva da principi astratti, derivati con processo intellettualistico e che dovevano essere buoni in tutti i tempi e in tutte le situazioni. Posto il fine ultimo della conquista del potere, scompariva la varietà delle posizioni intermedie e del loro nesso dialettico, era negato il valore del movimento politico democratico e dell’avanzata sul terreno della democrazia, le contrapposizioni di classe si traducevano in contrapposizioni politiche rigide, schematiche, gli avversari diventavano tutti eguali né era più possibile alcuna conquista di alleati, la forma e la parola prevalevano sulla sostanza, la coerenza diventava testardaggine, l’azione del partito non poteva più avere alcun respiro, riducendosi a pura esercitazione propagandistica e polemica. Il compito di conquistare alla avanguardia comunista, in qualsiasi situazione, una influenza decisiva sulla maggioranza degli operai e della popolazione lavoratrice era ignorato. Ignorata ogni aspirazione all’unità con altri gruppi politici e ogni lotta per l’unità. L’avanguardia diventava una setta, che si temprava nell’attesa della situazione in cui le masse avrebbero raggiunto le sue posizioni ed essa sarebbe stata in grado di guidarle alla vittoria finale.
Era predominante, in questa concezione del partito, il momento della disciplina esteriore. Passavano in secondo piano, e venivano persino negati con argomentazioni di principio, il momento dell’autonomia e dell’iniziativa delle istanze periferiche e dei singoli compagni, anche assai qualificati; il momento della diversità di posizioni, indispensabile per far fronte a situazioni complicate, a volte profondamente diverse da luogo a luogo; il momento della educazione politica, necessaria per formare i militanti e dar loro il senso della loro responsabilità e, naturalmente, il momento della discussione, del dibattito attraverso il quale non solo il partito nel suo complesso, ma i quadri dirigenti e i semplici aderenti acquistano la capacità di comprendere a fondo ciò che bisogna fare, e quindi di farlo e ottenere successo. La visione del partito era quella di un’organizzazione militare di vecchio stampo, priva di anima, fondata sulla pura obbedienza e quindi sulla quasi sovrumanità di un «capo» o di un ridotto gruppo dirigente di far fronte a tutto, di provvedere ad ogni evenienza con le disposizioni opportune, di dare, nel momento buono, tutte le «direttive» e tutti gli ordini necessari. A che valeva far delle scuole, dove non si approfondisse soltanto la conoscenza delle dottrine marxiste, ma attraverso lo studio di situazioni ed esperienze reali, della geografia, della storia, della struttura economica del paese, si aiutassero i compagni ad acquisire essi stessi la capacità di giudizio autonomo per la concreta determinazione dei compiti politici e di organizzazione? La cosa era considerata superflua, talora perfino imbarazzante. La qualità che più si cercava nei dirigenti locali non era quella di sapersi muovere in modo autonomo, perché facendo questo avrebbero anche potuto sbagliare, mentre non avrebbero sbagliato se si fossero sempre scrupolosamente attenuti alle direttive venute dall’alto. Lo stesso criterio di scelta per incarichi di lavoro e di rappresentanza anche molto importanti non era sempre il criterio della qualità.
Ricordiamo queste cose affinché siano comprensibili le aspre critiche formulate da Gramsci in alcune delle sue lettere, per stimolare la formazione di un nuovo gruppo dirigente. Sbaglieremmo, però, se non dicessimo, anche a questo proposito, che il partito, nel suo complesso, accolse questo indirizzo ideale e pratico con favore. In parte erano le condizioni oggettive che spingevano alla chiusura settaria piuttosto che alle vaste azioni politiche e di massa; in parte si trattava ancora una volta di un modo, errato ma forse non evitabile da chi non era ancora politicamente esperto, di reagire alla confusione e al marasma che erano stati dominanti nel partito socialista e da cui ci si voleva liberare una volta per sempre, facendo ricorso ai rimedi più radicali. Ciò che più sorprende e deve essere registrato con attenzione è che finirono per capitolare davanti a una concezione settaria del partito e della sua funzione anche quei compagni, come Terracini e Togliatti, che accanto a Gramsci e sotto la sua direzione non solo avevano seguito un opposto indirizzo di lavoro, ma avevano dato un contributo alla elaborazione di ben diverse concezioni e ad esse si erano ispirati nel corso di azioni di notevole rilievo. Gramsci non taceva le sue critiche. Queste rimasero però a lungo nell’ambito delle conversazioni personali, non dettero luogo a dibattiti nel Comitato centrale, furono espresse in un’assemblea della sezione comunista torinese soltanto alla vigilia del II Congresso del partito. Il nucleo assai ristretto di compagni che aveva diretto l’Ordine Nuovo si era, d’altra parte, disperso, essendosi allontanati da Torino Terracini, subito dopo Livorno, per lavorare nella segreteria nazionale, Togliatti, alcuni mesi più tardi, per prendere la direzione del quotidiano Il Comunista a Roma, altri per altri motivi. Vi fu un piano della direzione bordighiana nell’ordinare questi spostamenti, allo scopo di impedire la formazione di un gruppo di opposizione, inviando alla fine Gramsci stesso Mosca, dopo il II Congresso, come delegato nell’Esecutivo dell’IC? È difficile dirlo. La dispersione di alcune tra le migliori energie dirigenti in luoghi l’un dall’altro lontani, secondo un piano burocratico imposto dall’alto e in modo che esser risultarono tutte più o meno inadeguate al loro compito venne già osservata da Piero Gobetti come uno dei segni di debolezza e decadimento del movimento comunista di quel periodo [2].
