La forza creativa della Costituzione

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Paolo Ciofi, pubblicato su Critica Marxista n. 4/5 – 2017

Il programma economico della Costituzione:
un confronto con Giorgio Lunghini e Luigi Cavallaro.
I problemi che nascono dallo svuotamento dello Stato nazionale
e dalla possibilità reale di incidere dei lavoratori nella vita pubblica.
Dall’impianto costituzionale emerge una visione culturale e politica che va al di là delle ricette di Keynes.

Cosa vuol dire, nelle condizioni del mondo di oggi, lottare per l’applicazione della Costituzione del 1948, che fonda sul lavoro la nostra Repubblica democratica? Il tema, ignorato per anni e colpevolmente messo in sonno dai partiti subito dopo il clamoroso risultato del referendum del 4 dicembre 2016, che ha respinto la controriforma renziana orientata a deformare l’assetto costituzionale secondo gli interessi del capitale finanziario e di un’oligarchia di comando, è stato con efficacia riproposto all’attenzione del dibattito pubblico dall’Assemblea per la democrazia e l’uguaglianza, organizzata da Anna Falcone e Tomaso Montanari al teatro Brancaccio di Roma il 18 giugno scorso. In questo nuovo contesto indubbiamente suscita interesse il saggio di Giorgio Lunghini e Luigi Cavallaro dal titolo La Costituzione come programma economico, pubblicato sul numero 4/2017 di Micromega in un almanacco di economia che esplicitamente propone di «tornare a Keynes». Una visione che, sebbene gli autori non lo dichiarino in modo esplicito, sul terreno politico inevitabilmente ci riconduce al compromesso socialdemocratico, e dunque alla pratica politica del riformismo. Anche perché, come essi stessi sottolineano, l’economia è una disciplina in cui «l’elemento politico ha un peso importante e perfino determi- nante». Andiamo a vedere. (Continua a leggere…) 

“Gramsci conteso”: vent’anni dopo

Egemonia e modernità. Il pensiero di Gramsci in Italia e nella cultura internazionale

Relazione di Guido Liguori al Convegno internazionale di studi Roma, 18-20 maggio 2017

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Il contributo che dovrei cercare di dare in questa sede, nell’ambito di una sezione dedicata alla ricerca e al dibattito italiani sui temi del convegno, si intitola “Gramsci conteso”: vent’anni dopo. Non è un titolo che ovviamente possa essere svolto in modo esauriente. Tanto più nello spazio di una esposizione orale necessariamente sintetica.

Anche intendendo il titolo come relativo solo al concetto di egemonia, come credo vada fatto, nell’ambito di questo convegno che all’egemonia è dedicato, dico subito che ho inteso il compito che mi è stato affidato non come un invito a ripercorrere pedissequamente il dibattito italiano degli ultimi venti anni (per autori e correnti di pensiero di altri paesi, del resto, sono previste in questo nostro incontro sessioni e relazioni apposite), ma solo come tentativo di indicare alcune delle principali idee-guida che hanno nutrito la ricerca e le interpretazioni gramsciane sul tema, in Italia, negli ultimi due decenni. Per comprendere i caratteri di fondo della ricerca gramsciana in Italia nell’ultimo ventennio occorre in primo luogo partire dal dato della grande diffusione del pensiero di Gramsci nel mondo, iniziata già nel decennio precedente, ma di cui si è avuta piena coscienza in questo paese soprattutto negli anni Novanta. Di contro, in Italia, il decennio in questione può essere definito un momento di passaggio, anche nel campo degli studi gramsciani come in altri settori della vita nazionale, culturale e non.

Finito il Partito comunista italiano, il partito di Gramsci, imperante l’ondata neoliberista, tanto forte da far credere ai suoi sostenitori di poter proclamare “la fine della storia”, anche il pensiero del comunista e marxista sardo ebbe a subire i contraccolpi di questa situazione, oscillando tra la diffusa proclamazione del suo definitivo tramonto e il tentativo, altrettanto diffuso, di assimilarlo al pensiero liberaldemocratico, che aveva ormai conquistato una nuova e più forte egemonia, a livello nazionale e internazionale. Forse anche come conseguenza, o se si vuole per reazione a questa situazione, prese vigore in Italia l’affermazione della necessità di tornare a uno studio serio degli scritti di Gramsci, a uno studio che si lasciasse anche in parte alle spalle l’enorme mole delle interpretazioni – certo in molti casi preziose e da studiare, ma influenzate da tanti motivi diversi e stratificati e non sempre ancora vitali – per determinare un ritorno ai testi, a una loro ulteriore messa a fuoco filologica (esigenza già avvertita negli anni ’80, ma rilanciata con decisione nel decennio successivo) e alla loro ermeneutica, meno condizionata che in passato dalla contingenza della contesa politica. Se si pone mente ai molteplici appuntamenti dell’anno gramsciano 1997, ad esempio, ai molteplici appuntamenti convegnistici che caratterizzarono quell’anno (Cagliari, Napoli, Lecce, Cosenza, Torino, solo per citarne alcuni, in ordine cronologico) si può dire che buona parte della “contesa su Gramsci” riguardasse in fondo la pertinenza o meno di quest’autore se non alla galassia liberaldemocratica, quanto meno a una collocazione molto vicino a essa. Faccio un esempio soltanto. Il convegno di Cagliari ebbe certo il merito di far conoscere meglio in Italia la scuola di studi incentrata sulla categoria gramsciana di «egemonia internazionale», fiorita in ambito soprattutto anglo-americano. Ma tale scuola non assumeva – mi chiedo –, al di là di ogni soggettiva volontà politica, una prospettiva di tipo democratico-liberale, nel momento in cui veniva assumendo positivamente la categoria di «società civile internazionale», incentrando su di essa il proprio discorso interpretativo?

