La Repubblica Popolare Cinese e il processo di transizione: una questione aperta.

di Alexander Hobel

Riteniamo utile riproporre qui il testo del saggio di Alexander Hobel contenuto nel libro “Più vicina. La Cina del XXI secolo” curato da Paolo Ciofi e pubblicato dalle edizioni Bordeaux in collaborazione con la nostra associazione.

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Nella complessa realtà del mondo attuale, sempre più interconnesso e interdipendente, l’esigenza di approfondire una questione cruciale come quella dei caratteri e della natura della Cina di oggi, del suo ruolo nel mondo, delle sue prospettive, è giustamente sempre più avvertita. Anche in Italia, l’ampliamento delle conoscenze sulla realtà cinese ha visto già da qualche tempo molti stimolanti sviluppi, con convegni, ricerche, traduzioni e analisi di grande interesse1. Del resto, nel nostro paese, l’interesse verso la Repubblica popolare cinese è antico, così come l’attenzione nei suoi riguardi da parte di intellettuali e forze politiche, a partire, com’è ovvio, dal Partito comunista italiano e dai suoi leader.

Già nel luglio 1950, in un discorso alla Camera dei deputati, Palmiro Togliatti colse nella nascita della Cina popolare «la più profonda trasformazione della struttura del mondo dalla Rivoluzione d’Ottobre in poi», giudicando il generale risveglio dei popoli a lungo sottoposti al colonialismo e all’imperialismo come «uno dei più grandi, forse il più grande fatto nuovo» del secondo dopoguerra2. La «via nazionale al socialismo» imboccata dai cinesi, con la forte funzione nazionale del Pcc svolta fin dalla guerra contro i giapponesi, appariva al Pci di grande interesse, ed era ben chiaro a Togliatti come l’indipendenza della Repubblica popolare non sarebbe stata definitiva «sino a che la Cina non [avesse] raggiunto un grado adeguato di sviluppo economico», attraverso un vasto processo di industrializzazione. Tuttavia, aggiungeva il leader del Pci, «qualora i tempi dello sviluppo industriale venissero troppo forzati», si correrebbe il rischio «di un distacco della classe operaia dalle grandi masse agricole». Il processo di transizione al socialismo si annunciava dunque delicato e complesso, e occorreva procedere con cautela. L’industria socializzata costituiva già «il settore dirigente di tutta l’economia», mentre «al capitale privato dell’industria non concentrata» sarebbe stata «lasciata libertà di muoversi e operare secondo la libera concorrenza, il che costitui[va] una profonda differenza non solo da un regime socialista, ma [anche] dai regimi di democrazia popolare europei», aprendo nuovi spazi a forme inedite della «lotta di classe». Il carattere di processo aperto, in sviluppo, della rivoluzione cinese, fondato su un’economia mista di transizione, veniva dunque fin da allora chiaramente colto e delineato3.

Né l’attenzione verso la Rpc si spense a causa delle differenze o delle polemiche pur aspre dei primi anni Sessanta fra Togliatti e Mao Zedong4, rimanendo al contrario costante5, fino all’importante viaggio in Cina di Enrico Berlinguer nel 19806

Venendo alla Cina dei nostri giorni, il primo elemento su cui riflettere sembra essere questo: che cos’è oggi la Repubblica popolare cinese? I successi economici e sociali, con la fuoriuscita di milioni di persone da una condizione di povertà, lo straordinario sviluppo tecnologico ed economico oltre che nel campo dell’istruzione e della ricerca, appaiono innegabili. Ma sulla natura della Rpc le interpretazioni sono molto divaricate, andando dalla definizione liquidatoria di «turbocapitalismo» alla lettura in termini di un’esperienza socialista pienamente compiuta. I cinesi, dal canto loro, hanno parlato in qualche occasione di «lunga transizione verso il socialismo» e, a partire dagli anni di Deng Xiao Ping, hanno imboccato decisamente la strada del massimo sviluppo delle forze produttive come condizione fondamentale per la costruzione di una società socialista. Naturalmente il loro percorso fa tesoro anche dei successi e delle sconfitte dell’esperimento sovietico, in quello che appare un passaggio di grande importanza nel plurisecolare processo di apprendimento portato avanti dai «subalterni» – classi sfruttate e popoli oppressi – nel corso della storia.