6. La direzione incominciò a vacillare di fronte a due problemi di importanza vitale, quello della resistenza organizzata e armata alla violenza fascista e quello della disciplina alle deliberazioni della Internazionale comunista. La decisione di non partecipare al movimento degli «Arditi del popolo» che venne presa, nei primi mesi del 1921, non appena questo movimento apparve sulla scena politica, fu un serio errore di schematismo settario: i comunisti dovevano avere le loro formazioni di resistenza e non mescolarsi con gli altri, cioè rinunciare, di fatto, a essere fermento e guida di un grande movimento di massa. Molti furono contrari a questa linea di condotta ma non lo dissero. Alla base essa venne però largamente ignorata o corretta nella pratica. Quanto ai rapporti con l’Internazionale, essi incominciarono a diventare acuti al III Congresso mondiale, quando Terracini, a nome della delegazione italiana intervenne per negare la necessità della conquista della maggioranza, sostenne la dottrina estremista della «offensiva» di piccoli gruppi per la conquista del potere e fu violentemente redarguito da Lenin. La politica iniziata dal III Congresso, di unità della classe operaia e delle masse lavoratrici, da raggiungersi con la tattica del fronte unico, urtava contro tutte le concezioni che nel partito italiano avevano preso il sopravvento. Fu quindi prima criticata e respinta, poi accettata a denti stretti, ritenuta valida, per grande concessione, solo per il movimento sindacale, e applicata, infine, senza alcuna fiducia nella possibilità di un risultato politico reale, con l’intenzione, più che altro, di farla servire allo smascheramento dei dirigenti di altre correnti politiche e sindacali, denunciati come traditori nel momento stesso in cui si chiedeva la loro collaborazione. Tutto ciò era contraddittorio e non poteva consentire all’azione del partito di dispiegarsi nel modo ampio ed efficace che la situazione avrebbe richiesto. Anche più profondo diventò il contrasto con la Internazionale quando questa collegò alla lotta per il fronte unico la rivendicazione di un governo operaio e contadino, da costituirsi sulla base della raggiunta unità di azione con le masse socialdemocratiche. La parola d’ordine venne usata anche in Italia, ma senza alcuna convinzione e quindi senza efficacia politica e propagandistica, come pura frase.
Al Congresso del partito, che si tenne a Roma nel mese di marzo del 1922, questi nodi incominciarono a venire al pettine e la direzione uscì dal congresso con un chiaro insuccesso. Essa aveva presentato delle «Tesi sulla tattica», in cui era codificata la propria concezione estremista e settaria e veniva dato un errato giudizio sulla situazione italiana, escludendosi la possibilità di un colpo di Stato fascista. Gramsci criticò queste tesi, prima nella assemblea della sezione torinese, poi nella commissione politica del congresso. Ottenne che venissero alquanto corretti i giudizi sulle prospettive politiche, ma non portò l’attacco a fondo nell’assemblea plenaria. L’attacco fu portato dal bulgaro Vassili Kolarov, delegato dell’Internazionale, con un discorso semplice ma efficacissimo, che scosse il congresso. La fedeltà alla linea politica dell’Internazionale comunista era elemento costitutivo essenziale della coscienza politica del partito e dei suoi militanti. Non ci era separati dai massimalisti e da Serrati, a Livorno, perché questi avevano respinto la integrale applicazione delle decisioni della Internazionale? Messi bruscamente di fronte alla rivelazione di un contrasto di fondo con le posizioni che erano state sostenute così energicamente dallo stesso Lenin, i delegati, anche i più fedeli alla direzione bordighiana, esitarono. Se si fosse presentata, in quel momento, una seria alternativa, la direzione sarebbe stata battuta. La via di uscita venne invece trovata in un compromesso. Le «Tesi» vennero votate, ma al voto venne dato un carattere soltanto consultivo, di contributo al dibattito di un prossimo congresso internazionale e non di approvazione di quella linea politica per la guida del partito. Si finiva, quindi, con un equivoco, ma con una direzione di fatto esautorata.
