Il rapporto Nord/Sud del mondo e le prospettive del socialismo nell’ultimo Berlinguer

Contributo di Fiamma Lussana “Berlinguer e l’Europa. I fondamenti di un nuovo socialismo” Roma 6 Marzo 2015

Alla fine del ’79, parlando dalla tribuna delle Nazioni Unite, il presidente dei paesi non allineati Fidel Castro aveva lanciato un drammatico appello al mondo: «Quale è il destino dei paesi sottosviluppati? Morire di fame? […] A che serve la coscienza dell’uomo? A che servono le Nazioni Unite? A che serve il mondo?». Berlinguer fa suo il grido d’allarme di Castro: nel mondo c’è una tensione crescente che si collega allo sviluppo ineguale, alla cosiddetta interdipendenza non paritaria fra paesi capitalistici occidentali e paesi arretrati. Al centro dei conflitti del mondo contemporaneo non c’è solo la contrapposizione fra capitalismo e socialismo. Lo scontro è ora fra paesi industrializzati e paesi sottosviluppati. Il mondo insomma è sempre più diviso fra un Nord industrializzato e opulento sul quale soffia, dall’inizio degli anni Settanta, il vento della crisi energetica, e un Sud che muore di fame.

Negli anni del suo cancellierato, Willy Brandt aveva attivamente cercato una soluzione alla divisione del mondo in blocchi contrapposti. Divenuto nel ‘76 presidente dell’Internazionale socialista, nella sua politica era diventato centrale il problema del divario crescente fra paesi ricchi e paesi poveri. Nella sua Ostpolitik l’Europa giocava un ruolo importante: un’Europa comunitaria forte e integrata, non antisovietica, ma nemmeno antiamericana, avrebbe avuto un compito decisivo non solo nel regolare il dialogo intertedesco, ma anche nel porsi come sistema di stabilità dell’intero equilibrio internazionale. In politica estera, sono due i punti strategici di raccordo fra Brandt e Berlinguer: il confronto fra Est e Ovest e l’orizzonte politico del Rapporto Brandt sul Nord e il Sud del mondo.

Un dialogo intenso fra il PCI e la SPD era iniziato dopo la metà degli anni Sessanta quando, parallelamente all’esperienza del centrosinistra in Italia, i socialdemocratici avevano formato nella Germania federale il governo della “grande coalizione” con i partiti di ispirazione cristiana. Brandt guardava con speranza alla doppia natura del PCI, grande forza politica nazionale e popolare, radicata nel paese e nelle istituzioni e, nello stesso tempo, punto di riferimento fra i più autorevoli del movimento comunista internazionale. L’allora ministro degli Esteri e vicecancelliere Brandt coglieva la doppia anima del PCI di Berlinguer, grande partito europeo occidentale, ma anche forza strategica per aprire il confronto con i paesi socialisti dell’Est europeo, perno del movimento operaio occidentale, impegnato sul terreno della libertà, della democrazia e del pluralismo, ma anche partito “rivoluzionario”. Dieci anni più tardi, a Roma, inizieranno fra Brandt e Berlinguer una serie di incontri, incentrati in particolare sulla ricerca di nuovi equilibri internazionali, sul superamento della logica del bipolarismo e sul rafforzamento dell’autonomia europea. Come nota Rubbi, allora viceresponsabile della sezione Esteri del PCI, Brandt e Berlinguer «avevano quasi sempre le stesse posizioni».

Con la crisi della distensione, la ripresa della conflittualità mondiale, la vertiginosa corsa agli armamenti da parte di USA e URSS, si accentua lo sviluppo ineguale: crescono il degrado, l’impoverimento e la miseria assoluta di ampie aree del Sud del mondo. Compito del Rapporto Brandt, elaborato fra il ’77 e il ‘79, è studiare la disuguaglianza sociale e le disparità economiche della comunità mondiale per dare un contributo alla soluzione dei grandi problemi connessi allo sviluppo ineguale fra Nord e Sud del mondo. Il Rapporto è una summa di raccomandazioni ai potenti della terra che mette a fuoco i drammatici problemi dello squilibrio del mondo, partendo dall’assunto che ripensare i rapporti fra Nord e Sud è un problema cruciale per le sorti dell’umanità.