La Cina di oggi si presenta dunque come un’esperienza inedita e originale, che vede la compresenza di elementi di mercato con un ruolo della proprietà pubblica che è tuttora egemone, nel quadro di un sistema di orientamento socialista: quel «socialismo con caratteri cinesi» che ripropone su scala allargata l’idea del «socialismo di mercato». È, quest’ultima, una formula già apparsa nella storia del movimento operaio e comunista novecentesco, e più in generale quello di utilizzare gli strumenti di mercato nel quadro di società che aspiravano a essere o diventare socialiste è un tentativo che si è affacciato più volte, dalla «nuova politica economica» di Lenin all’esperienza jugoslava, ai tentativi di riforma economica nell’Unione Sovietica degli anni Sessanta; tentativi perlopiù non andati a buon fine, ma che pure sono indicativi di una interessante linea di tendenza presente nella vicenda storica del socialismo e del comunismo del XX secolo.

Dal canto suo, l’articolo 6 della Costituzione cinese sancisce la prevalenza della proprietà pubblica e dell’interesse collettivo su quelli privati, sulla base del principio «da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo lavoro», secondo l’antica formula volta a indicare la prima fase della società socialista, quella che poi – per il Marx della Critica del programma di Gotha – avrebbe lasciato il posto a un sistema più avanzato e pienamente socialista, caratterizzato dal principio «ognuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni»7.

Quello della Cina di oggi è dunque un sistema nel quale vigono ancora il lavoro salariato, la forma merce, i rapporti mercantili e l’uso del denaro, e dove tuttavia la proprietà collettiva socialista rimane prevalente: in termini assoluti per quanto riguarda la terra, in termini largamente egemoni per quanto concerne finanza, credito, risorse energetiche e settori industriali strategici.

L’orientamento socialista del sistema si esprime inoltre nel fatto che le scelte fondamentali sulle prospettive dello sviluppo e le priorità economiche spettano alla politica, al Partito comunista, e non sono lasciate all’anarchia del mercato e alle sue dinamiche irrazionali; vige invece il metodo della pianificazione dell’economia e dello sviluppo – unica modalità, peraltro, che può consentire di affrontare i vastissimi problemi di carattere economico, demografico, ambientale e sociale che si presentano a tutti i paesi in questa fase e su scala sempre più globale.

Naturalmente il coesistere di diverse forme di proprietà e di differenti logiche economiche nel quadro del sistema, oltre a porre molte problematiche legate alla evoluzione del pensiero giuridico, pone le basi anche di una lotta per l’egemonia nella società cinese, cosa del resto già avvenuta nella Russia sovietica, in particolare nei primi anni post-rivoluzionari e nella fase della Nep e, in forme diverse, anche successivamente. E certamente tale dialettica non ha un esito scontato.

Quel che è certo è che i comunisti cinesi, almeno dagli anni di Deng Xiaoping, hanno cercato di muoversi sulla base di una profonda verità espressa da Marx ed Engels già nell’Ideologia tedesca, e cioè che il socialismo, la socializzazione di beni e risorse, non si può costruire sulla miseria, ma solo sulla base del massimo sviluppo delle forze produttive, concepito come «presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda»8. Si tratta di una lezione la cui validità è confermata dalle prime esperienze storiche in cui si è cercato di attuare la transizione al socialismo; una lezione che i comunisti cinesi hanno ben appreso, puntando, in particolare da Deng in avanti, proprio sul massimo sviluppo delle forze produttive come presupposto fondamentale per costruire una società socialista. Da questo punto di vista il «socialismo con caratteri cinesi» sembra aver fatto davvero tesoro dell’esperienza sovietica, ispirandosi in particolare al Lenin della Nep e al Bucharin che invitava i contadini ad arricchirsi, e che lo stesso Deng ha riecheggiato col suo «arricchirsi è glorioso». Dall’altra parte, il Pcc, pur intraprendendo la via di coraggiose riforme economiche, ha cercato di non ripetere gli errori di Gorbacëv, soprattutto nell’affiancare una riforma economica radicale, che giunse a colpire il sistema stesso della pianificazione, alla destrutturazione del sistema politico, fondato sulla centralità del Partito, e dello stesso Stato federale sovietico9.