In generale, ebbe a rilevare in quella sede un autore nordamericano, Benedetto Fontana, il porre al centro della scena teorica il concetto di «società civile» (come già Bobbio aveva fatto, in un contesto diverso, negli anni ’60), non significava solo leggere male Gramsci, ma anche dimostrarsi subalterni al rinnovato strapotere delle forze economiche e dei mercati da un lato, e alla «proliferazione di enti privati ed associazioni sempre più concentrati su singoli interessi»[1] dall’altro. Certo, lo scenario che andava delineandosi, a fronte della cosiddetta «globalizzazione» (direi meglio: «globalizzazione neoliberista») imponeva una rimessa a fuoco di alcune categorie gramsciane. Ad esempio a Lecce Pasquale Voza, ritenendo irreversibile la crisi dello Stato-nazione, sosteneva la necessità di andare, per alcuni aspetti, oltre Gramsci, di cui ricostruiva scrupolosamente le posizioni, per poi concludere: «Non c’è Stato senza egemonia»: aveva detto Gramsci nei Quaderni del carcere […] Ebbene, ora, dovremmo dire, c’è una egemonia capitalistica senza Stato, senza cioè l’attiva mediazione sociale e culturale dello Stato-nazione. Le casematte di questa egemonia capitalistica non sono riconducibili entro i confini tradizionali degli “apparati ideologici di Stato”, ma si articolano e si intrecciano in una trama di poteri e di saperi di ordine sovranazionale[2]. Non è questo il luogo per aprire il confronto sulla giustezza di questa tesi, a mio avviso solo parzialmente vera, ma comunque più che meritevole di attenzione e approfondimento.

Voglio solo indicare la dimensione dei problemi, le tensioni a cui anche la categoria di egemonia venne sottoposta, vent’anni orsono, dai grandi processi storici in atto. In generale, tornando al tema della fortuna internazionale di Gramsci, è in qualche misura inevitabile che quanto più un sistema di pensiero si diffonda in aree culturali lontane nel tempo e nello spazio da quelle in cui ebbe origine, tanto più aumentino i rischi di imprecisione o anche di infedeltà interpretative. Sul concetto di egemonia sono rimbalzate in Italia dall’estero anche molte voci che rispecchiavano una forte deformazione dello stesso. Come ha notato Joseph Buttigieg, negli studiosi e nei cenacoli intellettuali del mondo anglofono, anche i più prestigiosi, si trova «un Gramsci quasi irriconoscibile»[3]. Aggiungendo poi:

Sfogliando le 776 pagine di Cultural Sudies – una raccolta di saggi di autori vari, riuniti in un singolo volume pensato per essere adottato nei corsi universitari – ci si accorge ben presto che molti esponenti di questo filone di studi sono più disposti a decifrare degli elementi controegemonici che risiedono nella cultura popolare piuttosto che ad analizzare, come fece Gramsci, le ragioni per la durevolezza, l’elasticità dell’egemonia prevalente. Correnti controegemoniche si scoprono nei fenomeni più diversi e sorprendenti: negli spettacoli e nelle canzoni di Madonna, nella pornografia, persino nello “shopping” delle categorie sociali economicamente svantaggiate. Tale concetto di controegemonia non è mai stato elaborato da Gramsci nei suoi scritti, e perciò sarebbe più giusto considerarlo un concetto pseudogramsciano. L’attribuzione di questo concetto a Gramsci è basata sulla convinzione che egli fu il propugnatore della tesi che la cultura popolare è di per sé controegemonica. Più di una tesi, per i praticanti dei Cultural Studies, il quidditas contro-egemonico della cultura popolare è un articolo di fede ereditato da Gramsci[4]. Un altro esempio può essere considerato il canadese Richard J. F. Day, il cui libro (tradotto in italiano) aveva un titolo molto schietto e significativo: Gramsci è morto. Il lavoro di Day si scagliava proprio contro la politica come egemonia. Non era una tesi nuova, aveva anzi una lunga tradizione teorica alle spalle, in primo luogo anarco-spontaneista, tornata in auge in alcuni settori dei movimenti no global a cui l’autore faceva esplicito riferimento. Il tentativo di costruire una «contro-egemonia» (il termine è molto diffuso, come si vede, nel contesto anglofono) era per Day illusorio, poiché avrebbe significato accettare «l’egemonia dell’egemonia», ovvero una concezione della politica secondo cui un mutamento significativo può essere raggiunto solo simultaneamente, per lo più attraverso il controllo delle leve statuali e con una politica di alleanze.

