1) IMPERIALISMO E COESISTENZA ALLA LUCE DEI FATTI CILENI

28/9/1973

Gli avvenimenti cileni sono stati e sono vissuti come un dramma da milioni di uomini sparsi in tutti i continenti. SI è avvertito e si avverte che si tratta di un fatto di portata mondiale, che non solo suscita sentimenti di esecrazione verso i responsabili del golpe reazionario e dei massacri di massa, e di solidarietà per chi ne è vittima e vi resiste, ma che propone interrogativi i quali appassionano i combattenti della democrazia in ogni paese e muovono alla riflessione.
Non giova nascondersi che il colpo gravissimo inferto alla democrazia cilena, alle conquiste sociali e alle prospettive di avanzata dei lavoratori di quel paese è anche un colpo che si ripercuote sul movimento di liberazione e di emancipazione dei popoli latino-americani e sull’intero movimento operaio e democratico mondiale; e come tale è sentito anche in Italia dai comunisti, dai socialisti, dalle masse lavoratrici, da tutti i democratici e antifascisti.
Ma come sempre è avvenuto di fronte ad altri eventi di tale drammaticità e gravità, i combattenti per la causa della libertà e del socialismo non reagiscono con lo scoramento o solo con la deprecazione e la collera, ma cercano di trarre un ammaestramento. In questo caso l’ammaestramento tocca direttamente masse sterminate della popolazione mondiale, chiamando vasti strati sociali, non ancora conquistati alla nostra visione dello scontro sociale e politico che è in atto nel mondo di oggi, a scorgere e intendere alcuni dati fondamentali della realtà. Ciò costituisce una delle premesse indispensabili per un’ampia e vigorosa partecipazione alla lotta volta a cambiare tali dati.
Anzitutto, gli eventi cileni estendono la consapevolezza, contro ogni illusione, che i caratteri dell’imperialismo, e di quello nord-americano in particolare, restano la sopraffazione e la jugulazione economica e politica, lo spirito di aggressione e di conquista, la tendenza a opprimere i popoli e a privarli della loro indipendenza, libertà e unità ogni qualvolta le circostanze concrete e i rapporti di forza lo consentano.
In secondo luogo, gli avvenimenti in Cile mettono in piena evidenza chi sono e dove stanno nei paesi del cosiddetto «mondo libero», i nemici della democrazia. L’opinione pubblica di questi paesi, bombardata da anni e da decenni da una propaganda che addita nel movimento operaio, nei socialisti e nei comunisti i nemici della democrazia, ha oggi davanti a sé una nuova lampante prova che le classi dominanti borghesi e i partiti che le rappresentano o se ne lasciano asservire, sono pronti a distruggere ogni libertà e a calpestare ogni diritto civile e ogni principio umano quando sono colpiti o minacciati i propri privilegi e il proprio potere.
Compito dei comunisti e di tutti i combattenti per la causa del progresso democratico e della liberazione dei popoli è di far leva sulla più diffusa consapevolezza di queste verità per richiamare la vigile attenzione di tutti sui percoli che l’imperialismo e le classi dominanti borghesi fanno correre alla libertà dei popoli e all’indipendenza delle nazioni, e per sviluppare in masse sempre più estese l’impegno democratico e rivoluzionario per modificare ulteriormente, nel mondo e in ogni paese, i rapporti di forza a vantaggio delle classi lavoratrici, dei movimenti di liberazione nazionale e di tutto lo schieramento democratico e antimperialistico. Gli avvenimenti del Cile possono e devono suscitare, insieme a un possente e duraturo movimento di solidarietà con quel popolo, un più generale risveglio delle coscienze democratiche, e soprattutto un’azione per l’entrata in campo di nuove forze disposte a lottare concretamente contro l’imperialismo e contro la reazione.
A questo fine è indispensabile assolvere anche al compito di una attenta riflessione per trarre dalla tragedia politica del Cile utili insegnamenti relativi a un più ampio e approfondito giudizio sia sul quadro internazionale, sia sulla strategia e tattica del movimento operaio e democratico in vari paesi, tra i quali il nostro.

Il peso decisivo dell’intervento Usa

Nessuna persona seria può contestare che sugli avvenimenti cileni ha pesato in modo decisivo la presenza e l’intervento dell’imperialismo nord-americano. La coscienza popolare l’ha avvertito immediatamente. Al di là di pur illuminanti episodi della cronaca politica e diplomatica relativa ai giorni del golpe e a quelli immediatamente precedenti, sta il fatto che, fin dall’avvento del governo di Unità popolare i gruppi monopolistici nord-americani presenti con posizioni dominanti nell’economia cilena (rame, Itt) e i circoli dirigenti dell’amministrazione degli Usa hanno intrapreso una sistematica azione su tutti i terreni – dalla guerra economica alla sovversione – per provocare il fallimento del governo Allende e per rovesciarlo.
Del resto, questo e altri modi di intervento degli Usa ai danni dei popoli e delle nazioni che aspirano all’indipendenza non sono certo un’eccezione, ma, specialmente nell’America Latina, la regola. Chi non ha presenti i brutali interventi in Guatemala, nella Repubblica dominicana e in tanti altri Stati? E chi non sa che Cuba socialista, con la sua fermezza e con la sua unità, e grazie anche alla solidarietà e al sostegno dell’Unione Sovietica e degli altri paesi socialisti, ha dovuto respingere per anni manovre, provocazioni, boicottaggio economico, attacchi diretti al suo territorio e deve essere sempre vigilante per salvaguardare ancor oggi la propria indipendenza?
Anche in altre zone del mondo, si tratti delle aree sottosviluppate dell’Asia e dell’Africa o si tratti degli stessi paesi di capitalismo avanzato (dal Giappone all’Europa occidentale) non cessano di manifestarsi la penetrazione dell’imperialismo americano e la sua iniziativa, in tutte le forme possibili, per mantenere o estendere le sue posizioni economiche, politiche e strategiche.

Una situazione in movimento e di scontro

Che cosa può contrastare, limitare e far arretrare questa tendenza dell’imperialismo? La risposta più semplice è anche quella più vera: la modificazione progressiva dei rapporti di forza a suo svantaggio e a favore dei popoli che aspirano alla propria liberazione e di tutti i paesi che lottano per un nuovo assetto del mondo e per un nuovo sistema di rapporti tra gli Stati. È proprio in questa direzione che va il processo storico mondiale da quasi sessanta anni, da quando la rivoluzione russa del 1917 ha spezzato per la prima volta la dominazione esclusiva dell’imperialismo e del capitalismo. Da allora, e soprattutto dopo la vittoria sul nazismo, dopo la vittoria della rivoluzione cinese e con il crollo del vecchio sistema coloniale inglese e francese, l’area sottoposta al controllo dell’imperialismo si è andata restringendo. Sconfitta la politica folle e avventurosa che pretendeva doi rovesciare i regimi socialisti sorti dopo la seconda guerra mondiale in Europa e in Asia (la politica del roll-back) le potenze capitalistiche e gli stessi Usa sono ormai costretti a riconoscere che i regimi socialisti, ovunque esistenti, non possono essere toccati e che con essi bisogna fare i conti e trattare.
Altri Stati, sorti dallo sfacelo del sistema coloniale, hanno potuto costruire e difendono con sempre maggiore vigore la propria indipendenza; e alcuni di tali Stati manifestano la tendenza a orientare l’edificazione dei loro ordinamenti economici e sociali in direzione del socialismo. In questo quadro ha avuto e ha enorme portata la vittoria dell’eroico popolo del Vietnam, sostenuto dai paesi socialisti e da un possente movimento internazionale di solidarietà, contro l’aggressione americana. Tale vittoria ha inflitto un nuovo duro colpo alle pretese imperialistiche, e rappresenta un nuovo determinante contributo al mutamento dei rapporti di forza nel mondo e al progredire di una politica di distensione e di pacifici negoziati nei rapporti fra gli Stati.
Ma inoltre gli Usa sono oggi costretti a fare i conti con una crescente volontà di autonomia che si viene manifestando, soprattutto negli ultimi anni, nei paesi dell’Occidente europeo.
Infine, per grave che sia il colpo che viene dal rovesciamento del governo di Unità popolare in Cile, il moto di riscossa e di liberazione, che resta una realtà non cancellabile nei paesi dell’America latina, non cesserà certo di esprimersi nelle forme più diverse e di trovare la strada per opporsi con successi anche parziali al dominio nord-americano e alle cricche locali ad esso asservite. Non sta a dire proprio questo il fatto che il colpo di Stato militare incontra nel popolo cileno e solleva in altri paesi latino-americani e ovunque una resistenza, una condanna e una risposta quali non si erano verificate in occasione di altri colpi di Stato reazionari?
Il riconoscimento della tendenza di fondo che si va affermando nel processo storico mondiale – e che dà luogo, in ultima analisi, a una progressiva riduzione dell’area del dominio delle forze imperialistiche – non ci impedisce certo di constatare (e proprio dal Cile ci viene in questi giorni un nuovo severo monito) che l’imperialismo internazionale e le forze reazionarie in molti paesi sono in grado di contenere la lotta emancipatrice dei popoli e in certi casi di infliggere duri scacchi alle forze animatrici di tale lotta. Solo tenendo presente questo dato di fatto, e cogliendo in ogni regione del mondo, in ogni paese e in ogni momento le forme concrete in cui si esprime o si può prevedere che si esprima, è possibile evitare di essere colti di sorpresa, di cadere in errori e mettersi invece in grado di organizzare e condurre un’azione rivoluzionaria e democratica pronta e adeguata.