I due temi principali del Rapporto sono il nesso pace/sviluppo e lo sviluppo inteso come interdipendenza. La pace è il presupposto dello sviluppo ed è un bene da preservare, non è un’acquisizione meccanica. Bisogna lottare per la pace. È necessario ripensare il rapporto esistente fra armamenti e sviluppo: «è una tragica ironia della sorte – scrive Brandt – che il trasferimento più attivo e rapido di attrezzature altamente sviluppate e di tecnologia da paesi ricchi a paesi poveri sia stato in forma di strumenti di morte». La reciprocità di interessi fra paesi industrializzati e paesi ricchi di materie prime ha incrementato i rapporti di interscambio: il Nord ha bisogno di allargare i propri mercati e il Sud di importare risorse tecnologiche. L’interdipendenza economica crea le basi per una migliore comunicazione non solo fra Nord e Sud, ma per la distensione mondiale. È la condizione stessa dello sviluppo.

Dopo aver letto il Rapporto e poco prima di partire per il suo viaggio in America Latina, Berlinguer prepara la Carta per la pace e lo sviluppo: nella sua riflessione, la ricerca di un nuovo ordine internazionale, con le sue implicazioni economiche, sociali e morali, diventa centrale. La Carta riprende in forma sintetica tutte le tematiche affrontate nel Rapporto e presenta il problema Nord/Sud in forma di programma politico in cui un’attenzione specifica è rivolta al ruolo dell’Italia e dell’Europa. Una riforma ragionevole del mondo secondo i principi prospettati da Brandt è possibile. L’interdipendenza fra popoli e nazioni non ha ridotto la distanza fra Nord e Sud, la popolazione di due terzi del mondo vive in condizioni di povertà e arretratezza e mai come ora il rapporto fra pace e sviluppo è necessario. Solo emancipando quei due terzi dell’umanità, il mondo sarà più sicuro e lo sviluppo sarà reale anche per i paesi industrializzati la cui crescita è impensabile se più di metà del mondo muore di fame.

Le rivoluzioni socialiste hanno emancipato popoli, riscattandoli dal sottosviluppo che storicamente è un prodotto del capitalismo imperialistico. Berlinguer ripropone nella Carta lo schema teorico della contrapposizione fra socialismo e capitalismo, della crisi del capitalismo e della necessità storica del suo superamento attraverso la diffusione del socialismo nel mondo. Ma fa un passo avanti. Una frattura profonda segna il mondo attuale: la crisi degli anni Settanta ha incrinato la crescita economica dei paesi capitalistici che dal dopoguerra era stata prorompente e incontrastata. Si è rotto il ciclo economico e politico scaturito dagli accordi di Bretton Woods. La crisi energetica e l’inflazione che colpiscono il mondo capitalistico sono le conseguenze e non le cause di una nuova guerra imperialistica, per ora solo virtuale, il cui obiettivo strategico è una politica di potenza e di saccheggio delle risorse del pianeta da parte dei paesi industrializzati. Esiste dunque un rapporto fra crisi del mondo capitalistico e rinvigorita corsa al riarmo per accaparrarsi l’uso del mondo. USA e URSS condividono una politica di potenza che giustifica l’uso della forza per garantirsi vantaggi economici e supremazia politica. La crisi economica ha spinto l’amministrazione Reagan a inasprire lo scontro fra Nord e Sud, concepito come naturale contrapposizione fra l’America che consuma e le aree depresse del mondo che le forniscono materie prime. Ma la logica dei blocchi contrapposti si riflette anche sulla accresciuta tensione fra Est e Ovest. La Carta denuncia il ruolo dell’URSS nella crisi della distensione mondiale: «L’intervento in Afghanistan – scrive Berlinguer – […] ha avuto effetti negativi per la distensione mondiale e la causa della liberazione dei popoli».

La soluzione dei rapporti fra Nord e Sud sta in un progetto molto ambizioso che la Carta di Berlinguer sviluppa in sintonia con il Rapporto Brandt: è la costruzione di un nuovo modello sociale in cui si produca di più e meglio, in cui gli sprechi siano aboliti e ci sia spazio per la crescita soggettiva. Insomma bisogna pensare una nuova etica dello sviluppo. Per i paesi industrializzati, promuovere sviluppo nelle aree depresse del mondo dovrà significare soprattutto costruire un modello di società di tipo globale-integrale. Globale nella trasformazione della produzione, nella riorganizzazione dei consumi. Integrale nei principi di una nuova etica dei rapporti sociali che all’individualismo, edonismo e consumismo, dilaganti nelle società industriali avanzate, sostituisca i valori di una società socialista. Riforma dello Stato sociale, ma anche riforma morale e intellettuale. Lo sviluppo presuppone un’attenzione specifica ai nuovi bisogni e alle nuove speranze che agitano il mondo contemporaneo e di cui sono portatori i soggetti emergenti, le donne, i giovani, gli emarginati. La fascia debole dell’umanità è il corrispettivo sociale delle aree depresse del mondo che chiede diritto di esistenza, di sopravvivenza, di cittadinanza. Il nuovo assetto del mondo dovrà raccogliere questa ansia di liberazione.