Bisogna invece – per l’autore – agire in modo «non-egemonico», mettendo «in discussione – egli scrive – la logica dell’egemonia nel suo stesso fondamento» e sposando l’«affinità per l’affinità – afferma Day –, cioè per rapporti non-universalizzanti – ci spiega l’autore –, non-gerarchici, non-coercitivi, basati sull’aiuto reciproco e sul comune impegno etico». Ci si trovava, da un punto di vista teorico, nell’ampia area culturale «post-strutturalista», in una versione particolarmente radicale che Day chiama anche «post-anarchica», il cui scopo era definire una politica che potesse – egli scrive – «portare a un mutamento sociale progressista che [rispondesse] alle aspirazioni e alle necessità di identità diverse, senza tentare di sussumerle sotto un unico progetto»[5]. Elogio e irriducibilità delle differenze, dunque, possiamo dire, e incapacità di vedere nella struttura di dominio del sistema socio-politico un unico insieme strutturato, e dunque impossibilità di contrapporre a esso un’alleanza dei soggetti subalterni intorno a un progetto di alternativa complessiva: non resta che il riconoscersi per affinità e dar luogo a manifestazioni esistenziali e politiche di insubordinazione, rifiuto e fuga. In una prospettiva del genere, però, a mio avviso, non sarebbe tanto Gramsci a essere morto, quanto ogni ipotesi reale di cambiamento politico e sociale. Anche come reazione a questo rischio di deformazione di Gramsci, che è comunque un rischio, sia pure a volte denso di implicazioni positive, creative, che ha dato luogo a risultati di grande interesse (pensiamo a Stuart Hall, ad esempio)… anche come reazione a questo rischio di deformazione di Gramsci, negli ultimi venti anni in Italia, come dicevo, sono cresciuti – a scapito forse eccessivo degli usi di Gramsci – soprattutto gli studi filologici ed ermeneutici sull’opera del comunista e marxista sardo, e gli studi più approfonditi sull’effettivo contesto storico e culturale in cui egli operava, e sulla complessa biografia di questo autore, per capire il senso esatto di termini e concetti e ragionamenti non sempre facili da decifrare correttamente, specie nei Quaderni. Dell’apporto notevolissimo in questa direzione dato dai diversi gruppi di lavoro della Edizione nazionale si è qui già detto, come anche dell’apporto dei nuovi studi biografici, sugli anni del carcere e non solo.