I due piani della lotta per la pace

Qualcuno si è domandato come sia possibile che interventi così brutali come quello effettuato in Cile dalle forze dell’imperialismo e della reazione continuino a verificarsi in una fase della vita internazionale nella quale si vanno compiendo passi sempre più spediti sulla via della distensione e della coesistenza pacifica nei rapporti tra Stati con diverso regime sociale. Ma chi ha mai sostenuto che la distensione internazionale e la coesistenza significano l’avvento di un’era doi tranquillità, la fine della lotta delle classi sul piano interno e internazionale, delle controrivoluzioni e delle rivoluzioni?
La politica della distensione, nella prospettiva della pacifica coesistenza, è prima di tutto la via obbligata per garantire un obiettivo primario, di interesse vitale per tutta l’umanità e per ciascun popolo: evitare la catastrofe della guerra atomica e termonucleare, assicurare la pace mondiale, affermare il principio del negoziato come unico mezzo per risolvere le controversie tra gli Stati. Inoltre, la distensione e la coesistenza, in quanto implicano la riduzione progressiva di tutti gli armamenti e forme molteplici e crescenti di cooperazione economica, scientifica e culturale, sia sul piano bilaterale che su quello multilaterale, sono una delle vie per affrontare con sforzi congiunti i grandi problemi del mondo contemporaneo, quali quelli del sollevamento delle aree depresse, dell’inquinamento, della lotta contro l’indigenza e le malattie sociali, ecc.
La distensione e la coesistenza non comportano di per sé, automaticamente e in un periodo breve, il superamento della divisione del mondo in blocchi e zone di influenza, e quindi non precludono agli Usa la possibilità di interferire nei più vari modi, compresi quelli più sfacciati, nelle zone e nei paesi che essi vorrebbero acquisiti per sempre dentro la sfera del loro dominio diretto o indiretto.
La divisione del mondo in blocchi ed aree diverse è un fatto che preesiste alla politica della distensione e della coesistenza in quanto è il risultato di tutto lo svolgimento del processo storico mondiale, dalla Rivoluzione d’Ottobre alla seconda guerra mondiale fino agli eventi, di diverso segno, di questi ultimi decenni che hanno determinato l’attuale dislocamento degli equilibri internazionali e interni. Né va dimenticato il peso negativo che esercitano sulla vita internazionale quelle divisioni fra i paesi socialisti che hanno il loro punto di massima serietà nei contrasti tra la Cina popolare e l’Unione Sovietica.
L’ulteriore mutamento dei presenti equilibri a favore delle forze del progresso dipende, in primo luogo, dalla capacità di lotta e di iniziativa del proletariato, dei lavoratori, delle masse popolari e delle loro organizzazioni in ogni singolo paese. Ma è anche evidente che il progredire della distensione e della coesistenza costituisce una condizione indispensabile per favorire il superamento della divisione del mondo in blocchi o zone d’influenza, per facilitare l’affermazione del diritto di ogni nazione alla propria indipendenza e quindi, in ultima analisi, per ridurre le possibilità dell’interferenza imperialistica nella vita di altri paesi. In pari tempo camminare decisamente sulla strada della distensione e della coesistenza significa sollecitare i processi di sviluppo della democrazia e della libertà in tutti i paesi del mondo, quale che sia il loro regime sociale.
Questa è la concezione che abbiamo noi della distinzione e coesistenza: una concezione dinamica e aperta, che si misura e si confronta con un’altra concezione, propria dell’imperialismo, il quale, anche quando è costretto al negoziato con i paesi socialisti, pretende di fissare il quadro mondiale allo status quo dei rapporti di forza in atto nel mondo e nei vari paesi.
Da tutto ciò si conferma la necessità di continuare a lottare tenacemente, sul piano internazionale, per far avanzare il processo della distensione e della coesistenza e per svilupparne tutte le potenzialità positive e, al tempo stesso, di proseguire in ogni paese le battaglie per l’indipendenza nazionale e per la trasformazione in senso democratico e socialista dell’assetto economico e sociale e degli ordinamenti politici e statali.
Il nostro partito ha sempre tenuto conto del rapporto imprescindibile tra questi due piani. Da una parte, come ci ha abituato a fare Togliatti, abbiamo cercato di valutare freddamente le condizioni complessive dei rapporti mondiali e il contesto internazionale in cui è collocata l’Italia. Dall’altra parte ci siamo sforzati di individuare esattamente lo stato dei rapporti di forza all’interno del nostro paese.
In particolare abbiamo sempre dato il dovuto peso in tutta la nostra condotta al dato fondamentale costituito dall’appartenenza dell’Italia al blocco politico-militare dominato dagli Usa e agli inevitabili condizionamenti che ne conseguono. Ma la consapevolezza di questo dato oggettivo non ci ha certo portato all’inerzia e alla paralisi. Abbiamo reagito e reagiamo con la nostra iniziativa e con la nostra lotta. Tutti i tentativi di schiacciarci o di isolarci li abbiamo respinti. La nostra forza e la nostra influenza fra le masse popolari e nella vita nazionale sono anzi cresciuti. Su questa strada si può e si deve andare avanti. Dunque, anzitutto, si tratta di modificare gli interni rapporti di forza in misura tale da scoraggiare e rendere vano ogni tentativo dei gruppi reazionari interni e internazionali di sovvertire il quadro democratico e costituzionale, di colpire le conquiste raggiunte dal nostro popolo, di spezzarne l’unità e di arrestare la sua avanzata verso la trasformazione della società.
In pari tempo, la nostra lotta e la nostra iniziativa vanno sviluppate anche sul terreno dei rapporti internazionali, sia dando un nostro contributo a tutte le battaglie che in Europa e in ogni parte del mondo possono condurre a indebolire le forze dell’imperialismo, della reazione e del fascismo, sia sollecitando una politica estera italiana che affermi, insieme alla volontà del nostro paese di vivere in pace e in amicizia con tutti gli altri paesi, il diritto del popolo italiano di costruirsi in piena libertà il proprio avvenire.
Decisi passi avanti possono compiersi oggi in questa direzione perché le esigenze e le proposte che noi avanziamo si collocano in un quadro europeo caratterizzato da sensibili progressi della distensione e perché esse si incontrano con analoghe aspirazioni e iniziative che si manifestano in altri paesi dell’Europa occidentale. Da ciò abbiamo ricavato una linea che s’incentra nella proposta di lavorare per un assetto di pace nel Mediterraneo e per un’Europa occidentale autonoma, pacifica, democratica. Lavorare per questo obiettivo non vuol dire porre una tale Europa, e in essa l’Italia, in una posizione di ostilità o verso l’Unione Sovietica e gli altri paesi socialisti o verso gli Stati Uniti. Chi ciò volesse si proporrebbe qualcosa di assurdo, di velleitario e, in ultima analisi, di antitetico alla logica di una politica di distensione e di sviluppo democratico per il nostro paese e per tutti gli altri paesi dell’Europa. La lotta conseguente per questa linea di politica internazionale è parte fondamentale della prospettiva che chiamiamo via italiana al socialismo.

Prime considerazioni sull’Italia

Gli avvenimenti cileni ci sollecitano a una riflessione attenta che non riguarda solo il quadro internazionale e i problemi della politica estera, ma anche quelli relativi alla lotta e alla prospettiva della trasformazione democratica e socialista del nostro paese.
Non devono sfuggire ai comunisti e ai democratici le profonde differenze tra la situazione del Cile e quella italiana. Il Cile e l’Italia sono situati in due regioni del mondo assai diverse, quali l’America latina e l’Europa occidentale. Differenti sono anche il rispettivo assetto sociale, la struttura economica e il grado di sviluppo delle forze produttive, così come sono diversi il sistema istituzionale (Repubblica presidenziale in Cile, Repubblica parlamentare in Italia) e gli ordinamenti statali. Altre differenze esistono nelle tradizioni e negli orientamenti delle forze politiche, nel loro peso rispettivo e nei loro rapporti. Ma insieme alle differenze vi sono anche delle analogie, e in particolare quella che i comunisti e i socialisti cileni si erano proposti anch’essi di perseguire una via democratica al socialismo.
Dal complesso delle differenze e delle analogie occorre dunque trarre motivo per approfondire e precisare meglio in che cosa consiste e come può avanzare la via italiana al socialismo.

2) Via democratica e violenza reazionaria

05.10.1973

È necessario ricordare sempre le ragioni di fondo che ci hanno portato a elaborare e a seguire quella strategia politica che Togliatti chiamò di «avanzata dell’Italia verso il socialismo nella democrazia e nella pace». È noto che le origini di questa elaborazione stanno nel pensiero e nell’azione di Antonio Gramsci e del gruppo dirigente che si raccolse attorno a lui e lavorò nel solco del suo insegnamento. Il Congresso di Lione del 1926 sancì la vittoria della lotta contro l’estremismo e il settarismo che avevano caratterizzato l’azione del partito nel primissimo periodo della sua esistenza e che Lenin aveva aspramente criticato e invitato energicamente a superare. Il Congresso di Lione segnò l’avvio di quella analisi comunista della storia e delle strutture della società italiana che fu poi sviluppata e approfondita da Gramsci negli scritti dal carcere e negli orientamenti e nell’attività del gruppo dirigente, guidato da Togliatti, che fu alla testa del partito durante gli anni del fascismo e che lo rese capace di svolgere azione politica.
Ma il momento decisivo, per la vita del partito e per la vita del paese, dell’affermarsi e del pieno dispiegarsi della scelta storica e politica che informa tutta la nostra azione, fu costituito dalla linea unitaria che indicammo e seguimmo nella guerra di liberazione antifascista e dalla svolta di Salerno.
Dopo la liberazione, riconquistate le libertà democratiche, l’Italia si trovò nelle condizioni di paese occupato dagli eserciti delle potenze capitalistiche (Stati Uniti, Gran Bretagna). Questo dato di fatto non poteva davvero essere sottovalutato, così come successivamente e ancor oggi non può essere sottovalutato il dato – che abbiamo già ricordato – costituito dalla collocazione dell’Italia in un determinato blocco politico-militare. Dove, come nella Grecia del 1945, questa condizione internazionale non fu considerata in tutte le sue implicazioni, il movimento operaio e comunista andò incontro alla avventura, subì una tragica sconfitta e venne ricacciato indietro, in quella situazione di clandestinità dalla quale era appena uscito.
Ma non fu questo il solo fattore che determinò le nostre scelte di strategia e di tattica. Il senso più profondo della svolta stava nella necessità e nella volontà del partito comunista di fare i conti con tutta la storia italiana, e quindi anche con tutte le forze storiche (d’ispirazione socialista, cattolica e di altre ispirazioni democratiche) che erano presenti sulla scena del paese e che si battevano insieme a noi per la democrazia, per l’indipendenza del paese e per la sua unità. La novità stava nel fatto che nel corso della guerra di liberazione si era creata una unità che comprendeva tutte queste forze. Si trattava di una unità che si estendeva dal proletario, dai contadini, da vasti strati della piccola borghesia fino a gruppi della media borghesia progressiva, a gran parte del movimento cattolico di massa e anche a formazioni e quadri delle forze armate.