Perché Antonio Gramsci, al Congresso di Roma, non seguì un’altra linea di condotta, raccogliendo attorno a sé, con una critica aperta, che Kolarov avrebbe appoggiato, il consenso, che non gli sarebbe mancato, di una notevole parte del congresso? È questo uno dei quesiti cui è difficile dare una risposta adeguata. L’argomento che si porta, di solito, per giustificare la sua condotta, è che egli non volle confondersi con un gruppo di compagni che criticavano sia le «Tesi» che il settarismo della direzione ma si collocavano su posizioni di destra. Il più noto di questi era Angelo Tasca, col quale Gramsci era stato in dissenso sin dal 1920. Con lui vi era Antonio Graziadei, critico della teoria marxista del valore; vi erano alcuni dirigenti sindacali e alcuni parlamentari e quadri periferici. Il complesso era molto eterogeneo. Figuravano in esso, tra l’altro, anche dei puri confusionari, che era difficile prendere sul serio (Bombacci, per esempio). Si può dire che questo gruppo rappresentasse un vero pericolo di destra? Lo si può dire in relazione con l’una e l’altra delle affermazioni che si potevano cogliere nelle critiche di questi compagni e discutendo con loro: la interpretazione opportunistica della tattica del fronte unico, la resistenza ai principi di organizzazione del partito comunista, il rifiuto di una vera disciplina politica, la nostalgia delle forme di parlamentarismo che erano state proprie del vecchio partito socialista, la condanna della organizzazione di difesa e preparazione clandestina e così via, sino alla affermazione che la scissione di Livorno non fosse stata compiuta nel modo giusto, ma troppo a sinistra. Erano però tutte posizioni che la stragrande maggioranza del partito respingeva con sdegno, e appunto questo induce a ritenere che un vero pericolo di destra, per il partito nel suo complesso, non esisteva e che sarebbe stato tutt’altro che difficile criticare e respingere in modo deciso il settarismo e gli errori della direzione senza confondersi con coloro che questo pericolo rappresentavano. Anzi, una critica condotta su due fronti avrebbe consentito di recuperare militanti che, non condividendo le posizioni della direzione ma essendo privi di guida, si scoraggiavano, oppure si smarrivano per vie traverse.
Non si può credere che Gramsci ignorasse che la lotta su due fronti è regola costante per lo sviluppo del partito della classe operaia, soprattutto in momenti difficili. Si deve quindi ritenere che egli non vedesse alternative possibili per quanto riguardava la direzione del partito e in questo non si può dargli torto. Un mutamento non era maturo. Non era pronto nemmeno il minimo di materiale umano per una nuova guarnitura. Gramsci stesso dichiarò, più tardi, ch’egli non era al corrente, allora, della vera attività della direzione. Uno scuotimento troppo forte del vecchio gruppo dirigente, e tanto più la sua eliminazione, avrebbero avuto in tutto il partito ripercussioni incalcolabili. Lo stesso composito gruppo di destra non offriva una alternativa: il più capace dei suoi esponenti, che era il Tasca, non aveva le qualità del dirigente politico per le eccessive sue preoccupazioni intellettualistiche e anche per i problemi di ordine personale che lo assillavano. Rimane però valida, pure tenendo conto di tutte queste circostanze, la critica per il fatto che al congresso e dopo il congresso non vennero presi quel minimo di contatti e di accordi che, senza dar luogo a una non ammissibile attività di frazione, avrebbero potuto facilitare, in seguito, la soluzione dei gravi problemi che si presentarono dopo il IV Congresso della Internazionale.
Il Comitato centrale subì, ad ogni modo, un certo rinnovamento. I componenti vennero ridotti da 15 a 14. Furono lasciati fuori Ambrogio Belloni, Nicola Bombacci, Francesco Misiano, Giovanni Parodi (costretto, come il Misiano, a emigrare), Luigi Polano e Antonio Tarsia. I nuovi eletti furono Isidoro Azzario, Vittorio Flecchia, Leopoldo Gasperini, Ennio Gnudi e Togliatti. Il comitato esecutivo rimase, invece, invariato, sia nella composizione che nella ripartizione dei compiti al suo interno. Gramsci, come già si è accennato, venne designato a rappresentare il partito italiano nel Comitato esecutivo dell’IC e lasciò l’Italia, in assai cattive condizioni di salute, pochi mesi dopo il congresso.
7. Dopo il Congresso di Roma del partito socialista (ottobre 1922) la situazione della direzione comunista assunse aspetti che possono sembrare, oggi, persino paradossali. Il congresso socialista segnò la vittoria della corrente massimalista di sinistra. Decise di mettere fuori del partito tutti gli «aderenti alla frazione collaborazionista» e quanti ne approvano le posizioni, cioè i riformisti (Turati, Matteotti, Modigliani, ecc.). In pari tempo rinnovò l’adesione alla Terza Internazionale. Non era questa, effettivamente, la rivincita di Livorno? A Livorno, proprio sul problema della espulsione dei riformisti era avvenuta la rottura con Serrati e i comunisti erano rimasti in minoranza. Il mutamento era conseguenza di molte circostanze di fatto: l’offensiva fascista aveva sensibilmente ridotto gli effettivi del partito socialista alla base e in esso erano a preferenza rimasti, com’è naturale, i militanti più attivi e di opinioni più radicali; vi era stata la assai deludente esperienza, poi, dei tentativi di arginare l’attacco fascista sia con un assurdo «patto di pacificazione», sia con azioni parlamentari indecise e incoerenti. Vi erano però anche state la critica e l’azione dei comunisti, la loro polemica di principio, il loro esempio di perseverante tenacia nella lotta. Era giusto salutare le decisioni socialiste di Roma come una vittoria dei comunisti ed era altrettanto giusto procedere subito, su questa base, a un nuovo esame dei rapporti politici col partito socialista e quindi concludere alla possibilità e necessità di un riavvicinamento e della eventuale fusione. È assai probabile che una parte dei dirigenti socialisti avrebbe respinto la fusione ad ogni modo, qualunque fosse stata la condotta dei comunisti, ma questa è una circostanza che, anziché sconsigliare una coraggiosa iniziativa, avrebbe dovuto affrettarla, per stabilire subito il necessario contatto con le masse socialiste che avevano voluto la svolta operata dal loro congresso.