Le socialdemocrazie tedesca e svedese e il laburismo inglese, che Berlinguer definisce la socialdemocrazia “seria”, si sono occupate soprattutto dei lavoratori sindacalmente organizzati. «poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. […] Noi – sostiene Berlinguer – abbiamo messo al centro della nostra politica non solo gli interessi della classe operaia propriamente detta e delle masse lavoratrici in generale, ma anche quelli degli strati emarginati della società». Il PCI, insiste Berlinguer, deve ascoltare bisogni e speranze dei nuovi soggetti. Non c’è solo la classe operaia: nella nuova strategia politica del segretario comunista entra con forza inaspettata la protesta diffusa delle masse non protette, non organizzate, non sindacalizzate.

La differenza fondamentale fra il tipo di società prefigurato da Brandt e quello di Berlinguer sta nel rapporto sviluppo/socialismo. Il modello socialdemocratico è la risposta meccanica, funzionale, ai nuovi bisogni della società. Punta a costruire un mondo di progresso. A fare del moderno Stato sociale il terreno di una nuova convivenza civile e democratica. Ma secondo Berlinguer ha spezzato la sua radice teorica col socialismo. Il paradosso della socialdemocrazia occidentale è insomma il suo ispirarsi a un modello di società in cui ci siano norme giuridiche progressive, democrazia diffusa, servizi sociali, ma senza socialismo. Berlinguer sposta l’accento sul socialismo, spinta ideale di qualunque riforma democratica. Più democrazia e più socialismo saranno gli ingredienti del nuovo PCI. Non solo l’una o solo l’altro. Perché nel primo caso si ha l’appiattimento della società in forme di democrazia sociale, progressive, ma senza ideali; nell’altro si cade nel rischio di creare uno Stato socialista ideologico che non sa rinnovarsi e persegue una politica di potenza e di autoaffermazione.

Nella sua idea di socialismo Berlinguer unisce insieme il pragmatismo delle socialdemocrazie occidentali e l’idealismo rivoluzionario che quelle avrebbero perduto. Propone un’idea di socialismo che dovrà diffondere nel mondo, al Nord e al Sud, le idee di libertà, uguaglianza e democrazia. È un socialismo di tipo nuovo, gramsciano nell’ispirazione e togliattiano nella realizzazione. Un socialismo che valorizza le vie nazionali di avanzata verso il socialismo sulla base di un processo rivoluzionario che è soprattutto morale e intellettuale. Che guarda avanti perché accoglie bisogni e speranze dei nuovi soggetti balzati sulla scena della storia accanto alla vecchia classe operaia: i giovani, le donne, le masse non protette. In tale prospettiva, il nemico principale resta il capitalismo nella sua forma esasperata, ovvero quel capitalismo che corrisponde a una certa fase avanzata dello sviluppo industriale e che si preoccupa della crescita produttiva, del benessere individuale, dei nuovi consumi, ma non della qualità dello sviluppo. L’antidoto all’esasperazione consumistica delle società industrializzate occidentali, alla disperazione e alla solitudine delle società del benessere è per Berlinguer l’etica socialista. Insomma, ciò che differenzia profondamente questo tipo di socialismo globale/integrale dalla tradizione del socialismo italiano di matrice positivistica, che è diventata parte integrante della cultura politica della sinistra italiana, è l’idea che il progresso non è sempre fonte di felicità, non è una linea retta che procede senza scosse e senza impedimenti verso il benessere dell’umanità: se non è sorretto da contenuti etici, può diventare una catastrofe.