«Noi eravamo stati in prima fila tra i promotori, organizzatori e dirigenti di questa unità, che possedeva un suo programma di rinnovamento di tutta la vita del paese, un programma che non venne formulato in tavole scritte se non parzialmente, ma era orientato verso la instaurazione di un regime di democrazia politica avanzata, riforme profonde di tutto l’ordinamento economico e sociale e l’avvento alla direzione della società di un nuovo blocco di forze progressive. La nostra politica consistette nel lottare in modo aperto e coerente per questa soluzione, la quale comportava uno sviluppo democratico e un rinnovamento sociale orientati nella direzione del socialismo. Non è, dunque, che noi dovessimo fare una scelta tra la via di una insurrezione legata alla prospettiva di una sconfitta, e una via di evoluzione tranquilla, priva di asprezze e di rischi. La via aperta davanti a noi era una sola, dettata dalle circostanze oggettive, dalle vittorie riportate combattendo e dalla unità e dai programmi sorti nella lotta. Si trattava di guidare e spingere avanti, sforzandosi di superare e spezzare tutti gli ostacoli e le resistenze, un movimento reale di massa, che usciva vittorioso dalle prove di una guerra civile. Questo era il compito più rivoluzionario che allora si ponesse, e per adempierlo, concentrammo le forze».
Così Togliatti si esprimeva in quella magistrale sintesi della nostra politica con la quale aprì il rapporto presentato al X Congresso del partito.
Sappiamo bene che la politica di rottura dell’unità delle forze popolari e antifasciste perseguìta dai gruppi conservatori e reazionari interni e internazionali e dalla Democrazia cristiana – una politica che il paese ha pagato duramente – ha interrotto il processo di rinnovamento avviato dalla Resistenza. Essa non è però riuscita a chiuderlo. Un esteso e robusto tessuto unitario ha resistito nel paese e nelle coscienze a tutti i tentativi di lacerazione; e questo tessuto, negli ultimi anni, ha ripreso a svilupparsi, sul piano sociale e su quello politico, in forme nuove, certo, ma che hanno per protagoniste le stesse forze storiche che si erano unite nella Resistenza.
Il compito nostro essenziale – ed è un compito che può essere assolto – è dunque quello di estendere il tessuto unitario, di raccogliere attorno a un programma di lotta per il risanamento e rinnovamento democratico dell’intera società e dello Stato la grande maggioranza del popolo, e di far corrispondere a questo programma e a questa maggioranza uno schieramento di forze politiche capace di realizzarlo. Solo questa linea e nessun’altra può isolare e sconfiggere i gruppi conservatori e reazionari, può dare alla democrazia solidità e forza invincibile, può far avanzare la trasformazione della società. In pari tempo, solo percorrendo questa strada si possono creare fin d’ora le condizioni per costruire una società e uno Stato socialista che garantiscano il pieno esercizio e lo sviluppo di tutte le libertà.
Abbiamo sempre saputo e sappiamo che l’avanzata delle classi lavoratrici e della democrazia sarà contrastata con tutti i mezzi possibili dai gruppi sociali dominanti e dai loro apparati di potere. E sappiamo, come mostra ancora una volta la tragica esperienza cilena, che questa reazione antidemocratica tende a farsi più violenta e feroce quando le forze popolari cominciano a conquistare le leve fondamentali del potere nello Stato e nella società. Ma quale conclusione dobbiamo trarre da questa consapevolezza? Forse quella, proposta da certi sciagurati, di abbandonare il terreno democratico e unitario per scegliere un’altra strategia fatta di fumisteria, ma della quale è comunque chiarissimo l’esito rapido e inevitabile di un isolamento dell’avanguardia e della sua sconfitta? Noi pensiamo, al contrario, che, se i gruppi sociali dominanti puntano a rompere il quadro democratico, a spaccare in due il paese e a scatenare la violenza reazionaria, questo deve spingerci ancora più a tenere saldamente nelle nostre mani la causa della difesa delle libertà e del progresso democratico, a evitare la divisione verticale del paese e a impegnarci con ancora maggiore decisione, intelligenza e pazienza a isolare i gruppi reazionari e a ricercare ogni possibile intesa e convergenza fra tutte le forze popolari.
È vero che neppure l’attuazione coerente di questa linea da parte dell’avanguardia rivoluzionaria esclude l’attacco reazionario aperto. Ma chi può contestare che essa lo rende più difficile e crea comunque le condizioni più favorevoli per respingerlo e stroncarlo sul nascere?
L’eventualità del ricorso alla violenza reazionaria «non deve dunque portare – come ha affermato il compagno Longo – ad avere una dualità di prospettive e di preparazione pratica». A chi si chiede, anche alla luce dell’esperienza cilena, come si raccolgono e si accumulano le forze in grado di sconfiggere gli attacchi reazionari, noi continuiamo a rispondere con le parole del compagno Longo: «Spingendo a fondo l’organizzazione, la mobilitazione e la combattività del popolo, consolidando ed estendendo ogni giorno le alleanze di combattimento della classe operaia con le masse popolari, realizzando in questo modo, nella lotta, la sua funzione di classe dirigente». L’essenziale è dunque «il grado raggiunto da questa mobilitazione e da questa combattività» nella classe operaia e nella maggioranza del popolo.
Proprio la fermezza e la coerenza nell’attuazione di questi princìpi e di questi metodi di lotta politica hanno consentito di abbattere la tirannide fascista, di ristabilire un regime democratico e di far fallire i tentativi compiuti dalle forze conservatrici e reazionarie – da Scelba fino ad Andreotti – di colpire le libere istituzioni o comunque di ricacciare indietro il movimento operaio e popolare. Così è avvenuto, a partire dal 1947-’48, nella lotta contro la politica di discriminazione, le persecuzioni e gli attentati liberticidi dei governi centristi. Così è avvenuto nel 1953 quando fu battuto il tentativo di distorcere in senso antidemocratico, con la legge-truffa, il meccanismo elettorale e la rappresentatività del Parlamento. Così è avvenuto nel 1960, quando fu stroncata sul nascere l’avventura autoritaria iniziata dal governo Tambroni. Così è avvenuto nel 1964, quando furono sventate le manovre antidemocratiche e i propositi di colpi reazionari che videro anche il tentativo di coinvolgere e di utilizzare contro la Repubblica una parte delle forze armate e dei corpi di pubblica sicurezza. Così è avvenuto dal 1969, nella lotta contro la catena di atti di provocazione e di sedizione reazionaria e fascista, ispirati e sostenuti anche da circoli imperialistici e fascisti di altri paesi, con i quali si cercò di alimentare un clima di esasperata tensione e di determinare una situazione di marasma politico ed economico per aprire la via a soluzioni autoritarie, anticostituzionali o comunque a una duratura svolta verso destra.
In tutti questi casi noi abbiamo sempre risposto facendo nostra la bandiera della difesa della libertà e del metodo della democrazia, chiamando a lotte che sono state anche assai aspre, le grandi masse lavoratrici e popolari, e promuovendo la più ampia intesa e convergenza tra tutte le forze interessate alla salvaguardia dei princìpi della Costituzione antifascista.
Queste esperienze vissute dalla classe operaia, dal popolo italiano e dal nostro partito, confermano il carattere un po’ astratto di quelle tesi che tendono a ridurre schematicamente al dilemma tra via pacifica e via non pacifica la scelta della strategia di lotta per l’avanzata verso il socialismo. Le vicende sociali e politiche che si svolgono da tanti anni in Italia sono state pacifiche nel senso che non hanno portato alla guerra civile. Ma tali vicende non sono state certo tranquille e incruente: esse sono state segnate da lotte durissime, da crisi e scontri acuti, da rotture o rischi di rotture più o meno profonde. Scegliere una via democratica non vuol dire, dunque, cullarsi nell’illusione di un’evoluzione piana e senza scosse della società dal capitalismo al socialismo.
Sbagliato ci è sembrato sempre anche definire la via democratica semplicemente come una via parlamentare. Noi non siamo affetti da cretinismo parlamentare, mentre qualcuno è affetto da cretinismo antiparlamentare. Noi consideriamo il Parlamento un istituto essenziale della vita politica e non soltanto oggi ma anche nella fase del passaggio al socialismo e nel corso della sua costruzione. Ciò tanto più è vero in quanto la rinascita e il rinnovamento dell’istituto parlamentare è, in Italia, una conquista dovuta in primo luogo alla lotta della classe operaia e delle masse lavoratrici. Il Parlamento non può dunque essere concepito e adoperato come avveniva all’epoca di Lenin e come può accadere in altri paesi solo come tribuna per la denuncia dei mali del capitalismo e dei governi borghesi e per la propaganda del socialismo. Esso, in Italia, è anche e soprattutto una sede nella quale i rappresentanti del movimento operaio sviluppano e concretano una loro iniziativa, sul terreno politico e legislativo, cercando di influire sugli indirizzi della politica nazionale e di affermare la loro funzione dirigente. Ma il Parlamento può adempiere il suo compito se, come disse Togliatti, esso diviene sempre più «specchio del paese» e se l’iniziativa parlamentare dei partiti del movimento operaio è collegata alle lotte delle masse, alla crescita di un potere democratico nella società e all’affermarsi dei princìpi democratici e costituzionali in tutti i settori e gli organi della vita dello Stato.
A questo preciso orientamento si sono ispirate le molteplici battaglie che abbiamo condotto per la Repubblica e per la Costituzione; per realizzare con il voto alle donne la pienezza del suffragio universale; per difendere il principio della rappresentanza proporzionale contro il tentativo di liquidarlo; per assicurare giorno per giorno alle Camere le loro prerogative contro ogni tendenza dell’esecutivo e di altri centri del potere economico, politico e amministrativo di limitarle e svuotarle; e per affermare il principio e la prassi di una libera dialettica, senza preclusioni e discriminazioni, fra tutte le forze democratiche rappresentate nel Parlamento. A questo stesso orientamento hanno obbedito e obbediscono le nostre battaglie per l’istituzione delle Regioni e per il rispetto dell’autonomia e dei poteri degli enti locali.
Ma vi è anche un altro aspetto assai importante della nostra strategia democratica. La decisione del movimento operaio di mantenere la propria lotta sul terreno della legalità democratica non significa cadere in una sorta di illusione legalitaristica rinunciando all’impegno essenziale di promuovere, sia da posizioni di governo che stando all’opposizione, una costante iniziativa per rinnovare profondamente in senso democratico le leggi, gli ordinamenti, le strutture e gli apparati dello Stato. La stessa nostra esperienza, prima ancora di quella di altri paesi, ci richiama a tenere sempre presente la necessità di unire alla battaglia per le trasformazioni economiche e sociali quella per il rinnovamento di tutti gli organi e i poteri dello Stato. L’impegno in questa direzione deve tradursi in una duplice attività: quella diretta a far sì che in tutti i corpi dello Stato e in coloro che vi lavorano penetrino e si affermino sempre più estesamente orientamenti ispirati a una cosciente fedeltà e lealtà alla Costituzione e sentimenti di intimo legame con il popolo lavoratore; e quella diretta a promuovere misure e provvedimenti concreti di democratizzazione nell’organizzazione e nella vita della magistratura, dei corpi armati e di tutti gli apparati dello Stato. Quest’azione può contribuire in misura assai rilevante a far sì che il processo di trasformazione democratica della società non prenda indirizzi unilaterali e non determini uno squilibrio tra settori che vengono investiti da questi processi e altri che ne vengono lasciati fuori o che vengono respinti in posizioni di ostilità: rischio, questo, gravissimo e che può divenire fatale.
In definitiva, le prospettive di successo di una via democratica al socialismo sono affidate alla capacità del movimento operaio di compiere le proprie scelte e di misurare le proprie iniziative in relazione, oltre che al quadro internazionale, ai concreti rapporti di forza esistenti in ogni situazione e in ogni momento, e alla sua capacità di badare, costantemente, alle reazioni e contro-reazioni che l’iniziativa trasformatrice determina in tutta la società: nell’economia, nelle strutture e negli apparati dello Stato, nella dislocazione e negli orientamenti delle varie forze sociali e politiche e nei loro reciproci rapporti.
Si ripropongono così i problemi dei criteri di valutazione dei rapporti di forza, della politica delle alleanze, del rapporto tra trasformazioni sociali e sviluppo economico e i problemi degli schieramenti politici.