Un altro filone della ricerca gramsciana delle ultime due decadi che ha avuto diversi riconoscimenti è stato quello intrapreso dalla International Gramsci Society Italia sul fronte della messa a punto della ermeneutica gramsciana e della chiarificazione terminologica e concettuale dell’opus carcerario. È stato nell’ambito di questo lavoro seminariale, collettivo e interdisciplinare, che Giuseppe Cospito ha proposto per la prima volta la sua ricognizione del termine egemonia, che costituisce oggi il contributo più esauriente e filologicamente attento di cui disponiamo sul lemma e sul concetto, e che per la prima volta apparve nel 2004 nel volume Le parole di Gramsci, che raccoglieva i primi testi appunto del Seminario della Igs. Cospito avrebbe poi anche scritto la voce Egemonia nel grande Dizionario gramsciano 1926-1937, che da quegli stessi seminari scaturì, e fu tra i protagonisti di uno specifico convegno sul tema, nel 2005, svoltosi tra Napoli e a Salerno[6]. Questo incontro – organizzato da Angelo d’Orsi – aveva l’obiettivo di indagare una parola in buona parte ritenuta non a torto «controversa», anche perché spesso investita da interessate distorsioni pubblicistiche e propagandistiche. Nell’ambito di quel convegno, i contributi dedicati soprattutto[7] a chiarificare i testi gramsciani, oltre a quello di Cospito, furono le relazioni di Giancarlo Schirru, che discuteva criticamente le tesi di Lo Piparo sulla derivazione del concetto dalla formazione linguistica di Gramsci; di Francesco Giasi, che affrontava il tema degli anni torinesi e dei Consigli; della compianta Anna Di Biagio, che indagava, con risultati estremamente interessanti, il dibattito ai vertici della Terza Internazionale; di Giuseppe Vacca, che ne proponeva una coniugazione in chiave sovranazionale, collegandolo col tema dell’interdipendenza; accanto ad altri, tesi invece a costruire raffronti e interpretazioni a partire dall’egemonia gramscianamente intesa. Una citazione merita senza dubbio anche la ricerca di Fabio Frosini, che soprattutto nel suo libro dedicato al rapporto tra «politica e verità nei Quaderni del carcere» (così recita il sottotitolo del suo La religione dell’uomo moderno) sottolineava il carattere davvero pervasivo e strutturante del discorso gramsciano sull’egemonia. «Egemonia – scrive Frosini – si produce dappertutto, ove vi sia un rapporto di forze, che è sempre già “saturo” di rappresentazioni e di funzioni connettive supportate da intellettuali»[8]. L’«analisi della politica in termini di egemonia», cioè, mostra – scrive ancora Fabio – come «la “realtà” è sempre già segmentata in rapporti di forze, in cui verità e ideologia – nota l’autore, alla luce del suo assunto più generale – entrano in […] tensione»[9]. Il nesso ideologia-egemonia pare anche a me essere davvero di grande significato e di grande importanza, e Frosini lo declina in modi nuovi e di grande interesse. Mentre più di un dubbio conservo sul collegamento, sia pure parziale (ed è bene sottolineare con forza tale parzialità), che è rintracciabile, mi pare, tra la riflessione di Frosini e quella (molto nota) di Laclau e Mouffe, per i quali non vi sarebbe – alla luce di Gramsci – nesso alcuno tra politica ed economia. Da cui appunto scaturisce una visione che assegna smisurata importanza alla tematica dei «rapporti di forze», certo rilevante nei Quaderni, ma che definire come sostitutiva del nesso struttura-sovrastruttura (termini e concetti su cui tanto spesso torna Gramsci, anche negli ultimissimi Quaderni) mi pare cosa non del tutto convincente. Anche questa tesi era stata proposta originariamente, mi sembra, da Cospito nei seminari della Igs Italia e aveva dato luogo a diverse discussioni.

Posso qui solo dire che, alla luce della mia lettura dei Quaderni, non mi sento di condividerla. Né posso o voglio parlare delle tesi di Laclau e Mouffe, a cui sono dedicate altre relazioni in altre sessioni. Segnalo solo che per Gramsci i soggetti ultimi dell’egemonia sono le «classi fondamentali», mentre in questi ultimi due autori tale dato essenziale mi pare vada perso irreparabilmente. Una lettura profondamente diversa della realtà storico-sociale, dunque, mi sembra, rispetto a Gramsci.

Anche la lettura di Giuseppe Vacca per molti versi appare estremamente innovativa, ma è tesa soprattutto a rileggere Gramsci cercando di mettere in luce il significato più vero delle categorie dell’autore dei Quaderni. Il suo recente Modernità alternative. Il Novecento di Antonio Gramsci è un libro di grande interesse. Essa si presente come una esposizione dei principali concetti gramsciani (egemonia, rivoluzione passiva, filosofia della praxis, ecc.), che indubbiamente l’autore maneggia con invidiabile padronanza, ma anche con una curvatura interpretativa molto personale. Del concetto di egemonia Vacca ricostruisce la genesi e l’evoluzione in Gramsci, le varie fasi del suo utilizzo anche nel periodo precarcerario, i nessi con l’uso che del termine veniva fatto da vari esponenti del bolscevismo, i punti di svolta cruciali del 1926, la nuova concettualizzazione che innerva la ricerca dei Quaderni, fino a evidenziare in modo forte la novità lessicale, che per l’autore è anche teorica e politica, che si avrebbe col termine e col concetto di «egemonia civile», una espressione – come è noto – che compare due volte sole nei Quaderni: nel Quaderno 8, § 52 prima e nel rispettivo testo C, l’importante §7 del Quaderno 13 poi. Tutta la politica, afferma Vacca non a torto, in questo caso, si declina ora come egemonia. Vacca aggiunge che la teoria dell’egemonia in Gramsci subisce una «progressiva liberazione dal vincolo “di classe”», il che sembra aprire la strada a una visione per la quale – come ha scritto Angelo d’Orsi – lo svolgimento della elaborazione gramsciana diviene «un progressivo abbandono dell’ottica rivoluzionaria e un’adesione, sostanzialmente, alla via democratica». Non è che vi sia, a mio avviso, contrapposizione necessaria tra le due vie: si può essere democratici e rivoluzionari a un tempo. Condivido anche il giudizio di Vacca per cui «Gramsci oppone all’universalismo liberale un universalismo comunista»[10], più alto. Ma se ciò è vero, non si dovrebbe lasciare sfocare, sbiadire, la differenza forte che vi è tra la complessiva visione liberaldemocratica e la complessiva visione marxista, sia pure non «volgare» (tra virgolette, in senso gramsciano), o tutt’altro che «volgare», propria di Antonio Gramsci. Né mi convince l’affermazione, che Vacca fa, per cui «la linea di tendenza delle democrazie occidentali dopo la seconda guerra mondiale» sia stata quella evocata da Gramsci nel Quaderno 12, § 2, dove si legge che «la democrazia politica tende a far coincidere governanti e governati (nel senso del governo col consenso dei governati)»[11]. Perché le democrazie occidentali non si sono realmente preoccupate – come anche la nostra Costituzione, la Costituzione italiana, tra l’altro, richiede – di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale» che limitano «di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini», ovvero di affermare la necessità dei prerequisiti della democrazia, di ordine economico, culturale, dell’informazione.