Lo sviluppo industriale è necessario, ma nel mondo attuale, è aumentato il rischio di abuso di progresso, di un suo uso perverso. Il progresso industriale e tecnologico incrementa e perfeziona la produzione di armi sempre più micidiali, danneggia l’ambiente provocando disastri ecologici, alimenta il consumismo sfrenato, radicalizza la distanza fra un Nord sempre più ricco e un Sud sempre più povero. L’etica socialista può riconvertire lo sviluppo distorto. Può trasformare i1 capitalismo cattivo in un modello economico e politico di tipo socialista e democratico.

Il progetto politico di Berlinguer rimane intrappolato in una contraddizione. Come Brandt, il segretario del PCI pensa a costruire un modello di sviluppo avanzato, ma si ostina a ribadire che qualunque modello sociale basato su meccanismi di produzione di tipo capitalistico non è un modello etico. Il modello delle società a capitalismo avanzato è un modello sociale malato. La contraddizione della strategia politica di Berlinguer all’inizio degli anni Ottanta sta proprio nell’irrisolto rapporto fra necessità di uno sviluppo avanzato e progressivo, ricalcato in tutto e per tutto sul modello delle socialdemocrazie europee, e l’idea di un socialismo etico, demiurgo dei guasti e dello sfacelo prodotti dal capitalismo. Il confronto con le socialdemocrazie europee fa emergere una sempre più netta difformità fra i riformismi europei e la politica del PCI. Fra le politiche economiche e sociali dei partiti socialdemocratici di Svezia, Austria e della Repubblica federale tedesca, che puntano allo sviluppo del “welfare”, e il rigorismo, l’austerità e i sacrifici proposti dal PCI.

Nell’ultima fase della sua vita Berlinguer intraprende una nuova riflessione, tesa alla ridefinizione e al rinnovamento dell’idea di socialismo e alla costruzione, interrotta dalla sua improvvisa scomparsa, di una nuova cultura di governo socialista, più democratica e più aperta alle problematiche e ai conflitti del mondo contemporaneo. Berlinguer condivide e rilancia la cosiddetta “terza fase”, che significa andare oltre le degenerazioni prodotte dal capitalismo, oltre i rischi di involuzione delle società dell’Est europeo (che hanno perso la spinta propulsiva a rinnovarsi). Dal capitalismo si può uscire per via democratica. Quello a cui pensa Berlinguer non è un modello socialdemocratico, ma una forma di socialismo “democratizzato”.

Questo nuovo socialismo ricalca la gramsciana rivoluzione morale e intellettuale e le strategie del potere che, all’inizio degli anni ‘20, Gramsci aveva prefigurato valorizzando la peculiarità e la diversità delle vie nazionali al socialismo. Differenziandosi da Brandt e dal suo programma di rifondazione politica della SPD, ma anche, per certi versi, dal Gramsci di Americanismo e fordismo, Berlinguer non crederà mai che il capitalismo in quanto tale possa avere un carattere innovativo comportando forme di modernizzazione della società. Brandt spera in un mondo in cui sviluppo e progresso siano compatibili con una nuova qualità dell’esistenza. Condivide con Berlinguer la sfiducia in un progresso che sia sempre fonte di benessere: lo sviluppo sociale, economico, tecnologico ha cioè un forte potenziale distruttivo se non è sorretto da contenuti etici. Ma crede in un modello di società che sappia coniugare benessere individuale e forme avanzate di sviluppo capitalistico. Crede nelle potenzialità innovative del capitalismo. Berlinguer nega invece che possano coesistere nel medesimo modello di società benessere soggettivo, giustizia, uguaglianza accanto al capitalismo nella sua attuale forma globalizzata. Il mondo che Berlinguer vede fra la fine del decennio Settanta e l’inizio degli anni Ottanta è ancora drammaticamente segnato dal muro contro muro fra socialismo e capitalismo. Fra un socialismo in marcia verso una profonda revisione democratica dei suoi principi e le forme “degenerative” del capitalismo. La stessa dualità irriducibile si rispecchia nel divario crescente fra un Nord industrializzato e un Sud oppresso e depauperato.