3) Alleanze sociali e schieramenti politici

12.10.1973

Abbiamo constatato che la via democratica non è né rettilinea né indolore. Più in generale il cammino del movimento operaio quali che siano le forme di lotta, non è stato mai né può essere una ascesa ininterrotta. Ci sono sempre alti e bassi, fasi di avanzata cui seguono fasi in cui il compito è di consolidare le conquiste raggiunte, e anche fasi in cui bisogna saper compiere una ritirata per evitare la disfatta, per raccogliere le forze e per preparare le condizioni di una ripresa del cammino in avanti. Questo vale sia quando il movimento operaio combatte stando all’opposizione sia quando esso conquista il potere o va al governo.
Ha scritto Lenin: «Bisogna comprendere – e la classe rivoluzionaria impara a comprendere dalla propria amara esperienza – che non si può vincere senza aver appreso la scienza dell’offensiva e la scienza della ritirata». Lenin stesso, che è stato certamente il capo rivoluzionario più audace nella scienza dell’offensiva, è stato anche il più audace nel saper cogliere tempestivamente i momenti del consolidamento e della ritirata, e nell’utilizzare questi momenti per prendere tempo, per riorganizzare le forze e per riprendere l’avanzata. Due esempi rivelatori di queste geniali capacità di lenin furono il compromesso con l’imperialismo tedesco sancito con la pace di Brest Litovsk, e il compromesso con forze capitalistiche interne che caratterizzò quell’indirizzo che va sotto il nome di Nep (Nuova Politica Economica). Né va dimenticato che Lenin non esitò a compiere tali scelte andando contro corrente. Queste due grandi operazioni rivoluzionarie, che contribuirono in modo decisivo a salvare il potere sovietico e a garantirgli l’avvenire, vennero attuate in condizioni storiche irripetibili, ma il loro insegnamento di lungimiranza e sapienza tattica rimane integro.
L’obiettivo di una forza rivoluzionaria, che è quello di trasformare concretamente i dati di una determinata realtà storica e sociale, non è raggiungibile fondandosi sul puro volontarismo e sulle spinte spontanee di classe dei settori più combattivi delle masse lavoratrici, ma muovendo sempre dalla visione del possibile, unendo la combattività e la risolutezza alla prudenza e alla capacità di manovra. Il punto di partenza della strategia e della tattica del movimento rivoluzionario è la esatta individuazione dello stato dei rapporti di forza esistenti in ogni momento e, più in generale, la comprensione del quadro complessivo della situazione internazionale e interna in tutti i suoi aspetti, non isolando mai unilateralmente questo o quello elemento.
La via democratica al socialismo è una trasformazione progressiva – che in Italia si può realizzare nell’ambito della Costituzione antifascista – dell’intera struttura economica e sociale, dei valori e delle idee guida della nazione, del sistema di potere e del blocco di forze sociali in cui esso si esprime. Quello che è certo è che la generale trasformazione per via democratica che noi vogliamo compiere in Italia, ha bisogno, in tutte le sue fasi, e della forza e del consenso.
La forza si deve esprimere nella incessante vigilanza, nella combattività delle masse lavoratrici, nella determinazione a rintuzzare tempestivamente – ci si trovi al governo o all’opposizione – le manovre, i tentativi e gli attacchi alle libertà, ai diritti democratici e alla legalità costituzionale. Consapevoli di questa necessità imprescindibile, noi abbiamo messo sempre in guardia le masse lavoratrici e popolari, e continueremo a farlo, contro ogni forma di illusione o di ingenuità, contro ogni sottovalutazione di propositi aggressivi delle forze di destra. In pari tempo, noi mettiamo in guardia da ogni illusione gli avversari della democrazia. Come ha ribadito il compagno Longo al XIII Congresso, chiunque coltivasse propositi di avventura sappia che il nostro partito saprebbe combattere e vincere su qualunque terreno, chiamando all’unità e alla lotta tutte le forze popolari e democratiche, come abbiamo saputo fare nei momenti più ardui e difficili.
Del “consenso” la profonda trasformazione della società per via democratica ha bisogno in un significato assai preciso: in Italia essa può realizzarsi solo come rivoluzione della grande maggioranza della popolazione; e solo a questa condizione, “consenso e forza” si integrano e possono divenire una realtà invincibile.
Tale rapporto tra forza e consenso è del resto necessario quali che siano le forme di lotta adottate, anche se si tratta di quelle più avanzate fino a quelle cruente. Il nostro movimento di liberazione nazionale, che fu un movimento armato, ha potuto resistere e vincere perché era fondato sull’unità di tutte le forze popolari e democratiche e perché ha saputo conquistarsi il sostegno e il consenso della grande maggioranza della popolazione. Del resto, anche sulla sponda opposta, si è visto che i movimenti antidemocratici e lo stesso fascismo non possono affermarsi e vincere unicamente con il ricorso alla violenza reazionaria, ma hanno bisogno di una base di massa più o meno estesa, soprattutto in paesi con una struttura economica e sociale complessa ed articolata. Ed è perfino ovvio ricordare che, più in generale, il dominio della borghesia non si regge solo sugli strumenti (da quelli più brutali a quelli più raffinati) della coercizione e della repressione, ma si regge anche su una base di consenso più o meno manipolato, su un certo sistema di alleanze sociali e politiche.
È il problema delle alleanze, dunque, il problema decisivo di ogni rivoluzione e di ogni politica rivoluzionaria, ed esso è quindi quello decisivo anche per l’affermazione della via democratica.
In paesi come l’Italia si deve muovere dalla constatazione che si sono create ed esistono una stratificazione sociale e una articolazione politica assai complesse.
Lo sviluppo capitalistico italiano ha dato luogo alla formazione di un proletariato consistente. Questa classe che una lunga esperienza di lotte – siamo quasi a un secolo di battaglie proletarie – che l’opera educatrice del movimento socialista che l’influenza decisiva che su di essa esercita da cinquant’anni il partito comunista, hanno reso particolarmente combattiva e matura; questa classe, che è la forza motrice di ogni processo di trasformazione della società, tuttavia rimane pur sempre una minoranza della popolazione del nostro paese e della stessa popolazione lavoratrice. Così è anche, in misura maggiore o minore, in quasi tutti gli altri paesi capitalistici. Tra il proletariato e la grande borghesia – le due classi antagoniste fondamentali nel regime capitalistico – si è infatti creata, nelle città e nelle campagne, una rete di categorie e di strati intermedi, che spesso si sogliono considerare nel loro complesso e chiamare genericamente «ceto medio», ma di ognuno dei quali in realtà occorre individuare e definire concretamente la precisa collocazione e funzione nella vita sociale, economica e politica e gli orientamenti ideali.
Accanto e spesso intrecciati a questi ceti e categorie intermedie e al proletariato esistono poi nella nostra società strati di popolazione e forze sociali (si tratta, per esempio, di larga parte delle popolazioni del Mezzogiorno e delle isole, delle masse femminili e giovanili, delle forze della scienza, della tecnica, della cultura e dell’arte) che non sono assimilabili, come tali, nella dimensione di «categorie», e che tuttavia hanno una condizione nella società che le accomuna e in una certa misura le unisce, al di là della propria posizione professionale e persino della propria appartenenza a un determinato ceto sociale.
Appare chiarissimo che per l’esito della battaglia democratica che conduciamo per la trasformazione e il rinnovamento della nostra società è determinante dove si situano, in che senso sono orientate e come si muovono queste masse, questi ceti intermedi, questi strati di popolazione. È del tutto evidente, cioè, come sia decisivo per le sorti dello sviluppo democratico e dell’avanzata al socialismo che il peso di tali forze sociali venga a spostarsi o a fianco della classe operaia oppure contro di essa.
Da questa struttura economica e stratificazione sociale dell’Italia noi non abbiamo ricavato soltanto conseguenze che riguardano la nostra politica nella fase attuale, ma abbiamo fissato dei punti fermi che riguardano il posto che hanno nella rivoluzione italiana questioni come quella meridionale, femminile, giovanile, della scuola e della cultura, e la funzione dei ceti intermedi.
A proposito di questi ultimi, nel documento più impegnativo del nostro partito, che è la Dichiarazione programmatica approvata dall’VIII Congresso (1956) si afferma:
«Si stabilisce, oggettivamente, una concordanza di fini fra la classe operaia, che lotta contro i monopoli e per abbattere il capitalismo, non più solo con le masse proletarie e semiproletarie, ma con la massa dei coltivatori diretti nelle campagne e con una parte importante dei ceti medi produttivi nelle città, ciò che consente nuove possibilità per l’allargamento del sistema di alleanze della classe operaia e delle basi di massa per un rinnovamento democratico e socialista.
«La massa del ceto medio è costituita da stratificazioni e gruppi sociali diversi, in relazione alle diverse caratteristiche economiche e sociali e al diverso grado di sviluppo delle diverse zone. Pur essendo quindi necessario un approfondimento differenziato da zona a zona, la possibilità di una alleanza permanente della classe operaia con strati del ceto medio della città e della campagna è determinata da una convergenza di interessi economici e sociali che trae origine dallo sviluppo storico e dalla attuale struttura del capitalismo…
«D’altra parte deve essere chiaro che per gruppi decisivi di ceto medio il passaggio a nuovi rapporti di tipo socialista o socialisti non avverrà che sulla base del loro vantaggio economico e del libero consenso, e che in una società democratica che si sviluppi verso il socialismo sarà garantita la loro attività economica.»
La strategia delle riforme può dunque affermarsi e avanzare solo se essa è sorretta da una strategia delle alleanze. Anzi, noi abbiamo sottolineato che, nel rapporto tra riforme e alleanze, queste sono la condizione decisiva perché, se si restringono le alleanze della classe operaia e si estende la base sociale dei gruppi dominanti, prima o poi la realizzazione stessa delle riforme viene meno e tutta la situazione politica va indietro, fino anche a rovesciarsi.
Naturalmente, la politica delle alleanze ha il suo punto di partenza nella ricerca di una convergenza tra gli interessi economici immediati e di prospettiva della classe operaia e quelli di altri gruppi e forze sociali. Ma tale ricerca non va concepita e attuata in modo schematico o statico. Occorre, cioè, indicare rivendicazioni e perseguire obiettivi che offrano concretamente a questi strati di popolazione e a queste forze e gruppi sociali una certezza di prospettive che garantiscano in forme nuove e possibilmente migliorino il loro livello di esistenza e il loro ruolo nella società, ma in un diverso sviluppo economico e in un più giusto e più moderno assetto sociale.
A questo scopo diviene necessario lavorare anche per determinare una evoluzione nella stessa mentalità di questi ceti e forze sociali, nel senso di allargare in tutta la popolazione una visione sempre meno individualistica o corporativa e sempre più sociale della difesa degli interessi dei singoli e di quelli della collettività.
Noi non ci limitiamo, dunque, a ricercare e a stabilire convergenze con figure sociali e categorie economiche già definite, ma tendiamo a conquistare e a comprendere in un articolato schieramento di alleanze interi gruppi di popolazione, forze sociali non classificabili come ceti, quali sono, appunto, le donne, i giovani e le ragazze, le masse popolari del Mezzogiorno, le forze della cultura, movimenti di opinione, e proponiamo obiettivi non soltanto economici e sociali, ma di sviluppo civile, di progresso democratico, di affermazione della dignità della persona, d’espansione delle molteplici libertà dell’uomo. Ecco il modo con cui noi intendiamo e compiamo il lavoro concreto per costruire e preparare le basi, le condizioni e le garanzie di quello che si vuole chiamare un «modello» nuovo di socialismo.