Per procedere con rinnovata lena su questa strada, che io chiamo socialista, comunista e democratica, occorre anche ripartire da Gramsci. Occorre forse anche qui in Italia riprendere a usare Gramsci, e non solo a interpretarlo, secondo la lezione che da altre parti del mondo ci è stata data, pur nella consapevolezza che una buona lettura e un uso proficui si tengono a vicenda e non sono cosa facile. Se non vogliamo rassegnarci al presente e alle sue miserie bisogna ripartire da qui. Gramsci non si è mai rassegnato a non più lottare per una società più giusta, come era quella socialista, nella sua visione. Bisogna meditare sulla necessità di non rassegnarci, noi oggi, in situazioni certo meno drammatiche, ma forse non più facili.

[1] B. Fontana, «Che cosè la verità?». Modernità ed egemonia in Gramsci, in Gramsci e il Novecento, vol. I, p. 290.

[2] P. Voza, Gramsci e l?egemonia, oggi, in Gramsci e l’Internazionalismo, pp. 105-6.

[3] J. A. Buttigieg, I Quaderni del carcere negli Usa, in F. Lussana, G. Pissarello (a cura di), La lingua/le lingue di Gramsci e delle sue opere. Scrittura, riscritture, letture in Italia e nel mondo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008, p. 226.

[4] Ivi, p. 227.

[5] R. J. F. Day, Gramsci è morto. Dall’egemonia all’affinità, Milano, Elèuthera, 2008, pp. 17-9.

[6] A. d’Orsi, F. Chiarotto (a cura di), Egemonia. Usi e abusi di una parola controversa, Napoli, Libreria Dante & Descartes, 2008.

[7] V. Cingari, Punzo, ecc.

[8] F. Frosini, La religione dell’uomo moderno, p. 24.

[9] Ivi, p. 29.

[10] G. Vacca, Modernità alternative, p. 226.

[11] Q. 1549.

La scomparsa di Valentino Parlato

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Il cordoglio e l’omaggio di Futura Umanità Associazione per la storia e la memoria del PCI

Politico, giornalista, comunista. È certamente “anomala”, cioè straordinaria, la storia di Valentino Parlato che ci ha lasciato ieri il 2 maggio, a 86 anni. Comunista per tutta la vita. E mai pentito. Tra i fondatori del Manifesto, di cui fu quattro volte direttore (fino al 2010, quando lasciò il testimone a Norma Rangeri, tuttora in carica), Valentino Parlato ha iniziato la sua militanza in Libia, a Tripoli, dove era nato (7 febbraio 1931). E proprio perché comunista, nel 1951 dalla Libia viene espulso e in seguito si trasferisce a Roma.

Redattore dell’Unità e di Rinascita, funzionario di partito ad Agrigento, membro del Comitato Centrale, stretto collaboratore di Giorgio Amendola; nel giugno 1969, con Rossana Rossanda, Luciana Castellina, Aldo Natoli, Luigi Pintor, fonda Il Manifesto.

Fortemente e apertamente critico nei confronti del Pci, colpevole ai suoi occhi di non condannare l’intervento sovietico in Cecoslovacchia, nel novembre dello stesso anno viene radiato dal partito.

Per gli anni che seguiranno, quasi mezzo secolo, lui continuerà a combattere, comunista eretico e fedele. Per sempre. Il suo ultimo impegno è stato nella battaglia referendaria per la difesa della Costituzione, aderendo fin da subito, fin dalla prima uscita pubblica nel gennaio del 2016, al Comitato per il No.

“La rivoluzione non russa”, è il titolo del suo libro uscito nel 2012 sui grandi quaranta anni di vita del Manifesto; ma nell’ultima recentissima intervista si dichiara «sgomento davanti a questa sinistra che non riconosce più se stessa nemmeno allo specchio». E tuttavia nell’ultimo editoriale, scritto sul Manifesto pochi giorni prima della scomparsa, scrive: «Non possiamo non tener conto di quel che nel mondo sta cambiando; dobbiamo studiarlo e sforzarci di capire, sarà un lungo lavoro e non mancheranno gli errori, ma alla fine un qualche Carlo Marx arriverà».