L’esperienza della Repubblica popolare cinese si colloca dunque a pieno titolo nel quadro del lungo processo di apprendimento messo in atto dai subalterni nel corso dei secoli nei loro tentativi e percorsi di emancipazione. Basterebbe soltanto questo per guardare a essa con interesse e rispetto, tanto più quanto più si approfondisce quella crisi sistemica del modello capitalistico che è ormai evidente.

Nella stessa Ideologia tedesca, peraltro, Marx ed Engels individuavano un’altra condizione fondamentale affinché l’umanità potesse superare quella generale «estraniazione» da sé stessa, per cui il «potere sociale» appare agli esseri umani come «una potenza estranea» e incontrollabile, tipica appunto del capitalismo, e cioè lo «sviluppo universale della forza produttiva», il formarsi di quel «mercato mondiale» interdipendente e unificato che pure è oggi davanti ai nostri occhi. Nella loro concezione, il comunismo implica «relazioni mondiali», la completa unificazione del genere umano a opera delle stesse forze produttive capitalistiche, e al contempo la completa estraniazione dell’umanità da tale «potere sociale», la comparsa sul piano globale di una «massa “priva di proprietà”», di quel proletariato che – scrivevano – «può esistere soltanto sul piano della storia universale, così come il comunismo, che è la sua azione, non può affatto esistere se non come esistenza “storica universale”»10.

La fase storica della mondializzazione, nella quale viviamo, sembra corrispondere esattamente a tale descrizione, per cui è sul piano globale che si ripropone la possibilità/necessità del socialismo. In tale quadro, la Cina può rappresentare per la sua posizione oggettiva una sorta di avanguardia, e certamente di importanza decisiva appare il suo ruolo nel mondo, il suo modo di impostare le relazioni internazionali. Quest’ultimo appare finora caratterizzato da un approccio fondato sul soft power, sulla cooperazione internazionale, su un’idea di sviluppo armonico e concertato, piuttosto che sulla mera competizione o tanto meno sullo scontro. In tale quadro, di grande interesse è innanzitutto il progetto di «Nuova via della seta», quella Belt and Road Initiative che sempre più va connotandosi come un modello di mondializzazione alternativo rispetto a quello del «Washington consensus», tanto più nella versione protezionistica e aggressiva rappresentata da Trump11.

È solo un atteggiamento di tipo tattico? Una lettura del genere mi parrebbe riduttiva e sbagliata. Si tratta invece di una impostazione che ha motivazioni e presupposti più profondi, che hanno a che fare anche con la millenaria cultura cinese, col suo approccio olistico alla realtà, oltre che con quella consapevolezza dei problemi globali – dalla questione ambientale a quella demografica, al problema delle risorse – che ad altri protagonisti dello scenario internazionale sembra mancare del tutto, e che invece induce la Repubblica popolare cinese a vedere l’umanità come una «comunità di destino condiviso», come affermato dal presidente Xi Jinping12. Un approccio che rimette al centro dell’attenzione la necessità di quel governo mondiale dello sviluppo e dell’economia che un altro importante dirigente comunista, Enrico Berlinguer, pose all’ordine del giorno già molti anni fa13. Anche da questo punto di vista le assonanze con la storia del comunismo italiano non mancano, ma, al di là di questo, ciò che è certo è che solo tale tipo di approccio potrà consentire di affrontare i problemi dell’umanità in questo difficile XXI secolo e di dare nuovo slancio alle idee e alla prospettiva del socialismo.