Un grosso problema che ci impegna in sede politica e che deve impegnare di più, in sede teorica, i marxisti e gli studiosi avanzati dell’Italia e dei paesi dell’Occidente, è come far sì che un programma di profonde trasformazioni sociali – che determina necessariamente reazioni di ogni tipo da parte dei gruppi retrivi – non venga effettuato in modo da sospingere in posizione di ostilità vasti strati dei ceti intermedi, ma riceva invece, in tutte le sue fasi, il consenso della grande maggioranza della popolazione. Ciò, evidentemente, comporta una attenta scelta delle priorità e dei tempi delle trasformazioni sociali e comporta, di conseguenza, l’adoperarsi non solo per evitare un collasso dell’economia ma per garantire anzi, anche nelle fasi critiche di passaggio a nuovi assetti sociali sociali, l’efficienza del processo economico.
Questo è certamente uno dei problemi vitali che ha dinnanzi a sé un governo di forze lavoratrici e popolari; ma è un problema altrettanto fondamentale in un paese come l’Italia, ove una forza grande come la nostra uscita da tempo dal terreno della pura propaganda, cerca, fin da ora, dall’opposizione, con l’arma della pressione di massa e dell’iniziativa politica unitaria, di imporre l’avvio di un programma di trasformazioni sociali.
Se è vero che una politica di rinnovamento democratico può realizzarsi solo se è sostenuta dalla grande maggioranza della popolazione, ne consegue la necessità non soltanto di una politica di larghe alleanze sociali ma anche di un determinato sistema di rapporti politici, tale che favorisca una convergenza e una collaborazione tra tutte le forze democratiche e popolari, fino alla realizzazione fra di esse di una alleanza politica.
D’altronde, la contrapposizione e l’urto frontale tra i partiti che hanno una base nel popolo e dai quali masse importanti della popolazione si sentono rappresentate, conducono a una spaccatura a una vera e propria scissione in due del paese, che sarebbe esiziale per la democrazia e travolgerebbe le basi stesse della sopravvivenza dello Stato democratico.
Di ciò consapevoli noi abbiamo sempre pensato – e oggi l’esperienza cilena ci rafforza in questa persuasione – che l’unità dei partiti di lavoratori e delle forze di sinistra non è condizione sufficiente per garantire la difesa e il progresso della democrazia ove a questa unità si contrapponga un blocco di partiti che si situano dal centro fino alla estrema destra. Il problema politico centrale in Italia è stato, e rimane più che mai, proprio quello di evitare che si giunga a una saldatura stabile e organica tra il centro e la destra, a un largo fronte di tipo clerico-fascista e di riuscire invece a spostare le forze sociali e politiche che si situano al centro su posizioni coerentemente democratiche.
Ovviamente, l’unità, la forza politica ed elettorale delle sinistre e la sempre più solida intesa tra le loro diverse e autonome espressioni, sono la condizione indispensabile per mantenere nel paese una crescente pressione per il cambiamento e per determinarlo. Ma sarebbe del tutto illusorio pensare che, anche se i partiti e le forze di sinistra riuscissero a raggiungere il 51 per cento dei voti e della rappresentanza parlamentare (cosa che segnerebbe, di per sé, un grande passo avanti nei rapporti di forza tra i partiti in Italia) questo fatto garantirebbe la sopravvivenza e l’opera di un governo che fosse l’espressione di tale 51 per cento.
Ecco perché noi parliamo non di una «alternativa di sinistra» ma di una «alternativa democratica» e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico.
La nostra ostinazione nel proporre questa prospettiva è oggetto di polemiche e di critiche di varia provenienza. Ma la verità è che nessuno dei nostri critici e obiettori ha saputo e sa indicare un’altra prospettiva valida, capace di far uscire l’Italia dalla crisi in cui è stata gettata dalla politica di divisione delle forze democratiche e popolari, di avviare a soluzione gli immani e laceranti problemi economici, sociali e civili che sono aperti e di garantire l’avvenire democratico della nostra Repubblica.
E del resto, a veder bene, le polemiche e i tentativi di rendere impossibile la prospettiva che noi proponiamo non hanno impedito che essa, invece, si sia affermata e si affermi nella coscienza di sempre più larghe masse popolari e nei loro movimenti reali, come anche, in una certa misura e in vari modi, nella stessa vita politica e nei partiti. Sta qui la comprova che il problema da noi posto diventa ogni giorno più maturo e urgente. E se nessuno è in grado di prospettare una diversa alternativa democratica altrettanto valida e credibile rispetto a quella da noi proposta, ciò è perché tale diversa alternativa, in Italia, non c’è.
La nostra politica di dialogo e di confronto con il mondo cattolico si sviluppa necessariamente su diversi piani e con diversi interlocutori.
Vi è innanzitutto il problema, sul quale la nostra posizione di principio e la nostra linea politica sono note, posto dalla presenza in Italia della Chiesa cattolica, e dai suoi rapporti con lo Stato e con la società civile. Vi è poi il problema della ricerca di una più ampia comprensione reciproca e di una intesa operante con quei movimenti e tendenze di cattolici che, in numero crescente, si collocano nell’ambito del movimento dei lavoratori e si orientano in senso nettamente anticapitalistico e antiimperialistico.
Ma non si può certo pensare di sfuggire all’altro grande problema costituito dalla esistenza e dalla forza di un partito politico come la Democrazia cristiana, che a parte la qualificazione di «cristiana» che esso dà di se stesso, raccoglie nelle sue file o sotto la sua influenza una larga parte delle masse lavoratrici e popolari di orientamento cattolico.
“Rinascita” ha pubblicato alcuni mesi or sono una serie di articoli e di saggi nei quali sono stati esaminati e vagliati i vari aspetti della questione della DC. Rimandiamo a essi il lettore, limitandoci noi, in questa sede, a riproporre il tema nei suoi termini di fondo.
L’errore principale da cui bisogna guardarsi è quello di giudicare la Democrazia cristiana italiana, e anzi tutti i partiti che portano questo nome, quasi come una categoria astorica, quasi metafisica, per sua natura destinata, in definitiva, a essere o a divenire sempre o ovunque un partito schierato con la reazione. Ed è davvero risibile che a ciò si riduca, nella sostanza, tutta l’analisi sulla DC che ci viene data da gente che, con tanta spocchia, cerca di salire in cattedra per impartire a tutti lezione di marxismo.
Naturalmente il nostro giudizio sulla DC è ugualmente lontano da quello che di essa danno quei suoi dirigenti i quali, rovesciando il contenuto ma mantenendo il medesimo metodo astorico che ora abbiamo criticato, presentano la DC come un partito che, «per sua natura», sarebbe il garante delle libertà e l’alfiere del progresso democratico. In realtà, entrambi i giudizi che abbiamo ricordato sono privi di effettiva serietà e hanno entrambi un carattere puramente strumentale. Il solo criterio marxista, o che voglia essere anche solo fondato sulla serietà politica, consiste nel considerare la DC sia nel contesto storico politico in cui è collocata e opera che nella composita realtà sociale e politica che in essa si esprime. Solo in questo modo è possibile mettersi in grado di intervenire e di influire realmente sugli orientamenti e sulla condotta pratica di tale partito.
Noi abbiamo sempre avuto ben presente il legame tra la Democrazia cristiana e i gruppi dominanti della borghesia e il loro peso rilevante, e in certi momenti determinante, sulla politica della DC. Ma nella DC e attorno ad essa si raccolgono anche altre forze e interessi economici e sociali, da quelli di varie categorie del ceto medio sino a quelli, assai consistenti soprattutto in alcune regioni e zone del paese, di strati popolari, di contadini, di giovani, di donne ed anche di operai. Anche il peso e le sollecitazioni provenienti dagli interessi e dalle aspirazioni di queste forze sociali si sono fatti sentire in misura più o meno avvertibile nel corso della vita e della politica della DC e possono essere portati a contare sempre di più.
Oltre a questa varia e contraddittoria composizione sociale della DC vanno prese in considerazione le sue origini, la sua storia, le sue tradizioni e le differenti tendenze politiche e ideali che si sono agitate e si agitano nel suo interno, da quelle reazionarie a quelle conservatrici e moderate fino a quelle democratiche e anche progressiste. Tutto ciò contribuisce a spiegare come le vicende storiche di questo partito siano state assai tortuose e spesso contrassegnate da atteggiamenti tra loro antitetici. Nato come partito popolare, democratico e laico esso si oppose all’inizio al movimento fascista, passando poi all’appoggio e alla partecipazione al primo governo Mussolini, staccandosene successivamente per giungere, attraverso un faticoso travaglio, alla partecipazione alla lotta clandestina e all’impegno pieno e diretto nella Resistenza, al fianco e in unità con le forze proletarie e popolari. Dopo la liberazione, dopo l’avvento della Repubblica e dopo l’elaborazione della Costituzione, frutto di un accordo tra i tre grandi partiti di massa (comunista, socialista e democristiano) fu proprio il partito democristiano – nel clima di divisione in Europa e nel mondo creato dall’incipiente guerra fredda – il principale artefice della rottura dell’alleanza di governo con i comunisti e con i socialisti, dell’unità sindacale e più in generale dell’intesa fra le forze antifasciste. E fu proprio la DC a condurre da quel momento una politica di contrapposizione e di scontro frontale con il movimento operaio e popolare di ispirazione comunista e socialista. La sconfitta di questa politica, dovuta alle capacità di combattimento della classe operaia, dei braccianti, dei contadini, dei lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali e politiche, e dovuta anche alla tenacia con cui il nostro partito non ha mai deflettuto dalla sua linea unitaria, ha riaperto una prospettiva di avanzata al movimento democratico e al paese e ha creato una situazione nuova anche nella DC. Essa, infatti, pur mantenendo l’ispirazione conservatrice e moderata della sua linea, è stata messa nella impossibilità di riportare il paese alla condizione della spaccatura verticale e della contrapposizione frontale. Quando un suo uomo, Tambroni, si avventurò nel tentativo estremo di ripristinare tale condizione, fu travolto rapidamente da un grande moto popolare e unitario e liquidato dal suo stesso partito. Ma c’è di più: quando la DC, sconfitta in questa sua linea, dette inizio a una manovra di nuovo tipo, con l’esperimento di centro-sinistra per giungere all’isolamento del PCI, essa fallì anche su questo terreno.
Dalla crisi di prospettive determinata dal fallimento di questi diversi tentativi per affermare una linea di divisione nel popolo e nel paese la DC non è ancora uscita. Essa avverte che è assai difficile e che può essere gravido di avventure fatali per tutti e per se stessa giocare la carta della contrapposizione e dello scontro, ma non è giunta ancora a intraprendere con coerenza una strada opposta. E sta proprio in ciò una delle cause determinanti della crisi che attanaglia il paese.
Che fare? In quale direzione dobbiamo cercare noi di spingere le cose? Dalla sommaria ricapitolazione che abbiamo fatto della composizione sociale e della condotta politica della DC risulta che questo partito è una realtà non solo varia, ma assai mutevole; e risulta che i mutamenti sono determinati sia dalla sua dialettica interna sia, e ancor più, dal modo in cui si sviluppano gli avvenimenti internazionali e interni, dalle lotte e dai rapporti di forza tra le classi e fra i partiti, dal peso che esercitano sulla situazione il movimento operaio e il PCI, dalla loro forza, dalla loro linea politica e dalla loro iniziativa. Si pensi alla vicenda più recente, quella del governo Andreotti: l’ostilità attiva delle masse popolari, la combattività e l’iniziativa unitaria dell’opposizione comunista, la battaglia del partito socialista e quella di gruppi, correnti e personalità della stessa DC hanno portato allo sfaldarsi della coalizione di centro-destra e hanno creato una situazione in cui la stessa maggioranza di forze interna alla DC che aveva portato Andreotti al governo, o che comunque lo sosteneva, è venuta meno. La DC ha dovuto abbandonare la linea e la prospettiva del centro-destra.
Tali essendo la realtà della DC e il punto in cui essa si trova oggi, è chiaro che il compito di un partito come il nostro non può essere che quello di isolare e sconfiggere drasticamente le tendenze che puntano o che possono essere tentate di puntare sulla contrapposizione e sulla spaccatura verticale del paese, o che comunque si ostinano in una posizione di pregiudiziale preclusione ideologica anti-comunista, la quale rappresenta di per sé, in Italia, un incombente pericolo di scissione della nazione. Si tratta, al contrario, di agire perché persino sempre di più, fino a prevalere, le tendenze che, con realismo storico e politico, riconoscono la necessità e la maturità di un dialogo costruttivo e di un’intesa tra tutte le forze popolari senza che ciò significhi confusioni o rinuncia alle distinzioni e alle diversità ideali e politiche che contraddistinguono ciascuna di tali forze.
Certo, noi per primi comprendiamo che il cammino verso questa prospettiva non è facile né può essere frettoloso. Sappiamo anche bene quali e quante battaglie serrate e incalzanti sarà necessario condurre sui più vari piani, e non solo da parte del nostro partito, con determinazione e con pazienza, per affermare questa prospettiva. Ma non bisogna neppure credere che il tempo a disposizione sia indefinito. La gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande «compromesso storico» tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano.

