I “pensieri lunghi” di Enrico Berlinguer su innovazione tecnologica e futuro dell’umanità

Relazione di Gennaro Lopez al Convegno “Enrico Berlinguer e i giovani. un’altra idea del mondo” – Roma 8 maggio 2014

Nel dicembre del 1983, dunque appena sei mesi prima di quel tragico 11 giugno 1984, E. B. viene intervistato su l’Unità da un ventinovenne Ferdinando Adornato. Si tratta di un testo per la verità scarsamente divulgato e ancor meno studiato. Eppure, per chi voglia approfondire la radici culturali della stessa strategia politica berlingueriana, si tratta di un fonte ricca e preziosa. L’argomento è il medesimo richiamato nel titolo di questa comunicazione. Nella conversazione si prende spunto dal noto romanzo di George Orwell intitolato 1984, con ovvia allusione, quindi, all’anno che stava per aprirsi, ma soprattutto in quanto espressione di una corrente di pensiero e letteraria tendente a presentare il progresso scientifico come fenomeno disumanizzante, che annullerebbe le specificità individuali delle persone. Il libro di Orwell, pubblicato nel 1948, B. lo aveva letto nel 1950, cioè in un periodo in cui la tendenza dominante era quella di vedere nello Stato totalitario e disumanizzante descritto da Orwell “una metafora dell’Unione Sovietica”. Va subito detto che B. non mostra particolare simpatia per Orwell: tutt’altro. Rimanendo nello stesso “genere” (la letteratura cosiddetta “distopica”), giudica Huxley (autore di Brave new world, 1932; trad. it. Il mondo nuovo) scrittore più raffinato e Jack London (autore di The Iron Heel, 1908; trad. it. Il tallone di ferro) scrittore più valido. Ma, al di là dei gusti letterari, importa sottolineare, di questa valutazione negativa, due aspetti: il primo è che “il mondo ha tradito la profezia di Orwell”, “il segno di fondo dei processi storici mondiali è stato un altro” (crollo degli imperi coloniali, processo di liberazione delle donne, un generale processo mondiale di elevazione culturale degli uomini); il secondo aspetto è che dietro la letteratura distopica tende a celarsi “un tradizionale sentimento delle élites intellettuali, che di fronte a tutti i fatti che significano socializzazione della cultura o della politica si ritraggono con l’impressione che questo poi finisca per schiacciare la vita dell’individuo, la creatività, l’arte”. “Portata all’estremo, questa diventa una posizione reazionaria. I periodi di grandi trasformazioni possono anche comportare, temporaneamente, abbassamenti del livello culturale, della creatività ma, insieme, mettono in campo nuove energie, nuovi intelletti, nuove forze. Conta in modo decisivo la capacità di orientare e governare questi processi”. “Tutti questi mezzi danno maggiori possibilità di arrivare a una dimensione onnilaterale dell’uomo proprio perché sono portatori dei un enorme arricchimento delle conoscenze, e offrono la possibilità di una cultura politecnica”. Qui è evidente l’eco di teorizzazioni marxiane e gramsciane; altrettanto evidente è la volontà di rilanciare una visione utopica costruttiva in opposizione alla negatività di ogni distopia. Lo dice esplicitamente: “Bisogna avere il coraggio di un’utopia che lavori sui ‘tempi lunghi’ per utilizzare sempre nuove scoperte scientifiche per migliorare la vita degli uomini e per guidare consapevolmente i processi economici e sociali. Cos’è il socialismo se non questo? E’ la direzione

consapevole e democratica, quindi non autoritaria, non repressiva, dei processi economici e sociali con il fine di uno sviluppo equilibrato, della giustizia sociale e di una crescita del livello culturale di tutta l’umanità”. Utopia che non è, dunque, né attesa messianica né sogno dell’impossibile, ma visione della società e del mondo che ispira l’agire politico. Se mi si passa l’ossimoro, siamo qui in presenza di una sorta di ‘utopica concretezza’, di una razionale ma non rassegnata concezione della storia: “non sono mai mancate e non mancheranno nel futuro della storia dell’uomo interruzioni brusche, rotture, anche involuzioni, periodi di tirannide, fanatismo, oppressione”, ma qui entra in gioco la politica. Quando B. ricorre ad espressioni come “orientare”, “governare”, “guidare consapevolmente”, “direzione consapevole e democratica”, allude a funzioni proprie della politica. Illuminante, a questo proposito, un altro passaggio dell’intervista ad Adornato: “Credo sia