Nell’estate dell’‘80, nel decimo anniversario della presa del potere di Unidad Popular, Berlinguer invia al senatore Ugo Miranda, presso la Casa del Cile, una sua lunga testimonianza su Salvador Allende. Lo scritto, conservato fra le carte del segretario comunista, ripercorre in particolare gli ultimi tre anni della democrazia cilena che si erano chiusi tragicamente con il colpo di Stato dell’11 settembre ‘73 e con l’assassinio di Allende. A pochi mesi da quella che sarà definita la “seconda svolta di Salerno”, ovvero la strategia dell’alternativa democratica presentata da Berlinguer alla fine di novembre dell’‘80, queste pagine sulla situazione cilena offrono importanti spunti di riflessione che gettano luce anche sul nuovo corso della politica del PCI. Nel ’73, dall’analisi dell’esperienza cilena era nata la strategia del compromesso storico. A differenza di allora, scrive Berlinguer, per le responsabilità della DC nel degrado della vita pubblica italiana, il PCI vuole ora diventare il perno della nuova coalizione di alternativa democratica. Ma come allora il PCI tiene fermi due principi fondamentali: che non si può governare senza avere un largo consenso popolare che venga da tutte le forze democratiche del paese e che proprio questa larga rappresentanza politica è l’unica garanzia contro possibili tentativi di svolta autoritaria. «Proprio questa permanenza di un comune terreno democratico – scrive Berlinguer – era venuto a mancare in Cile nell’estate del ‘73».

La democrazia cilena non è riuscita a saldare in un’ampia maggioranza sociale, prima che elettorale, l’alleanza delle masse popolari e dei ceti medi contro la destra nazionalistica e oligarchica. Il caso cileno resta un paradigma. Ma in Italia come si fa l’alternativa democratica? Per governare il paese non basta la rivoluzione morale. Ci vogliono alleati di governo. La nuova strategia proposta da Berlinguer cade in un paradosso: punta a fare del PCI il perno, il “pilastro rivoluzionario” di un ampio schieramento di forze laiche e progressiste che governi il paese contro lo sfascio del sistema politico, ma accentua il carattere etico del maggiore partito di opposizione, la sua diversità o qualità morale superiore, scavando così un solco fra il PCI e gli altri partiti.

All’inizio degli anni Ottanta, l’America Latina è un osservatorio speciale perché è insieme terra di fame e sottosviluppo, ma è anche una parte del mondo in cui 1a speranza socialista è viva. Che tipo di socialismo esiste nel Centro America? A Cuba, prima tappa del suo viaggio che, nell’ottobre dell’‘81, proseguirà in Nicaragua e Messico, Berlinguer ha un colloquio di sette ore con i vertici del Partito comunista cubano sui problemi e le contraddizioni del Sud socialista del mondo. A Cuba, sostiene Fidel Castro, come in altri paesi del subcontinente latino-americano, il socialismo non può che essere rivoluzionario. A dispetto della tradizione politica occidentale, a Cuba il socialismo si impone con la forza, non con la democrazia: «Io avevo una strategia rivoluzionaria – afferma Fidel Castro – prendere il potere attraverso la lotta armata […] A noi […] non passa per la testa la necessità del pluripartitismo […] Per noi non sono valide le forme storiche della democrazia borghese, siamo per […] la dittatura del proletariato». Il socialismo dell’America Latina è settario e dogmatico. E come Berlinguer avrà modo di constatare proseguendo il suo viaggio in Nicaragua e in Messico, un’economia debole e dipendente si accompagna a forme di socialismo difettose e precarie. Il dato nuovo che emerge dal viaggio di Berlinguer è che il sottosviluppo non favorisce la democratizzazione del socialismo.

Ma rinnovare il socialismo è anche un impegno a rinnovare il modo di fare politica. Mentre nell’ottobre dell’‘81 Berlinguer parla dalla tribuna del XX Congresso del Partito comunista messicano, all’Università di Firenze che gli conferisce la laurea honoris causa in Scienze politiche, Brandt pronuncia un discorso in cui riprende i temi della distensione e dello sviluppo a misura d’uomo. Berlinguer sottolinea a penna alcune parti di tale discorso, la cui copia è conservata fra le sue carte. Ancora una volta Brandt e Berlinguer sono in sintonia. Per entrambi la politica è uno strumento formidabile per cambiare il mondo e per viverci meglio. È un’azione dotata di senso che non restringe il suo campo alle piccole manovre del giorno per giorno. Ma incontra ostacoli perché è lontana dalle modalità correnti, dagli interessi personali, dalle clientele. A rischio di sembrare perdente e utopistica, sa leggere le contraddizioni del nostro tempo. Il mondo in cui speravano e per cui operarono Brandt e Berlinguer continua a non esistere. E i timori della guerra globale, di uno sviluppo che distrugge l’ambiente, di una politica senza etica, si sono avverati.