Enrico Berlinguer. Un’altra idea del mondo. Antologia 1969 -1984. Paolo Ciofi, Guido Liguori. Editori Riuniti 2014

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 Enrico Berlinguer torna d’attualità, oggi, perchè voleva cambiare il mondo. E il valore della sua ricerca e della sua azione è tanto più rilevante perché nel cuore dell’Occidente capitalistico ha posto la questione della costruzione di una civiltà più avanzata, oltre il capitalismo, in cui il socialismo si coniughi con la democrazia e l’uguaglianza con la libertà. Ora viviamo in un’altra epoca, ma i propblemi di quel mondo che Berlinguer con la sua lotta voleva cambiare restano. Anzi, per molti versi si sono aggravati. Questa antologia offre i maggiori testi (relazioni, articoli, discorsi, interviste) di Berlinguer nel lungo periodo (1969-1984) in cui si trovò alla guida del Partito comunista italiano.

Ripercorrendo attraverso la loro lettura il suo non facile cammino alla guida del Pci in un periodo tra i più drammatici e difficili della nostra storia nazionale, si comprende come chiunque voglia misurarsi in Italia e in Europa con il compito, impervio ma necessario, di cambiare la società, da Berlinguer non possa prescindere. E da lui dovrà riprendere il cammino.
Berlinguer era un rivoluzionario, un combattente che non ha mai detto: «Arrendiamoci, non c’è nulla da fare, non ha senso parlare di rivoluzione».
Intervista a Paolo Ciofi e Guido Liguori, presidente e vicepresidente di Futura Umanità. Interviste e riprese di Roberto Pietrucci; montaggio di Simone Bucci

Le idee-forza del comunismo di Enrico Berlinguer

Relazione di Guido Liguori al Convegno “Enrico Berlinguer e i giovani. un’altra idea del mondo” – Roma 8 maggio 2014

1. Si è tornati quest’anno a parlare di Enrico Berlinguer, in occasione del trentennale della morte, sono stati pubblicati o ripubblicati libri dedicati alla sua vita e al suo pensiero, sono stati organizzati e sono previsti vari convegni, è stato fatto persino un film, un documentario che ha avuto successo e che ha riempito le sale dei cinema.

Eppure dobbiamo chiederci se si stia dando davvero – con l’insieme di queste iniziative – un esauriente contributo di verità, ovvero se si stia davvero ricostruendo in modo adeguato la figura e soprattutto il pensiero di quello che fu il più popolare segretario del Partito comunista italiano, il Pci.

Dico questo perché a mio avviso l’immagine di Enrico Berlinguer che scaturisce dalla maggior parte di queste ricostruzioni è una immagine parziale. È una immagine che tende soprattutto a sottolineare la onestà di Berlinguer, la sua dirittura etica, la sua battaglia contro un modo corrotto di fare politica.

 
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I “pensieri lunghi” di Enrico Berlinguer su innovazione tecnologica e futuro dell’umanità

Relazione di Gennaro Lopez al Convegno “Enrico Berlinguer e i giovani. un’altra idea del mondo” – Roma 8 maggio 2014

Nel dicembre del 1983, dunque appena sei mesi prima di quel tragico 11 giugno 1984, E. B. viene intervistato su l’Unità da un ventinovenne Ferdinando Adornato. Si tratta di un testo per la verità scarsamente divulgato e ancor meno studiato. Eppure, per chi voglia approfondire la radici culturali della stessa strategia politica berlingueriana, si tratta di un fonte ricca e preziosa. L’argomento è il medesimo richiamato nel titolo di questa comunicazione. Nella conversazione si prende spunto dal noto romanzo di George Orwell intitolato 1984, con ovvia allusione, quindi, all’anno che stava per aprirsi, ma soprattutto in quanto espressione di una corrente di pensiero e letteraria tendente a presentare il progresso scientifico come fenomeno disumanizzante, che annullerebbe le specificità individuali delle persone. Il libro di Orwell, pubblicato nel 1948, B. lo aveva letto nel 1950, cioè in un periodo in cui la tendenza dominante era quella di vedere nello Stato totalitario e disumanizzante descritto da Orwell “una metafora dell’Unione Sovietica”. Va subito detto che B. non mostra particolare simpatia per Orwell: tutt’altro. Rimanendo nello stesso “genere” (la letteratura cosiddetta “distopica”), giudica Huxley (autore di Brave new world, 1932; trad. it. Il mondo nuovo) scrittore più raffinato e Jack London (autore di The Iron Heel, 1908; trad. it. Il tallone di ferro) scrittore più valido. Ma, al di là dei gusti letterari, importa sottolineare, di questa valutazione negativa, due aspetti: il primo è che “il mondo ha tradito la profezia di Orwell”, “il segno di fondo dei processi storici mondiali è stato un altro” (crollo degli imperi coloniali, processo di liberazione delle donne, un generale processo mondiale di elevazione culturale degli uomini); il secondo aspetto è che dietro la letteratura distopica tende a celarsi “un tradizionale sentimento delle élites intellettuali, che di fronte a tutti i fatti che significano socializzazione della cultura o della politica si ritraggono con l’impressione che questo poi finisca per schiacciare la vita dell’individuo, la creatività, l’arte”. “Portata all’estremo, questa diventa una posizione reazionaria. I periodi di grandi trasformazioni possono anche comportare, temporaneamente, abbassamenti del livello culturale, della creatività ma, insieme, mettono in campo nuove energie, nuovi intelletti, nuove forze. Conta in modo decisivo la capacità di orientare e governare questi processi”. “Tutti questi mezzi danno maggiori possibilità di arrivare a una dimensione onnilaterale dell’uomo proprio perché sono portatori dei un enorme arricchimento delle conoscenze, e offrono la possibilità di una cultura politecnica”. Qui è evidente l’eco di teorizzazioni marxiane e gramsciane; altrettanto evidente è la volontà di rilanciare una visione utopica costruttiva in opposizione alla negatività di ogni distopia. Lo dice esplicitamente: “Bisogna avere il coraggio di un’utopia che lavori sui ‘tempi lunghi’ per utilizzare sempre nuove scoperte scientifiche per migliorare la vita degli uomini e per guidare consapevolmente i processi economici e sociali. Cos’è il socialismo se non questo? E’ la direzione

consapevole e democratica, quindi non autoritaria, non repressiva, dei processi economici e sociali con il fine di uno sviluppo equilibrato, della giustizia sociale e di una crescita del livello culturale di tutta l’umanità”. Utopia che non è, dunque, né attesa messianica né sogno dell’impossibile, ma visione della società e del mondo che ispira l’agire politico. Se mi si passa l’ossimoro, siamo qui in presenza di una sorta di ‘utopica concretezza’, di una razionale ma non rassegnata concezione della storia: “non sono mai mancate e non mancheranno nel futuro della storia dell’uomo interruzioni brusche, rotture, anche involuzioni, periodi di tirannide, fanatismo, oppressione”, ma qui entra in gioco la politica. Quando B. ricorre ad espressioni come “orientare”, “governare”, “guidare consapevolmente”, “direzione consapevole e democratica”, allude a funzioni proprie della politica. Illuminante, a questo proposito, un altro passaggio dell’intervista ad Adornato: “Credo sia sempre più forte il bisogno di reinvestire la politica di ‘pensieri lunghi’, di progetti. Naturalmente questi pensieri devono essere sorretti da un’analisi scientifica della realtà, altrimenti si trasformano in vuote proclamazioni retoriche”. Precisazione quanto mai utile per comprendere che il riferimento teorico resta quello di Marx, con una presa di distanza da suggestioni proprie dell’illuminismo, poi del positivismo e infine dell’ideologia capitalistica degli anni del “boom economico”, tendenti a prefigurare una sorta di progresso inarrestabile dell’umanità. Già nel maggio dell’82, al congresso della FGCI, B. aveva affermato: “Per tutti gli anni ’60 imperava il vacuo ottimismo del progresso incessante, del benessere che si sarebbe via via diffuso in tutti gli strati della popolazione e a tutte le nazioni. Ma negli ultimi anni la realtà ha richiamato la necessità di una visione più lucida del futuro del mondo”. Sottolineo questo dato, del rigore teorico e di analisi del segretario comunista, mai sufficientemente approfondito, a me sembra. Eppure si tratta di tema ricorrente nelle sue argomentazioni. Quando Adornato gli chiede delle conseguenze che a livello teorico l’innovazione tecnologica può comportare, alla luce della riduzione del peso sociale della classe operaia a vantaggio di lavoratori intellettuali, tecnici, ricercatori, la risposta di B. è molto netta: egli ritiene, infatti, che sia “assolutamente da respingere l’idea che questi nuovi processi costituiscano una confutazione del marxismo e del pensiero di Marx in particolare. Il carattere sociale della produzione (e anche dell’informazione come fattore di produzione) è sempre ancora in contrasto con il carattere ristretto della conduzione economica. Questo assunto di Marx non è smentito neanche dalla rivoluzione elettronica”. Un rigore teorico, quello di B., che sarebbe tuttavia davvero sbagliato assimilare ad una sorta di ortodossia o di dogmatismo, dal momento che nello stesso contesto rivendica a se stesso e al suo partito di aver superato “tante incrostazioni ideologiche, anche proprie del marxismo”. E già nel 1976, parlando ai giovani a Milano, aveva affermato con nettezza: “la storia reale non tollera schemi” ed aveva esortato quegli stessi giovani a “cercare il nuovo con passione, con severità e con rigore … [in quanto] i giovani e le ragazze sono i più interessati, i più pronti a cogliere tutte le novità che si presentano, e i più disponibili a impegnarsi per far camminare queste novità”. Nello stesso discorso, dopo aver rilevato che dal disagio della società capitalistica “nasce quella che si potrebbe definire (e che i giovani avvertono in modo particolarmente acuto) l’infelicità dell’uomo di oggi”, indicava “la necessità di uscire dal capitalismo e di andare verso una società superiore … capace di continuare a far progredire le forze produttive, la tecnica, la scienza … [perché]