La posizione dell’esecutivo fu invece, sin dall’inizio, di diffidenza, di malcontento, di rifiuto di ogni giusta azione politica. «Non vi è nulla da fare coi massimalisti», fu la parola d’ordine. I capi che si erano spostati a sinistra lo avevano fatto solo per opportunismo, per non distaccarsi dalle masse. Continuando a batter su di loro come prima, si sarebbe portato a termine questo distacco. Tutta una concezione tipicamente schematica, lontana dalla realtà. Un breve commento favorevole alle decisioni socialiste e che accennava, sia pur da lontano, a una prospettiva di avvicinamento, scritto da Togliatti e pubblicato come editoriale del Comunista, fu disapprovato. Il Comitato esecutivo si dichiarò contrario a qualsiasi proposta di avvicinamento e di fusione, pur sapendo che questa era la linea che veniva consigliata dall’Internazionale. Nel Comitato centrale venne approvato l’orientamento del Comitato esecutivo, con la sola riserva (votata su proposta di Anselmo Marabini e di Togliatti) di non rompere la disciplina dell’Internazionale, cioè di accettarne, dopo un dibattito, le proposte.
8. Era condivisa, dal partito nel suo assieme, la posizione della direzione? Non è facile dirlo ora con precisione. Non si dimentichi che la violenza armata dei fascisti e dello Stato contro le organizzazioni dei lavoratori infieriva e aveva fatto stragi. Si era alla vigilia della marcia su Roma. Si era giunti, dopo lo sciopero generale dell’agosto, al punto più basso delle capacità di resistenza e di lotta delle masse lavoratrici. Le condizioni oggettive stringevano anche la più coraggiosa delle avanguardie in una cerchia sempre più limitata e chiusa. Le possibilità reali di un’azione di vasto respiro, come avrebbe dovuto essere la fusione coi socialisti per non ridursi a una operazione al vertice, erano ridotte. La polemica contro i socialisti era inoltre stata condotta con grande asprezza, senza fare sempre la necessaria distinzione tra i dirigenti opportunisti e la base operaia, cosicché erano stati scavati abissi difficilmente colmabili. La cosa più importante, però, è che il partito non aveva acquistato, per il modo stesso com’era stato diretto, la capacità di compiere i movimenti e le svolte che la situazione richiedeva.
Né si deve disconoscere che la proposta di fusione investiva alcuni temi fondamentali, che nel partito comunista erano ben lungi dall’essere chiari e persino dal poter essere discussi con serenità. I risultati del Congresso di Livorno, che avevano dato ai comunisti soltanto una minoranza, erano da considerarsi un successo o un insuccesso? E quei risultati erano cosa definitiva, oppure, nello sviluppo della situazione, avrebbero potuto e dovuto essere corretti e modificati, e in qual modo? È stato ritrovato, e viene ora pubblicato per la prima volta, il frammento di uno scritto di Gramsci, ove egli afferma che «la scissione di Livorno (il distacco della maggioranza del proletariato italiano dalla Internazionale comunista) è stata senza dubbio il più gran trionfo della reazione». Il primo commento dell’Ordine Nuovo quotidiano alla scissione (scritto da Togliatti), che non è un grido di trionfo, ma concentra l’attenzione sulla serietà e gravità dei nuovi compiti, parte, in sostanza, da un analogo giudizio sull’accaduto. Ma così non la pensavano certamente gli estremisti della frazione astensionistica, per i quali ci si era trovati, a Livorno, anche in troppi! Dalla posizione di Gramsci discendeva la necessità che l’insuccesso venisse superato, con un’azione politica che spostasse i rapporti di forza quali si erano cristallizzati nel gennaio del 1921, estendendo la conquista ideologica e politica a nuovi strati delle masse lavoratrici. Che cosa avevano fatto, a questo scopo, i comunisti; che cosa la loro direzione? Molto, senza dubbio. Si erano battuti con coraggio ed egoismo contro il nemico di classe. Avevano creato una solida organizzazione di avanguardia. Avevano criticato le debolezze, le viltà, gli errori degli altri. Avevano capillarmente esteso la loro influenza. Ma una vera, ampia azione politica, che giungesse a tutte le masse ponendo in modo nuovo un problema nuovo, quello della unità di azione contro l’avversario di classe, l’aveva svolta soltanto l’Internazionale comunista, sviluppando la tattica del fronte unico. Il gruppo dirigente italiano non aveva neanche compreso appieno il valore che quella iniziativa politica aveva proprio per l’Italia e per il partito italiano, dato il modo stesso come questo era sorto. Nel momento che i rapporti di forza, nel partito socialista, si spostavano a nostro favore, questo gruppo era tagliato fuori dalla evoluzione delle cose, non riusciva ad attribuire a se stesso e al movimento che dirigeva una grande e nuova funzione per stimolare e condurre a nuovi risultati positivi un processo politico di importanza tutt’altro che secondaria. Il partito non aveva, insomma, chi fosse capace di dirigerlo in una situazione nuova, che la sua azione stessa aveva contribuito a creare. Questa era la vera decapitazione politica, che il Partito comunista italiano subiva prima ancora che il suo Comitato esecutivo venisse disgregato e paralizzato dagli arresti e il Comitato centrale posto nella impossibilità di funzionare.