Note

1 Cfr. ad es., tra le pubblicazioni degli ultimi anni, Xi Jinping, Governare la Cina, Firenze, Giunti, 2016; La «Via Cinese»: realizzazioni, cause, problemi, soluzioni. Atti del II Forum europeo (2015) promosso dall’Accademia di marxismo cinese – Chinese Academy of Social Sciences (CASS), a cura di A. Catone, Bari, MarxVentuno Edizioni, 2016; La Cina della Nuova Era. Viaggio nel 19° Congresso del Partito Comunista Cinese, a cura di F. Giannini e F. Maringiò, con un contributo di D. Losurdo, Napoli, La Città del Sole, 2018; A. Bradanini, Oltre la Grande Muraglia. Uno sguardo sulla Cina che non ti aspetti, Milano, Università Bocconi Editore, 2018; Z. Boying, Il socialismo con caratteristiche cinesi. Perché funziona?, Bari, MarxVentuno Edizioni, 2019. Si veda inoltre il sito del Centro studi sulla Cina contemporanea, presieduto dallo stesso Bradanini: http://www.cscc. it/#.

2 P. Togliatti, Sulle cause e le conseguenze dello scoppio della guerra in Corea, discorso alla Camera dei deputati nella seduta del 7 luglio 1950, in Id., Discorsi parlamentari, Camera dei deputati, Roma 1984, vol. I, pp. 547-571: p. 548.

3 A. Viale [P. Togliatti], I comunisti e la rivoluzione cinese. V. La vittoria della rivoluzione e la situazione odierna, in Rinascita, novembre 1949.

4 Cfr. A. Höbel, Il PCI nella crisi del movimento comunista internazionale tra PCUS e PCC, in Studi Storici, 2005, n. 2.

5 Cfr. L. Pavolini, Due viaggi in Cina, Roma, Editori Riuniti, 1973; L. Longo, Opinione sulla Cina. Dalle polemiche sul revisionismo al dopo-Mao, Milano, La Pietra, 1977.

6 S. Bordone, La normalizzazione dei rapporti tra Pci e Pcc, in Il Politico, 1983, n. 1, pp. 115-158; C. Galzerano, La normalizzazione dei rapporti tra il Pci e il Pcc (1979-1980). Lo sguardo dei comunisti italiani sulle riforme di Deng Xiaoping, tesi di laurea, Venezia, Università Ca’ Foscari, a.a. 2016-2017, online in http://dspace.unive.it/bitstream/hand- le/10579/10499/837327-1202889.pdf?sequence=2.

7 K. Marx, Critica del Programma di Gotha (1875), trad. it. online in https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1875/gotha/cpg-cp.htm.

8 K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca (1846), Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 25.

9 Su Gorbacëv, cfr. R. di Leo, Rex destruens, in Id., a cura di Riformismo o comunismo: il caso dell’Urss, Napoli, Liguori, 1993.

10 Marx, Engels, L’ideologia tedesca, cit., pp. 24-26.

11 Cfr. D. Losurdo, Washington consensus o Beijing consensus?, in La Cina della Nuova Era. Viaggio nel 19° Congresso del Partito Comunista Cinese, cit., pp. 13-18.

12 A. Catone, L’Anti-Trump: il pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era, https://www.marx21books. com/lanti-trump-il-pensiero-di-xi-jinping-sul-socialismo-con-caratteristi- che-cinesi-per-una-nuova-era/.

13 Si veda la relazione introduttiva di E. Berlinguer in XIV Congresso del Partito comunista italiano. Atti e risoluzioni, Roma, Editori Riuniti, 1975, pp. 15-76. Cfr. R. D’Agata, L’utopia necessaria: amministrare le necessità comuni, in In compagnia dei pensieri lunghi, a cura di U. Gentiloni Silveri, Roma, Carocci, 2006, pp. 106-114.

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