vogliamo affrontare le sconfinate distese del mare aperto per approdare a una nuova società a misura dell’uomo”. Se, dunque, dovessimo o volessimo definire con un solo aggettivo l’atteggiamento di B. di fronte alla rivoluzione tecnologica, ricorrerei al termine “laico”. Egli stesso afferma che “l’atteggiamento più corretto di fronte alle nuove rivoluzioni tecnologiche sia quello di considerarle in partenza come ‘neutrali'”. Si tratta perciò di ragionare su potenzialità e rischi. Tra i possibili rischi, B. prende in considerazione quello di una possibile passivizzazione della società, anche perché –egli dice- “i governi di quasi tutti i paesi del mondo contano sulla passività dei loro sudditi”. Qui ci sarebbe lo spunto per aprire un’interessante riflessione su come B. consideri il potere e, in particolare, alcuni centri del potere (i governi, gli apparati, i complessi militari-industriali), ma andremmo fuori tema. Per tornare, invece, al tema: rispetto ad altri fenomeni (quelli, per esempio, legati a “nuove espressioni di fanatismo ideologico o religioso che possono, in qualche paese, prendere il sopravvento”), il rischio di una crisi delle istanze di partecipazione democratica prodotta dall’uso delle nuove tecnologie viene circoscritto, in virtù di una innata tendenza dell’uomo alla “associazione collettiva”: “credo che questa sia una esigenza irrinunciabile dell’uomo e continuerà a esistere anche se in forme diverse dal passato … certo si può immaginare un mondo nel quale la politica si riduca solo al voto e ai sondaggi; ma questo sarebbe inaccettabile perché significherebbe stravolgere l’essenza della vita democratica … ci vogliono limiti precisi all’uso dei computer come alternative alle assemblee elettive … io credo che nessuno mai riuscirà a reprimere la naturale tendenza dell’uomo a discutere, a riunirsi, ad associarsi”. Alla luce di quanto poi è accaduto negli anni successivi e di quanto, ancor di più, accade oggi, si potrebbe essere tentati di definire “ottimistica” questa previsione, ma va ribadito che B. assegnava un ruolo forte alla capacità della politica di orientare, dirigere, governare questi processi innovativi: di qui l’apparente ottimismo. Tuttavia, egli aveva già chiaro un ritardo culturale e politico (una sorta di pigrizia intellettuale) che la sinistra tendeva ad accumulare di fronte ai temi della rivoluzione elettronica, tanto che al giovane Adornato rivolge quasi un rimprovero: “Avevo proposto circa un anno e mezzo fa, al Congresso della FGCI, l’idea di un convegno di futurologia che affrontasse non soltanto i problemi dell’economia e dell’industria, ma tutto intero l’arco delle questioni del nostro futuro … siamo di fronte ad una vera e propria ‘crisi del mondo’. Viviamo in un’epoca per molti aspetti suprema della storia dell’uomo, sia per le possibilità che per i rischi. Pensavo ad un convegno che mettesse insieme studi e analisi di ambiti diversi: le scienze fisiche, chimiche, biologiche, antropologiche, demografiche, informatiche, mediche … un convegno che guardasse al futuro con un po’ di fantasia ma sempre sulla base delle acquisizioni e previsioni delle varie scienze”. In effetti, proprio davanti alla platea di giovani di quel congresso della FGCI, il 25 maggio del 1982, B. aveva proposto una serie di considerazioni impegnative ed esplicite: “Dobbiamo … al progresso continuo delle scienze sperimentali le possibilità davvero inaudite e straordinarie che si aprono per migliorare la vita del genere umano … occorre riflettere bene intorno alle occasioni offerte dalla scienza per non smarrire il significato della loro portata, per cogliere quali prospettive positive possono essere aperte e quanto gravi siano, di contro, le limitazioni, le contraddizioni, i rischi generati dai vincoli sociali e politici e da un uso distorto delle scienze e delle tecniche … Quanti nel mondo – e come – pensano davvero a problemi di questa natura muovendo da

un’analisi oggettiva e da una visione che abbia al suo centro la preoccupazione per il futuro dell’umanità? … Come si possono affrontare queste contraddizioni senza porsi l’obiettivo di una trasformazione degli attuali sistemi di rapporti tra gli uomini e di una guida più razionale e più democratica dei processi economici e sociali sul piano nazionale, europeo e mondiale?” Nel volere stabilire un nesso, una relazione tra politica, saperi, scienze e destini dell’uomo trovo interamente espresso lo straordinario spessore del pensiero e della visione politica di E. B. Il suo orizzonte è il mondo, nella sua globalità, e l’esigenza di renderlo più umano. C’è, in questo, una continuità di discorso che a me pare smentisca in radice chi ha voluto – e vuole – vedere due fasi nettamente distinte nella biografia politica di B. Segnalo a questo scopo, in ordine cronologico, una serie di citazioni che mi sembrano estremamente eloquenti. Febbraio 1969, XII Congresso del P.C.I.: “Noi sbaglieremmo se ci chiudessimo nella visione, non dico del nostro paese, ma anche di quella parte dell’Europa e del mondo che è formata da paesi di capitalismo maturo … Il rilancio dell’internazionalismo … passa attraverso metodi e forme nuovi, e nuovi universali contenuti … per la pace, per il progresso materiale, civile e culturale, per la libertà di tutti i popoli e dell’intera umanità”. Dicembre 1974, Comitato Centrale in preparazione del XIV Congresso del P.C.I.: “Vi sono atteggiamenti pseudo- rivoluzionari di negazione dello sviluppo produttivo, della scienza e della tecnica … Contro le tendenze irrazionalistiche e nichilistiche e contro le correnti oscurantistiche ci battiamo perché si abbia fiducia nella ragione, nella capacità di intervento degli uomini in quanto si uniscono fra loro in società”. Marzo 1975, XIV Congresso del P.C.I.: avanza l’ “ipotesi di un ‘governo mondiale’ che sia espressione del consenso e del libero concorso di tutti i paesi … [per] una nuova fase caratterizzata dall’attiva costruzione di un solido e sicuro assetto mondiale di coesistenza pacifica e di cooperazione per lo sviluppo dell’intera umanità e per la giustizia in ogni parte della Terra” [attraverso una lotta che sconfigga imperialismo e capitalismo]. Ottobre 1976, Comitato Centrale del P.C.I.: il tema di fondo è quello dei cosiddetti “elementi di socialismo”; sottolinea la necessità di collegare la lotta per una politica economica rigorosa alla trasformazione della società e alla sua umanizzazione; l’umanizzazione della convivenza civile avrà conseguenze positive sull’emancipazione della donna e per l’avvenire della giovani generazioni. Novembre 1978, intervista a l’Unità: “Promuovere una concertata divisione internazionale del lavoro che dia luogo progressivamente alla formazione di un mercato unico mondiale”. Marzo 1979, XV Congresso del P.C.I.: “Il mondo di oggi è più unito che nel passato, per alcuni tratti di fondo – di vita e di morte – che sono comuni a tutti i paesi e all’intera umanità. Il mondo di oggi, inoltre, è più unito per i nuovi legami di interdipendenza e reciproca influenza: nei campi dell’economia, delle ricerche e conquiste scientifiche energetiche e spaziali, e della medicina; nel campo dell’informazione, assurta a così nuova e decisiva importanza; nel campo del costume. E’ un mondo più unito che nel passato, perché oggi le idee – correnti filosofiche e politiche, ispirazioni e fedi religiose, gusti e modi di sentire, tendenze dell’espressione e dell’arte – hanno mezzi nuovi per attraversare barriere e rapidamente propagarsi nelle aree più vaste. Ed è un mondo unito, crediamo, anche per l’inquietudine di larga parte dell’umanità: in quanto essa, per opera delle stesse conquiste umane, è posta di fronte a un orizzonte sconfinato di progresso scientifico e tecnico e di possibilità di dominio della natura; ma, nel tempo stesso, è posto di fronte

alla crescente difficoltà di vedere su quali vie e verso quali sbocchi sta camminando … La pace è indivisibile. Indivisibili sono lo sviluppo e la libertà di tutti i popoli. Indivisibile è il destino dell’uomo. Su tutti i problemi sovrasta e incombe quello della salvaguardia della pace e della salvezza dell’umanità.” [Fa poi esplicito riferimento a Togliatti: intervista a “Nuovi Argomenti” del 1954 e discorso sul “Destino dell’uomo”, Bergamo 1963]. Ottobre 1979, comizio a Lisbona: “Decisiva è oggi, per il genere umano, la costruzione di un nuovo ordine economico internazionale … opponendosi decisamente all’imperialismo, al colonialismo, al neocolonialismo, al razzismo”. Dicembre 1981, Comitato Centrale del P.C.I.: “Necessità di una guida razionale del mondo. Ciò è diventato ormai una necessità vitale per l’umanità, vitale nel senso che è in gioco la vita stessa del genere umano, il suo futuro.”; “Aprire concretamente la strada all’affermarsi di una nuova qualità dell’esistenza dell’uomo, a trasformazioni profonde degli indirizzi e dei fini dello sviluppo.” Alla luce di quanto si è detto mi sembrerebbe non azzardato parlare di un “cosmopolitismo umanistico” di E. B., che va molto oltre l’internazionalismo di matrice marxiana, pur costantemente presente, e al tempo stesso risente dell’influenza di correnti culturali alle quali il dirigente comunista fu certamente sensibile fin dagli anni della sua formazione. All’eco del pensiero mazziniano che risuonava, com’è noto, nella casa paterna, allo studio dei classici del marxismo, altre letture concorsero all’elaborazione del suo pensiero; possiamo ipotizzarle: da Norbert Wiener [1894-1964, padre della moderna cibernetica] a Erich Fromm [1900-1980, teorico di un “umanesimo socialista”], da Robert Jungk [1913-1994; autore di “Il futuro è già cominciato” (1952, ed. it. Einaudi), “Gli apprendisti stregoni” (1956, ma pubblicato nel 1977), “L’onda pacifista” (1983, ed. it. Garzanti)] a Pierre Theilard de Chardin [1881-1955; gesuita, scienziato, teologo, teorico di un “nuovo umanesimo”]. Tutte ipotesi da verificare. Ma ho per certo che con B. e con gli sviluppi del suo pensiero si sarebbe stati in grado di contrastare, almeno culturalmente, la globalizzazione di stampo capitalistico e la sinistra, le forze progressiste non si sarebbero trovate nel guado melmoso in cui ancora oggi sono immerse.