9. La esposizione fatta sinora ci porta a concludere che era urgente, decisiva per l’avvenire del partito, la formazione di un nuovo gruppo dirigente. Risulta invece, dal modo come andarono le cose e in particolare dal carteggio che pubblichiamo, tra Antonio Gramsci e i compagni che sotto la sua guida costituirono il nuovo gruppo, che il processo della sua costituzione fu lento e faticoso, che subì interruzioni e ritorni addietro.
Vi fu una prima rottura della vecchia direzione durante il IV Congresso dell’IC, quando la delegazione italiana decise, a grande maggioranza, di approvare le proposte dell’Esecutivo internazionale. A questa rottura non corrispose però la formazione di un nuovo gruppo dirigente. Nessuno pensò a prendere la iniziativa. Il vecchio Comitato esecutivo ritornò in Italia con tutti i suoi poteri, fatta eccezione per il problema della fusione con i socialisti, che per un complesso di motivi non si poté fare. Disgregato dagli arresti il vecchio Comitato esecutivo, le misure per la organizzazione di una nuova segreteria ebbero un carattere del tutto transitorio e occasionale. Al Comitato esecutivo allargato del mese di giugno il disaccordo con la Internazionale si riaccende, per certi aspetti persino si inasprisce e sino alla fine del 1923 la nuova direzione, formata per decisione internazionale, riesce a svolgere un grande lavoro pratico, ma non riesce a consolidarsi interiormente. Si fanno i passi necessari in questa direzione, finalmente, nei primi mesi del 1924, ma nel mese di giugno di questo anno, quando si apre la crisi Matteotti, se è vero che un nuovo gruppo dirigente esiste ed è sicuro di sé, altrettanto è vero che esso non è ancora riuscito a conquistare la fiducia di tutto il partito, il che è condizione indispensabile perché di una nuova direzione si possa parlare. Alla Conferenza nazionale di Como (maggio 1924), il Comitato centrale è ormai conquistato, nella sua maggioranza, a un nuovo indirizzo politico, ma ha contro di sé la maggioranza dei delegati delle federazioni. Si può attribuire la responsabilità di questo fatto al modo come venne impostata, preparata e condotta la conferenza, ma tutto ciò, che potrà essere studiato ed esposto altra volta in modo analitico, non fu che l’ultimo momento del lungo e faticoso processo di cui sopra parlavamo.
Un affrettato giudizio negativo non sarebbe, però, storicamente giusto. Io ritengo sia un grave errore, nell’esporre la storia del movimento operaio e particolarmente del partito nel quale si milita e di cui si è stati e si è dirigenti, sostenere e sforzarsi di dimostrare che questo partito e la sua direzione si siano sempre mossi bene, nel migliore dei modi possibili. Si finisce, in questo modo, con la rappresentazione di una ininterrotta processione trionfale. Ed è una rappresentazione falsa, lontana dalla realtà e da essa contraddetta. Nessuno dei partiti operai e comunisti ha avuto alla sua testa un Lenin, come lo ebbero i bolscevichi. Si esercitarono sopra di essi influenze diverse, provenienti, oltre che dall’esempio rivoluzionario russo, dalla tradizione, dall’esperienza del movimento operaio dei singoli paesi, da molteplici pressioni provenienti dall’ambiente sociale e dalle circostanze stesse della evoluzione economica e politica. La linea giusta venne probabilmente sempre cercata con l’animo e con la buona fede del combattente. Ma la soluzione giusta venne trovata soltanto attraverso l’esperienza propria, il che vuol dire attraverso esitazioni e dibattiti, nonché commettendo errori, seguendo talora indirizzi non giusti o non rispondenti, in concreto, alle situazioni e ai compiti ad esse adeguati. La storia del nostro movimento diventa cosa vivente e ricca di insegnamenti solo quando ci dice quali cose realmente sono accadute e come sono accadute, ma ciò essa può fare solo se ci espone e fa comprendere questo processo. Un partito che voglia essere o diventare un vero partito della classe operaia, con carattere di massa, non ha mai, d’altra parte, una vita interiore la quale possa essere priva di contatto e legame con gli spostamenti che si compiono nelle masse lavoratrici e con i processi di coscienza che li accompagnano. Anche le esitazioni e gli errori, quindi, non possono essere veduti soltanto come espressioni di inadeguatezza ideale, incomprensione, incapacità o peggio. Anche in essi bisogna saper scorgere l’espressione di una situazione particolare, di un gruppo di problemi non ancora risolti, di una esigenza non soddisfatta a tempo e nel modo dovuto e che pesa su tutti i successivi sviluppi.