sempre più forte il bisogno di reinvestire la politica di ‘pensieri lunghi’, di progetti. Naturalmente questi pensieri devono essere sorretti da un’analisi scientifica della realtà, altrimenti si trasformano in vuote proclamazioni retoriche”. Precisazione quanto mai utile per comprendere che il riferimento teorico resta quello di Marx, con una presa di distanza da suggestioni proprie dell’illuminismo, poi del positivismo e infine dell’ideologia capitalistica degli anni del “boom economico”, tendenti a prefigurare una sorta di progresso inarrestabile dell’umanità. Già nel maggio dell’82, al congresso della FGCI, B. aveva affermato: “Per tutti gli anni ’60 imperava il vacuo ottimismo del progresso incessante, del benessere che si sarebbe via via diffuso in tutti gli strati della popolazione e a tutte le nazioni. Ma negli ultimi anni la realtà ha richiamato la necessità di una visione più lucida del futuro del mondo”. Sottolineo questo dato, del rigore teorico e di analisi del segretario comunista, mai sufficientemente approfondito, a me sembra. Eppure si tratta di tema ricorrente nelle sue argomentazioni. Quando Adornato gli chiede delle conseguenze che a livello teorico l’innovazione tecnologica può comportare, alla luce della riduzione del peso sociale della classe operaia a vantaggio di lavoratori intellettuali, tecnici, ricercatori, la risposta di B. è molto netta: egli ritiene, infatti, che sia “assolutamente da respingere l’idea che questi nuovi processi costituiscano una confutazione del marxismo e del pensiero di Marx in particolare. Il carattere sociale della produzione (e anche dell’informazione come fattore di produzione) è sempre ancora in contrasto con il carattere ristretto della conduzione economica. Questo assunto di Marx non è smentito neanche dalla rivoluzione elettronica”. Un rigore teorico, quello di B., che sarebbe tuttavia davvero sbagliato assimilare ad una sorta di ortodossia o di dogmatismo, dal momento che nello stesso contesto rivendica a se stesso e al suo partito di aver superato “tante incrostazioni ideologiche, anche proprie del marxismo”. E già nel 1976, parlando ai giovani a Milano, aveva affermato con nettezza: “la storia reale non tollera schemi” ed aveva esortato quegli stessi giovani a “cercare il nuovo con passione, con severità e con rigore … [in quanto] i giovani e le ragazze sono i più interessati, i più pronti a cogliere tutte le novità che si presentano, e i più disponibili a impegnarsi per far camminare queste novità”. Nello stesso discorso, dopo aver rilevato che dal disagio della società capitalistica “nasce quella che si potrebbe definire (e che i giovani avvertono in modo particolarmente acuto) l’infelicità dell’uomo di oggi”, indicava “la necessità di uscire dal capitalismo e di andare verso una società superiore … capace di continuare a far progredire le forze produttive, la tecnica, la scienza … [perché]

vogliamo affrontare le sconfinate distese del mare aperto per approdare a una nuova società a misura dell’uomo”. Se, dunque, dovessimo o volessimo definire con un solo aggettivo l’atteggiamento di B. di fronte alla rivoluzione tecnologica, ricorrerei al termine “laico”. Egli stesso afferma che “l’atteggiamento più corretto di fronte alle nuove rivoluzioni tecnologiche sia quello di considerarle in partenza come ‘neutrali'”. Si tratta perciò di ragionare su potenzialità e rischi. Tra i possibili rischi, B. prende in considerazione quello di una possibile passivizzazione della società, anche perché –egli dice- “i governi di quasi tutti i paesi del mondo contano sulla passività dei loro sudditi”. Qui ci sarebbe lo spunto per aprire un’interessante riflessione su come B. consideri il potere e, in particolare, alcuni centri del potere (i governi, gli apparati, i complessi militari-industriali), ma andremmo fuori tema. Per tornare, invece, al tema: rispetto ad altri fenomeni (quelli, per esempio, legati a “nuove espressioni di fanatismo ideologico o religioso che possono, in qualche paese, prendere il sopravvento”), il rischio di una crisi delle istanze di partecipazione democratica prodotta dall’uso delle nuove tecnologie viene circoscritto, in virtù di una innata tendenza dell’uomo alla “associazione collettiva”: “credo che questa sia una esigenza irrinunciabile dell’uomo e continuerà a esistere anche se in forme diverse dal passato … certo