L’Associazione Futura Umanità porge il suo cordoglio e il suo commosso omaggio.

La cultura della Costituzione per ripensare la sinistra

Articolo di Paolo Ciofi | Scritto per Malacoda, webzine, il 9 aprile 2017
La sinistra e il senso dell’alternativa. La Costituzione come progetto di cambiamento e la lotta per la sua applicazione. Una grande campagna di acculturazione costituzionale nei luoghi di studio e di lavoro

  1. Sinistre, sinistra e il senso dell’alternativa.

La sconfitta del capo del governo e segretario del Pd nel referendum istituzionale, che ha respinto – dopo quello messo in atto da Silvio Berlusconi – il secondo tentativo di conformare la Costituzione sugli interessi di una minoranza dominante organica al capitale finanziario, è stata clamorosa per effetto di una forte e inattesa (dagli esperti) partecipazione democratica seppure diversamente motivata. E ha aperto una stagione piuttosto convulsa di congressi, di fondazioni e separazioni, nonché di intenzioni spesso divergenti, nello schieramento del sistema politico denominato di sinistra. Cerchiamo allora, prima di tutto, di fare il punto su una situazione che al momento appare piuttosto confusa e tutt’altro che consolidata.

In estrema sintesi, il quadro si presenta ai nostri occhi con i tratti che seguono. È nata Sinistra italiana, fuoriuscita dal travaglio doloroso di Sel, il partito di Nichi Vendola, il cui scopo consiste «nel costruire una sinistra di tutte e di tutti, radicale, credibile, autonoma, popolare». Ma che, nel momento stesso in cui è venuta alla luce, ha perso una parte non irrilevante di se medesima, confluita nelle file di coloro i quali, a loro volta, fuoriusciti dal Pd di Matteo Renzi, hanno dato luogo a un’altra formazione politica. Con travagli più o meno dolorosi come quelli di Massimo D’Alema e poi di Pier Luigi Bersani.

Sebbene lo statista di Rignano sull’Arno confermi di voler procedere senza tentennamenti sulla linea del referendum costituzionale, bocciata secondo lui non perché era sbagliata ma perché il Pd non è riuscito «a far capire quanto fosse importante per l’Italia la riforma», l’obiettivo strategico del raggruppamento Articolo uno-Movimento democratici e progressisti sembra essere oggi quello di «un centro sinistra largo», come ha sostenuto Bersani. Cioè di un’alleanza di governo con il partito di Renzi, dal quale lo stesso Bersani alla fine è fuggito.

Una strategia alquanto contraddittoria, che in conclusione si risolve, a quanto sembra, in una tattica governista di non grande respiro, sebbene al momento non sia chiaro il destino del Pd e tutto lo schieramento politico sia in fibrillazione in vista delle elezioni politiche. Comunque, in attesa anche di ciò che deciderà di fare con il suo campo progressista l’avvocato Giuliano Pisapia, il quale a sua volta è in attesa di sapere se Renzi continuerà ad allearsi con il pluricondannato Denis Verdini o se invece si rivolgerà a specchiate persone della sinistra di governo, nel Mdp è emersa una divergenza non da poco sulla valutazione del Movimento 5 Stelle, e quindi sulla opportunità di aprire un dialogo o di alzare le saracinesche nei suoi confronti.

In questo quadro assai mosso, nel quale gli schieramenti prevalgono sui contenuti e sono visibili tendenze diverse se non addirittura opposte, Paolo Ferrero ha rilanciato al recente congresso di Rifondazione comunista, nella sua ultima relazione da segretario, un appello per dare vita a «un soggetto unitario della sinistra antiliberista, autonoma e alternativa al Pd». Dopo che, nel giugno 2016, si è costituito un altro piccolo partito della sinistra, denominato PCI, dalla trasformazione del PCdI e da militanti della stessa Rifondazione. Sostiene Ferrero che c’è bisogno di «un soggetto unitario e plurale», il quale, «senza chiedere scioglimenti a chicchessia, si presenti alle elezioni con un simbolo costante nel tempo e sia in grado di sviluppare iniziativa su tutti i nodi politici e sociali».

Una proposta non nuova, di fatto lasciata cadere dai principali attori del dramma che ormai in chiave farsesca sembra ripetersi a sinistra, e ripresa solo da Pippo Civati. Una indicazione, peraltro, che può essere utile, come è accaduto in alcune città, per presentare liste unitarie nei territori dove si sono compiute esperienze comuni, ma che appare insufficiente per costruire un’alternativa politico-culturale ed economico-sociale al dominio totalitario del capitale. Il quale – non dimentichiamolo – nella fase della globalizzazione finanziaria, vale a dire nella massima espressione del suo trionfo, tende a distruggere l’equilibrio naturale del pianeta per effetto delle sue interne contraddizioni, e a sottomettere e svalorizzare gli esseri umani, comprati e venduti al mercato come ogni altra merce, o lasciati deperire nell’esclusione e nell’abbandono perché non funzionali alla realizzazione del profitto. Questo è il brillante risultato ottenuto dalla illimitata libertà del capitale, vale a dire dalla sua dittatura: gli esseri umani al servizio dell’economia, non l’economia al servizio degli esseri umani. In Europa e nel mondo, e così anche in Italia.