Perché vi fu tanta esitazione, così in Gramsci come in Scoccimarro, Terracini, Togliatti e gli altri, nel parlare crudamente della necessità di dare al partito nuovi indirizzi e una direzione nuova, anche quando di fatto essi stavano già attuando il necessario mutamento? Abbiamo già parlato, a proposito del II Congresso, del gruppo minoritario di destra, di ciò che esso era e della misura in cui poteva costituire un reale pericolo di deviazione e disgregazione di tutto il partito. Dal complesso del carteggio che oggi si pubblica risulta che il timore di questo pericolo continuò a essere presente e agì sino all’ultimo come freno a uno spostamento più rapido e più deciso. Nel giugno del 1923, anzi, il gruppo minoritario fece una mossa assai pericolosa, rivendicando per sé, davanti all’Internazionale, la direzione. La richiesta non fu accolta, ma nel dibattito provocato da essa e, contemporaneamente, dal fallimento del tentativo di fusione col partito socialista, erano stati avanzati argomenti, falsi in linea di fatto, che esasperavano e respingevano tutti i compagni i quali erano stati partecipi, in un modo o nell’altro, della vecchia direzione. Tale, per esempio, l’affermazione che ricadesse sui comunisti la responsabilità per l’avvento del fascismo. Non solo era un’affermazione sbagliata, ma tale che rimetteva in discussione, se si fosse dovuto scoprirne il vero significato, persino la legittimità e necessità della scissione di Livorno. Come meravigliarsi, di fronte a ciò, della asprezza con la quale reagirono uomini che con tanta convinzione e tanta passione avevano percorso il cammino del movimento operaio italiano nel dopoguerra? Rimane aperta, però, la stessa questione che abbiamo posto a proposito della condotta di Gramsci al congresso comunista di Roma. Il gruppo minoritario, a parte il temporaneo successo del 1923, che gli aprì l’accesso agli organi dirigenti del partito, era veramente un coacervo di aspirazioni informi, incoerenti, spesso contraddittorie. Si veda il caso di Bombacci, demagogo senza principi, che di fronte all’avvicinamento diplomatico alla Unione sovietica voluto da Mussolini, incomincia a vaneggiare parlando di «due rivoluzioni che si incontrano». Oppure si abbia presente il caso del deputato Ambrogio Belloni, di Alessandria. Era comunista di tempra ben diversa dal Bombacci e rimase nel partito fino alla morte. Ma in due articoli da lui scritti sul Lavoratore di Trieste (del 21 e 23 marzo 1923) e che nel carteggio che pubblichiamo sono ricordati tanto da Gramsci quanto da Scoccimarro, vi è una grande confusione: lo smantellamento dell’economia di guerra nei paesi capitalisti è posto su un piano con la fine del comunismo di guerra in Russia, ecc. ecc. Era senza dubbio giusto il giudizio che si dava di questo gruppo, ma appunto perché questo giudizio corrispondeva alla realtà, erano assai ridotte le proporzioni del pericolo che esso rappresentava, di fronte a un partito che, nella sua grande maggioranza, proprio gli esponenti di quel gruppo non voleva vedere alla propria testa. Gli stessi dirigenti dell’Internazionale lo comprendevano e, anche nei momenti di più grave contrasto, furono assai prudenti nel muoversi in quella direzione.
Un discorso alquanto diverso devesi fare, invece, per quanto riguarda l’orientamento e lo stato d’animo prevalenti, in quel periodo, nella massa degli aderenti al partito. È presto fatto, ed è anche giusto, rilevare che quell’orientamento e quello stato d’animo erano la conseguenza di determinati indirizzi errati e di determinati errori politici concreti; ma nel muoversi per aprire a tutto l’organismo, nel suo complesso, una nuova strada, si doveva o non si doveva tenerne conto? Pensare che Serrati tornasse a essere un dirigente di partito, era cosa a cui la maggioranza dei compagni, alla fine del 1922, non poteva abituarsi. E così molte altre cose. La stessa forza del pensiero politico di Antonio Gramsci e le sue capacità di dirigente, erano conosciute solo da chi gli era stato più vicino. Non parliamo di molti altri, che erano stati visti nella parte di fedeli esecutori e come tali considerati, ma niente di più. Non si può non essere colpiti dal contrasto che emerge tra le posizioni nuove, giuste, dettate da una acuta percezione del presente e dell’avvenire, che sono esposte da Gramsci, nelle sue lettere, in modo via via sempre più chiaro, e il continuo ricadere degli altri compagni in una cerchia di problemi più ristretta, dove il passato incombe ancora, col peso di considerazioni che tarpano le ali alla creazione politica. Non vi è dubbio che in questa cerchia si muoveva ancora la massa degli iscritti e dei loro quadri, e dalla base quindi, come si direbbe ora, veniva, in sostanza, il freno a un movimento più rapido.
È vano chiedersi, oggi, se un’azione di rottura, iniziata in questo o quel momento preciso, avrebbe potuto avere questi o quei risultati, più o meno favorevoli. Si deve invece concludere che nella vita di un partito esiste sempre un momento di inerzia. Quando prevale una concezione settaria, questo momento di inerzia ha un valore massimo, e il suo peso è tanto più grande quanto meno il partito è stato abituato al dibattito interno, alla elaborazione collettiva della sua politica e delle sue iniziative, alla partecipazione del maggior numero possibile dei suoi militanti a questa elaborazione. Ebbene, questo era proprio il caso del Partito comunista italiano dopo i primi due, tre anni della sua esistenza. Coloro che volevano metterlo sopra una via più giusta, dovevano liberare se stessi da una malattia che era di tutto l’organismo.