si può immaginare un mondo nel quale la politica si riduca solo al voto e ai sondaggi; ma questo sarebbe inaccettabile perché significherebbe stravolgere l’essenza della vita democratica … ci vogliono limiti precisi all’uso dei computer come alternative alle assemblee elettive … io credo che nessuno mai riuscirà a reprimere la naturale tendenza dell’uomo a discutere, a riunirsi, ad associarsi”. Alla luce di quanto poi è accaduto negli anni successivi e di quanto, ancor di più, accade oggi, si potrebbe essere tentati di definire “ottimistica” questa previsione, ma va ribadito che B. assegnava un ruolo forte alla capacità della politica di orientare, dirigere, governare questi processi innovativi: di qui l’apparente ottimismo. Tuttavia, egli aveva già chiaro un ritardo culturale e politico (una sorta di pigrizia intellettuale) che la sinistra tendeva ad accumulare di fronte ai temi della rivoluzione elettronica, tanto che al giovane Adornato rivolge quasi un rimprovero: “Avevo proposto circa un anno e mezzo fa, al Congresso della FGCI, l’idea di un convegno di futurologia che affrontasse non soltanto i problemi dell’economia e dell’industria, ma tutto intero l’arco delle questioni del nostro futuro … siamo di fronte ad una vera e propria ‘crisi del mondo’. Viviamo in un’epoca per molti aspetti suprema della storia dell’uomo, sia per le possibilità che per i rischi. Pensavo ad un convegno che mettesse insieme studi e analisi di ambiti diversi: le scienze fisiche, chimiche, biologiche, antropologiche, demografiche, informatiche, mediche … un convegno che guardasse al futuro con un po’ di fantasia ma sempre sulla base delle acquisizioni e previsioni delle varie scienze”. In effetti, proprio davanti alla platea di giovani di quel congresso della FGCI, il 25 maggio del 1982, B. aveva proposto una serie di considerazioni impegnative ed esplicite: “Dobbiamo … al progresso continuo delle scienze sperimentali le possibilità davvero inaudite e straordinarie che si aprono per migliorare la vita del genere umano … occorre riflettere bene intorno alle occasioni offerte dalla scienza per non smarrire il significato della loro portata, per cogliere quali prospettive positive possono essere aperte e quanto gravi siano, di contro, le limitazioni, le contraddizioni, i rischi generati dai vincoli sociali e politici e da un uso distorto delle scienze e delle tecniche … Quanti nel mondo – e come – pensano davvero a problemi di questa natura muovendo da

un’analisi oggettiva e da una visione che abbia al suo centro la preoccupazione per il futuro dell’umanità? … Come si possono affrontare queste contraddizioni senza porsi l’obiettivo di una trasformazione degli attuali sistemi di rapporti tra gli uomini e di una guida più razionale e più democratica dei processi economici e sociali sul piano nazionale, europeo e mondiale?” Nel volere stabilire un nesso, una relazione tra politica, saperi, scienze e destini dell’uomo trovo interamente espresso lo straordinario spessore del pensiero e della visione politica di E. B. Il suo orizzonte è il mondo, nella sua globalità, e l’esigenza di renderlo più umano. C’è, in questo, una continuità di discorso che a me pare smentisca in radice chi ha voluto – e vuole – vedere due fasi nettamente distinte nella biografia politica di B. Segnalo a questo scopo, in ordine cronologico, una serie di citazioni che mi sembrano estremamente eloquenti. Febbraio 1969, XII Congresso del P.C.I.: “Noi sbaglieremmo se ci chiudessimo nella visione, non dico del nostro paese, ma anche di quella parte dell’Europa e del mondo che è formata da paesi di capitalismo maturo … Il rilancio dell’internazionalismo … passa attraverso metodi e forme nuovi, e nuovi universali contenuti … per la pace, per il progresso materiale, civile e culturale, per la libertà di tutti i popoli e dell’intera umanità”. Dicembre 1974, Comitato Centrale in preparazione del XIV Congresso del P.C.I.: “Vi sono atteggiamenti pseudo- rivoluzionari di negazione dello sviluppo produttivo, della scienza e della tecnica … Contro le tendenze irrazionalistiche e nichilistiche e contro le correnti oscurantistiche ci battiamo perché si abbia fiducia nella ragione, nella capacità di intervento degli uomini in quanto si uniscono fra loro in società”. Marzo 1975, XIV Congresso del P.C.I.: avanza l’ “ipotesi di un ‘governo mondiale’ che sia