In tale condizione, dobbiamo constatare che nell’insieme gli orientamenti oggi prevalenti nel variegato mondo denominato di sinistra tendono, come nel passato, a porre in primo piano la questione elettorale, e quindi del governo. Sottostimando il tema cruciale posto dal persistere drammatico della crisi, che reclama una alternativa al sistema dominante, di conseguenza la costruzione di una sinistra in grado di misurarsi con le contraddizioni nuove della modernità capitalistica, e dunque con le concrete condizioni materiali e ideali in cui vive la stragrande maggioranza delle donne e degli uomini del nostro tempo. Come se il governo fosse il fine ultimo, l’obiettivo prioritario in sé indipendente dai contenuti, e non strumento per cambiare la società, che una sinistra non imbozzolata nella gestione (più o meno astuta) dell’esistente dovrebbe assumere.

Che senso ha oggi dirsi di sinistra se non ci si misura con le mutazioni profonde, peraltro in perenne movimento, che coinvolgono congiuntamente il capitale e il lavoro? Se non si lotta per dare organizzazione, rappresentanza e rappresentazione, alle lavoratrici e ai lavoratori del nuovo secolo, generati dalla rivoluzione scientifica e digitale in atto, che non abolisce il lavoro, ma cambia il modo di lavorare, di comunicare, di vivere? Se non si offre dignità e speranza, libertà e uguaglianza a tutti coloro i quali, bianchi, gialli e neri, uomini e donne, giovani e vecchi, di qualsiasi fede religiosa, per vivere hanno bisogno di lavorare? Se ai ceti intermedi impoveriti e a tutti coloro che soffrono per la crisi non si offre una sponda di vicinanza e di solidarietà? Se tutti insieme non si lotta per una civiltà più avanzata, oltre le colonne d’Ercole di un capitalismo decadente, e perciò feroce e distruttivo? Questo tema è nelle cose. E va posto con intelligenza e duttilità, al tempo stesso con la determinazione necessaria, se non si vuole che prevalgano forze nazionaliste, di destra e fascistiche, che attizzano la concorrenza e la guerra tra poveri. Con attenzione occorre guardare all’elettorato popolare, in particolare a quello dei 5 Stelle, che non sono la causa della crisi, ma il prodotto contraddittorio della crisi e di una politica asservita e corrotta che l’hanno aggravata.

2. Il riformismo è morto, seve una nuova cultura.

Lasciamo andare le dissertazioni più o meno interessate sul populismo e restiamo ai fatti. Con la bocciatura della controriforma costituzionale da parte degli italiani, e con il successivo strappo di D’Alema e Bersani, è venuto in chiaro senza possibilità di equivoci il fallimento di un’operazione nata alla Bolognina il 12 novembre 1989 e conclusasi il 4 dicembre 2016. Doveva nascere una nuova sinistra di governo cancellando il Pci, si è prodotta invece la mutazione genetica della sinistra, con la conseguente espulsione del lavoro dal sistema politico. Fino al tentativo di mettere in discussione anche formalmente la Costituzione, vale a dire l’impianto democratico del Paese che proprio nel lavoro trova il suo fondamento.

In definitiva Renzi e il renzismo sono il prodotto del fallimento di un’intera classe dirigente, che ignorando la portata innovativa della Costituzione si è rivelata incapace di progettare il futuro dell’Italia e dell’Europa nella fase della globalizzazione del capitale. Dopo aver toccato con l’approvazione della Carta del 1948 e con le lotte per la sua effettiva applicazione la vetta più alta del nostro tormentato cammino verso la libertà e l’uguaglianza, muovendo da Occhetto e passando per D’Alema e Veltroni, inventore del partito a vocazione maggioritaria come espressione della borghesia dominante secondo il modello americano, siamo pervenuti con Renzi a una vera e propria retrocessione verso il passato, che rompe con l’interclassismo della vecchia Dc e ha ben poco a che vedere con la predicazione di papa Bergoglio. Vale a dire, al tentativo di stabilizzare la libertà totalizzante del capitale all’interno di un sistema politico monoclasse, garantendo l’alternanza tra diverse componenti della borghesia dominante rinnovata nei metodi e negli assetti del potere. Il tutto mascherato da un linguaggio demagogico e falsificante, volto a far apparire di sinistra ciò che nei contenuti e nei metodi di governo è sostanzialmente di destra,