10. Antonio Gramsci, prima di tutti e più di tutti, da questa malattia si era totalmente liberato. È difficile affermare, anzi, che egli ne avesse sofferto. La sua spiegazione della condotta che dovette tenere al IV Congresso dell’IC dà veramente il quadro di uno «stato di necessità», di rapporti politici e di organizzazione che era difficile pretendere venissero dominati e cambiati dalla iniziativa di uno solo, per quanto capace e coraggioso egli fosse. Ciò che si deve sottolineare, ciò che costituisce il merito di Gramsci e mostra come egli, quale promotore del nuovo gruppo dirigente, non fosse sostituibile, è il metodo ch’egli segue nel dibattito, richiamando gli altri compagni alla corretta applicazione dei principi del marxismo, alla comprensione della situazione oggettiva e, in essa, dei nuovi rapporti di classe e politici e dei nuovi avvenimenti che stavano maturando. Solo questo metodo consentiva di superare senza residui tutte le esitazioni, uscire dall’ambito ristretto della pura problematica organizzativa, delle ingiustificate paure, delle più o meno valide tradizioni di gruppo, delle questioni di prestigio o personali, e imboccare la grande strada della ripresa di una azione politica.
Si era all’inizio di un nuovo periodo nello sviluppo della situazione. I problemi dell’immediato dopoguerra stavano per essere superati. Rimaneva incrollabile la grande conquista della Rivoluzione d’ottobre, punto di partenza di una lunga e non sempre facile costruzione di un nuovo ordinamento sociale, ma negli altri Stati europei le ondate del movimento rivoluzionario si stavano esaurendo. Nel 1923 si ebbe, in Germania, l’ultima lotta diretta per il potere. Le più gravi conseguenze economiche dello sconvolgimento bellico in alcuni paesi erano già superate. Continuavano a esistere profonde contraddizioni interne e contrasti gravi tra Stato e Stato, ma i gruppi dirigenti borghesi pensavano di poter far fronte a queste difficoltà con metodi nuovi, da un lato con l’aperta violenza fascista, dall’altro con il ricorso al sostegno della socialdemocrazia, che accedeva al potere con funzioni di partito di governo dichiarando di avere intenzioni riformatrici. Le avanguardie rivoluzionarie correvano il rischio di rimanere isolate e tagliate fuori, ove non avessero saputo comprendere la situazione nuova, rinnovare il loro collegamento con le masse ed estenderlo, nelle condizioni di lotte che non avevano più la prospettiva vicina della conquista del potere. Si passava – per usare l’espressione di Gramsci – da una battaglia di movimento a una guerra di posizione. La suprema assise del movimento comunista, il Congresso dell’Internazionale, definì nell’estate del 1921 questa nuova situazione, chiamandola di relativa stabilizzazione del capitalismo, e nello stesso tempo si muoveva e concludeva l’analisi di Gramsci. In questa nuova prospettiva, tutto l’orientamento che il partito italiano aveva avuto sino ad allora doveva essere riveduto.
Anche per l’Italia era prevedibili, ed è affermato in modo aperto in queste lettere, alcune delle quali scritte pochi mesi dopo la marcia su Roma, che si stesse per aprire una fase nuova.
Gramsci giungeva a questa conclusione indagando la natura del movimento fascista. Com’è noto, la posizione ufficiale della direzione comunista era stata di ridurre il fascismo a un semplice fatto interno della classe dirigente borghese e il suo avvento al potere, quindi, ove vi fosse stato, a una rotazione di gruppi non sostanzialmente diversi l’uno dall’altro. La classe operaia e il suo partito dovevano respingere la violenza dei fascisti, difendersi, attaccarli, se possibile, per schiacciarli, ma non potevano fare distinzione tra i differenti gruppi che si contendevano il potere. Non vi era possibilità di un «colpo di Stato», perché la natura dello Stato non sarebbe cambiata. Questa concezione era sbagliata, ma un attento studio della pubblicistica di quel tempo rivelerebbe ch’essa era comune alla maggior parte della opinione politica, da Giolitti ai socialisti. L’attenzione di Gramsci si rivolgeva invece al contenuto di classe del movimento fascista. Non negava che esso fosse uno strumento di aperta repressione nelle mani della borghesia capitalistica, anzi, fin dal 1920 aveva preveduto che questa borghesia avrebbe fatto ricorso a qualsiasi mezzo, e prima di tutto alla violenza armata e alle spietate persecuzioni, per distruggere tutte le conquiste operaie e democratiche e ridurre il proletariato e le masse lavoratrici a una condizione servile. Il movimento fascista, però, era sorto da uno spostamento e dall’attività di determinati gruppi sociali, tanto nelle campagne quanto nelle città, e questi non erano omogenei tra di loro, né erano omogenei con i vecchi gruppi dominanti. Si aprivano quindi nella società italiana nuove contraddizioni e le stesse truppe d’assalto della reazione venivano lacerate da contrasti interni non privi di importanza nazionale. A questa indagine di classe, e quindi alla ricerca delle posizioni programmatiche e tendenze politiche che sorgevano dalle file delle sezioni fasciste urbane e dello squadrismo rurale, Gramsci si era dedicato – e aveva avviato Togliatti – nell’ultimo periodo della loro diretta collaborazione, cioè nei primi mesi del 1921. Togliatti aveva proseguito il lavoro, in vista del IV Congresso dell’Internazionale, al quale avrebbe dovuto presentare un rapporto sull’argomento. Non essendosi egli recato al congresso, è da credere che i materiali da lui preparati siano andati perduti. Il rapporto venne fatto, secondo una linea diversa, prevalentemente narrativa, dallo stesso Bordiga. Dai documenti che ora pubblichiamo risulta come Gramsci tendesse a considerare il fascismo un tentativo della borghesia agraria di affermarsi nello Stato italiano come forza indipendente, alleata ai grandi proprietari contro i contadini e contro gli operai. Ciò portava, tendenzialmente, a un distacco dalla piccola borghesia urbana, che aveva costituito il primo movimento fascista, e rendeva particolarmente acuti i rapporti tra il fascismo e il Partito popolare (cattolico), che aveva cercato, nel primo dopoguerra, di fare attorno a sé l’unità di tutti gli strati possidenti della campagna.