espressione del consenso e del libero concorso di tutti i paesi … [per] una nuova fase caratterizzata dall’attiva costruzione di un solido e sicuro assetto mondiale di coesistenza pacifica e di cooperazione per lo sviluppo dell’intera umanità e per la giustizia in ogni parte della Terra” [attraverso una lotta che sconfigga imperialismo e capitalismo]. Ottobre 1976, Comitato Centrale del P.C.I.: il tema di fondo è quello dei cosiddetti “elementi di socialismo”; sottolinea la necessità di collegare la lotta per una politica economica rigorosa alla trasformazione della società e alla sua umanizzazione; l’umanizzazione della convivenza civile avrà conseguenze positive sull’emancipazione della donna e per l’avvenire della giovani generazioni. Novembre 1978, intervista a l’Unità: “Promuovere una concertata divisione internazionale del lavoro che dia luogo progressivamente alla formazione di un mercato unico mondiale”. Marzo 1979, XV Congresso del P.C.I.: “Il mondo di oggi è più unito che nel passato, per alcuni tratti di fondo – di vita e di morte – che sono comuni a tutti i paesi e all’intera umanità. Il mondo di oggi, inoltre, è più unito per i nuovi legami di interdipendenza e reciproca influenza: nei campi dell’economia, delle ricerche e conquiste scientifiche energetiche e spaziali, e della medicina; nel campo dell’informazione, assurta a così nuova e decisiva importanza; nel campo del costume. E’ un mondo più unito che nel passato, perché oggi le idee – correnti filosofiche e politiche, ispirazioni e fedi religiose, gusti e modi di sentire, tendenze dell’espressione e dell’arte – hanno mezzi nuovi per attraversare barriere e rapidamente propagarsi nelle aree più vaste. Ed è un mondo unito, crediamo, anche per l’inquietudine di larga parte dell’umanità: in quanto essa, per opera delle stesse conquiste umane, è posta di fronte a un orizzonte sconfinato di progresso scientifico e tecnico e di possibilità di dominio della natura; ma, nel tempo stesso, è posto di fronte

alla crescente difficoltà di vedere su quali vie e verso quali sbocchi sta camminando … La pace è indivisibile. Indivisibili sono lo sviluppo e la libertà di tutti i popoli. Indivisibile è il destino dell’uomo. Su tutti i problemi sovrasta e incombe quello della salvaguardia della pace e della salvezza dell’umanità.” [Fa poi esplicito riferimento a Togliatti: intervista a “Nuovi Argomenti” del 1954 e discorso sul “Destino dell’uomo”, Bergamo 1963]. Ottobre 1979, comizio a Lisbona: “Decisiva è oggi, per il genere umano, la costruzione di un nuovo ordine economico internazionale … opponendosi decisamente all’imperialismo, al colonialismo, al neocolonialismo, al razzismo”. Dicembre 1981, Comitato Centrale del P.C.I.: “Necessità di una guida razionale del mondo. Ciò è diventato ormai una necessità vitale per l’umanità, vitale nel senso che è in gioco la vita stessa del genere umano, il suo futuro.”; “Aprire concretamente la strada all’affermarsi di una nuova qualità dell’esistenza dell’uomo, a trasformazioni profonde degli indirizzi e dei fini dello sviluppo.” Alla luce di quanto si è detto mi sembrerebbe non azzardato parlare di un “cosmopolitismo umanistico” di E. B., che va molto oltre l’internazionalismo di matrice marxiana, pur costantemente presente, e al tempo stesso risente dell’influenza di correnti culturali alle quali il dirigente comunista fu certamente sensibile fin dagli anni della sua formazione. All’eco del pensiero mazziniano che risuonava, com’è noto, nella casa paterna, allo studio dei classici del marxismo, altre letture concorsero all’elaborazione del suo pensiero; possiamo ipotizzarle: da Norbert Wiener [1894-1964, padre della moderna cibernetica] a Erich Fromm [1900-1980, teorico di un “umanesimo socialista”], da Robert Jungk [1913-1994; autore di “Il futuro è già cominciato” (1952, ed. it. Einaudi), “Gli apprendisti stregoni” (1956, ma pubblicato nel 1977), “L’onda pacifista” (1983, ed. it. Garzanti)] a Pierre Theilard de Chardin [1881-1955; gesuita, scienziato, teologo, teorico di un “nuovo umanesimo”]. Tutte ipotesi da verificare. Ma ho per certo che con B. e con gli sviluppi del suo pensiero si sarebbe stati in grado di contrastare, almeno culturalmente, la globalizzazione di stampo capitalistico e la sinistra, le forze progressiste non si sarebbero trovate nel guado melmoso in cui ancora oggi sono immerse.