Tre lasciti di Enrico Berlinguer

Dall’intervento di Paolo Ciofi al convegno «Berlinguer e i giovani: un’altra idea del mondo», Roma 8 maggio 2014.

ciofi-berlinguer_430vertEnrico Berlinguer è vissuto e ha lottato in un’altra epoca storica. Da allora i cambiamenti sono stati radicali in Italia, in Europa e sull’intero scenario globale, ma i problemi che Berlinguer denunciava – lo sfruttamento della persona umana, la fame nel mondo e i pericoli di guerra, la disoccupazione e la distruzione dell’ambiente, l’oppressione della donna e il disagio giovanile – non sono scomparsi, al contrario si sono per molti versi aggravati. In tale condizione si può e si deve lottare per un civiltà superiore, oltre questa società capitalistica ingiusta e alienante: per una società nuova, di tipo socialista in cui si possano pienamente affermare, attraverso l’espansione della democrazia, i principi di libertà, di uguaglianza e di solidarietà, posti peraltro a fondamento della nostra Costituzione. Questo ci dice Berlinguer lungo tutto il suo percorso di dirigente comunista. E questo è un suo primo lascito fondamentale: l’idea – direi di più, la teoria e la pratica – della trasformabilità del sistema capitalistico, della società in cui viviamo.

La peggiore sconfitta è quella di non dare battaglia per una causa giusta, per combattere le ingiustizie e le sofferenze del mondo di oggi, che colpiscono soprattutto i giovani, espropriati del presente e del futuro. Perciò occorre contrastare alcune falsificazioni ideologiche che hanno fatto molta strada. Non è vero che dopo il capitalismo c’è un salto nel buio, un buco nero nel quale dovrebbe precipitare l’umanità. La storia non è finita. E le cosiddette leggi dell’economia non sono immodificabili leggi di natura, ma relazioni tra gli esseri umani che attraversano la storia. E dunque si possono cambiare. Oggi è proprio la crisi del capitalismo del XXI secolo, esplosa sul finire del 2007, che oscura il presente e il futuro dell’umanità, e rischia di far precipitare in un buco nero intere generazioni. Secondo l’economista francese Thomas Piketty, autore di un corposo volume intitolato «Il capitalismo del XXI secolo», già diventato un best seller negli Stati uniti e in Inghilterra, le disuguaglianze soffocano la società e stanno distruggendo un’intera civiltà. Per evitare che ciò avvenga – questa è la sua tesi – bisogna fare esattamente il contrario di ciò che le classi dirigenti stanno facendo, vale a dire assecondare i mercati. «La questione centrale è semplice – afferma Piketty su la Repubblica del 6 maggio – la democrazia e le autorità pubbliche devono essere messe nella condizione di poter riacquistare il controllo del capitalismo finanziario e di regolamentarlo in maniera efficace». Di fronte a questa questione di fondo la politica attuale nel migliore dei casi appare impotente. Dunque, occorre cambiare il senso, le finalità e la pratica della politica. E qui interviene il secondo lascito di Berlinguer: c’è bisogno, come lui sosteneva, di una rivoluzione copernicana della politica, a partire dai contenuti. Ciò comporta il rovesciamento della concezione attuale del partito politico, vale a dire l’abbandono di ogni visione elitaria, verticale, padronale. Non più il leader padrone del partito, ma il leader al servizio del partito, di una libera associazione di donne e di uomini che si uniscono per cambiare lo stato di cose presente.

Quindi, la politica come servizio, come impegno sociale, come impegno culturale e morale, non come mezzo di arricchimento e di corruttela per la tutela dei propri interessi personali e di gruppo. In proposito è opportuno ricordare le parole di Togliatti, cui Berlinguer si ispirava: «Fare politica significa agire per trasformare il mondo. Nella politica è quindi contenuta tutta la filosofia reale di ognuno, nella politica sta la sostanza della storia e, per il singolo che è giunto alla coscienza critica della realtà e del compito che gli spetta nella lotta per trasformarla, sta anche la sostanza della sua vita morale. […] Non vi può essere dubbio che la politica, in questo modo intesa, [è]collocata al vertice delle attività umane». Se dunque, come sostiene Piketty, il problema di oggi è mettere sotto controllo il capitalismo finanziario, è ovvio che ciò non si può ottenere se i sistemi politici sono conformati, a livello nazionale ed europeo, sugli interessi della finanza e della grande proprietà capitalistica. La sinistra, in proposto, viene chiamata direttamente in causa. Esiste o non esiste (come sostiene Tony Blair) oggi una differenza tra destra e sinistra? E cosa vuol dire oggi essere di sinistra? Qui emerge, in tutta la sua corposa attualità, il terzo lascito di Berlinguer. Secondo il segretario del Pci essere di sinistra significa stare dalla parte del lavoro, non del capitale; dalla parte degli sfruttati e degli oppressi, uomini e donne; dalla parte degli emarginati, di chi non ha voce né rappresentanza. Di tutti coloro che sono colpiti dalla crisi del sistema e che vivono nella precarietà. Ma anche di quelle figure professionali che emergono dalla rivoluzione scientifica e digitale, che ha cambiato a tutti i livelli i modi di lavorare e di vivere, senza trascurare ampi strati della piccola e media imprenditoria. Berlinguer guardava avanti. Alla domanda come deve affrontare il partito la nuova epoca caratterizzata dalla rivoluzione elettronica, rispondeva così: «Innanzitutto bisogna impadronirsi il più possibile» della conoscenza dei fenomeni nuovi. «Credo che dobbiamo considerare come un dato ineluttabile la progressiva diminuzione del peso specifico della classe operaia tradizionale. […] Alcuni traggono da ciò la conclusione che la classe operaia è morta. Secondo me non è così. A condizione che si sappiano individuare e conquistare alla lotta per la trasformazione socialista altri strati della popolazione che assumono anch’essi, in forme nuove, la figura di lavoratori sfruttati come i lavoratori intellettuali, i tecnici, i ricercatori. Sono anch’essi, come la classe operaia, una forza di trasformazione. E poi ci sono le donne, i giovani… […] Il carattere sociale della produzione (e anche dell’informazione come fattore di produzione) è sempre ancora in contrasto con il carattere ristretto della conduzione economica. Questo assunto di Marx non è smentito neanche dalla rivoluzione elettronica».

paolo-ciofi-con-berlinguer2In conclusione. Per porsi oggi all’altezza delle sfide del nostro tempo, c’è bisogno di un cambio di cultura e di comportamenti. Non si tratta solo di sconfiggere la cultura dell’egoismo proprietario e dell’individualismo esasperato. Tutti noi, vecchi e giovani, dobbiamo riabituarci a lottare, acquistando consapevolezza di noi stessi e abbattendo la gabbia culturale- mediatica in cui siamo stati rinchiusi come cittadini e lavoratori, mediatizzati e declassati al ruolo di subalterni, se non di sudditi che chiedono per favore ciò che ci spetta per diritto. Dal diritto stiamo camminando all’indietro verso la restaurazione della carità e della benevolenza del sovrano, sia esso un manager, un proprietario universale, un finanziere, un capo del governo, un burocrate europeo. Senza la lotta non si ottiene niente, ci insegna Berlinguer. Il quale sosteneva che «non ci può essere inventiva, fantasia, creazione del nuovo se si comincia dal seppellire se stessi, la propria storia e realtà». Seppellire se stessi, la propria storia e realtà, aggiungeva citando Francois Mitterrand, sarebbe «il gesto suicida di un idiota». Occorre dunque dare battaglia sul fronte culturale per recuperare qual filone del pensiero critico e della politica come mezzo di trasformazione della realtà che da Gramsci si dipana attraverso Togliatti e Longo fino a Berlinguer. Il progetto c’è. È la Costituzione, nella quale sta scritto che la principale disuguaglianza risiede nella distribuzione della proprietà, che secondo l’articolo 42 deve svolgere una «funzione sociale», e deve essere resa «accessibile a tutti». Il tema è particolarmente attuale, in un paese nel quale secondo le analisi del Censis il patrimonio delle 10 persone più ricche è uguale a quello di mezzo milione di famiglie operaie.

Con Berlinguer si raggiunge il punto più alto nella lotta, duramente contrastata con tutti i mezzi, per una civiltà più avanzata secondo i principi costituzionali. La sua grandezza stanel tentativo di aprire una via nuova in Europa di fronte alla crisi del capitalismo in Occidente e del socialismo realizzato ad Oriente. Quel tentativo non è riuscito, ma questo non vuol dire che le ragioni di Berlinguer non fossero fondate. Per questo motivo il segretario del Pci non è un nostalgico bene rifugio in tempi di crisi della politica, è una guida per l’azione. Cerchiamo allora di restituire a Berlinguer la caratteristica che gli è propria: quella di essere un moderno rivoluzionario. «Tutte le lotte che noi combattiamo – sono sue parole – tendono ad affermare una nuova gerarchia di valori, che abbia al centro l’uomo e il lavoro umano, che esalti le virtù più alte e serie dell’uomo: la solidarietà, l’uguaglianza, la libertà, la giustizia». Oggi viviamo dentro una contraddizione clamorosa: siamo in presenza di una pletora di “innovatori”, i quali si sbracciano in tutti i modi per conservare il sistema sociale esistente, che opprime, impoverisce e sfrutta milioni di esseri umani. Al contrario, c’è bisogno di un rivoluzionamento della società, e che i giovani si impadroniscano della propria vita e della costruzione consapevole del proprio destino. Tornano di particolare attualità le parole di Gramsci: istruitevi perché c’è bisogno di tutta la vostra intelligenza, organizzatevi perché c’è bisogno di tutta la vostra forza.

“Berlinguer e i giovani: un’altra idea del mondo” Incontro con gli studenti di Roma Tre

Seminario-Convegno svolto nell’Aula Volpi dell’Università Roma Tre l’8 maggio 2014 sul tema “Berlinguer e i giovani: un’altra idea del mondo”

Relazioni

Le idee-forza del comunismo di Enrico Berlinguer – Guido Liguori

I “pensieri lunghi” di Enrico Berlinguer su innovazione tecnologica e futuro dell’umanità – Gennaro Lopez

Tre lasciti di Berlinguer – Intervento conclusivo di Paolo Ciofi

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