Si può oggi discutere della misura nella quale queste analisi e conclusioni erano giuste. Giusto era l’indirizzo della ricerca, che Gramsci proseguiva per definire con esattezza le posizioni dei diversi gruppi dirigenti borghesi, i motivi che li avevano spinti a favorire la marcia su Roma e i motivi che potevano spingerli, dopo la marcia su Roma, a non vedere più con soverchia simpatia il governo fascista. Era quindi evitato il più grave errore che allora si potesse compiere e che consisteva nel credere che l’avvento al potere di Mussolini e delle camicie nere escludesse qualsiasi prospettiva di vasti movimenti politici e di massa. Da un lato diventava insistente la ricerca anche dei più piccoli inizi o germi di una opposizione che sorgesse dal basso (ex combattenti, dannunziani, cattolici di sinistra, regionalisti, sardisti, ecc.); d’altro lato non era esclusa, anzi, ritenuta probabile una rottura ai vertici che spingesse una parte della stessa borghesia a liberarsi dal legame col fascismo. Veniva avanzata, in questo modo, l’ipotesi concreta di una prospettiva democratica, che il movimento operaio e il partito comunista dovevano essere in grado di affrontare.
Non vogliamo ora esaminare se, nei mesi e anni che seguirono, il partito comunista seppe proseguire per il cammino che da questa indagine gli veniva aperto. Certo è che la previsione di un nuovo periodo di acuta crisi politica e di lotte aperte venne confermata dai fatti e altrettanto certo che quando questo periodo si aprì, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, la direzione del partito comunista aveva già rotto la crosta dei vecchi schemi settari ed era pronta ad azioni di ampio respiro. Non è in nostro possesso, purtroppo, lo scritto di Gramsci, del gennaio 1924, nel quale egli proponeva che il quotidiano di cui si stavano per riprendere le pubblicazioni non si chiamasse più né il Comunista, né l’Ordine Nuovo, ma l’Unità. Egli giustificava questo titolo partendo non tanto e non solo dagli obiettivi unitari che dovevano ispirare la nostra azione in seno alla classe operaia e alle masse lavoratrici, quanto dalla sua visione della funzione nazionale che spettava al proletariato per dare al nostro paese quella interiore costruzione unitaria che le classi capitalistiche non avevano saputo dare, perché avevano considerato il Mezzogiorno come terra di conquista e di sfruttamento. È di questo periodo lo sviluppo della sua intuizione strategica dell’alleanza tra l’operaio delle zone industriali avanzate e la grande massa della popolazione povera e disagiata del Mezzogiorno nella lotta per abbattere il dominio del grande capitale e rinnovare tutta la società italiana. La intuizione verrà ampiamente sviluppata, in preparazione dei III Congresso del partito comunista, come ricerca e determinazione delle forze motrici della rivoluzione socialista in Italia, ma fin dall’inizio del 1924 Gramsci ne ricava le più interessanti conseguenze tattiche e politiche, sino a stabilire la solidarietà con i movimenti autonomisti che allora sorgevano nelle regioni meridionali e prevedere una particolare struttura del potere in uno Stato operaio e contadino, per dare a questi movimenti la necessaria soddisfazione e fondare su nuove basi democratiche l’unità del paese.
L’analisi che Gramsci in questo modo compiva e le indicazioni di lavoro che egli forniva, uscivano completamente dall’ambito entro il quale sino allora anche i più capaci dirigenti del partito si erano messi, approfondivano il problema della storia, delle strutture e delle sovrastrutture della società italiana e lo facevano con un metodo marxista rigoroso, da cui soltanto poteva discendere una conseguente nuova azione tra le masse. Gramsci dava in questo modo l’esempio di quella ricerca e creazione politica, che ciascun partito comunista deve saper compiere in modo autonomo, per potersi sviluppare, e che invece aveva constatato ed affermava apertamente che non erano esistite, nei primi anni di vita della Terza Internazionale, il che aveva impedito che più grandi successi si potessero conquistare.

NOTE
[1] Neutralità attiva e operante
[2] Piero Gobetti, La rivoluzione liberale, Bologna, 1924, p. 98.