A questo esito si è giunti per effetto di due processi concomitanti che hanno coinvolto la sinistra. Da una parte, sul fronte della sinistra cosiddetta governista, invece di muovere dai principi costituzionali per dare nuova linfa e contenuti più avanzati alla democrazia, il Pd si è blindato all’interno di vecchi assiomi liberali: la non trasformabilità del sistema, assunto come un dato di natura e come se il capitalismo fosse l’approdo definitivo della storia; l’abbandono dell’analisi di classe della società, considerata una somma di individui privi di qualità sociale; la presa di distanza dalla cultura della Costituzione come progetto di cambiamento, fondato sulla democrazia progressiva e sulla partecipazione popolare. Come è noto, è stato il compianto Alfredo Reichlin a osservare che il Pd ha confuso il riformismo con il liberismo. Ma in tal modo si è diffusa una crisi democratica devastante, aggravata dal ricorso a leggi elettorali maggioritarie, che trasformano una minoranza di elettori in maggioranza assoluta degli eletti.

D’altro canto, sul fronte opposto della sinistra cosiddetta alternativista, è emersa chiaramente l’assenza di una strategia adatta alla trasformazione della società nell’Occidente avanzato, in Italia e in Europa. Ignorata di fatto quella tendenza del marxismo creativo, che da Gramsci attraverso Togliatti e Longo conduce fino a Berlinguer, e messo quindi in parentesi il progetto di nuova società delineato dalla Costituzione considerata poco più di un ammenicolo neoborghese, questa sinistra, nonostante l’impegno generoso di tanti e tante militanti, non è riuscita a uscire da uno stato di minorità politica e culturale, pur dichiarandosi rappresentante della classe operaia che però non l’ha riconosciuta come tale.

Perciò occorre un taglio netto rispetto al passato. Non serve la riproposizione, trita e ritrita, del riformismo. Cosa significa oggi riformismo? Una parola malata, ha osservato il vecchio riformista Cofferati, perché concausa della crisi che il mondo sta attraversando. Con la quale si sono coperte le più svariate operazioni pro business di Clinton e dei padri nobili della socialdemocrazia europea: da Blair e Schröder fino a Hollande. E che è servita a tradurre in termini politici le regole imposte dai mercati globalizzati. È arrivato il momento di prendere atto che la fase socialdemocratica del movimento dei lavoratori si è da tempo conclusa non con un compromesso tra capitale e lavoro, ma con la completa resa del lavoro al capitale: nel pensiero e nella prassi.

Non basta però la critica al liberismo, sulla quale sembrano attestarsi diverse componenti della sinistra alternativista. È necessaria una cultura critica della realtà, se vogliamo trasformarla. Questa realtà è il capitalismo globale, e la società in cui viviamo, al di là delle formule attenuanti per edulcorarla, ha un nome preciso: si chiama società capitalistica. Perché – uso le parole di Luciano Gallino – «ha nel capitale il suo motore, la ragion d’essere, la sostanza che lo alimenta e tiene in vita». Dunque, se si vuole rovesciare lo stato delle cose presente, non basta contrastare l’ideologia della classe dominante, è necessario conoscere e mettere a nudo il meccanismo di funzionamento del capitale, e gli effetti che provoca sull’insieme della società.

Se è vero che la cultura dominante è la cultura della classe dominante, allora c’è bisogno oggi di un sovrappiù nell’esercizio della critica per mettere in luce che il capitale non è una “cosa”, un accumulo di merci o di mezzi finanziari, e tantomeno un algoritmo, ma una relazione, un rapporto sociale che fissa la divisione della società in classi. Tra chi è proprietario dei mezzi necessari alla produzione di beni e servizi materiali e immateriali, e pertanto alla riproduzione della vita stessa, e chi al contrario è proprietario esclusivo delle proprie attitudini fisiche e intellettuali che porta al mercato in cambio dei mezzi per vivere.

Nella modernità il capitale si mostra in tutta la sua violenza e brutalità come un rapporto sociale in cui compare il proprietario e l’espropriato, lo sfruttatore e lo sfruttato, il dominante e il dominato. Questa è la realtà del mondo di oggi, con le specificità derivanti dalla storia e dalla cultura di ciascun Paese. Il problema allora non è il liberismo, bensì il capitalismo, con le sue contraddizioni e il conflitto tra le classi. Tuttavia, se il capitalismo scompare dall’orizzonte della cultura e della politica della classe lavoratrice e dei ceti subalterni, non c’è alcuna possibilità del suo superamento verso una civiltà superiore. Sebbene sia questo il tema che il nostro tempo ci propone, in un mondo sconvolto dalla crisi del capitale.

3. La Costituzione: il progetto di cambiamento per cui lottare.

Redistribuzione! Di fronte alla crescita smisurata e insopportabile delle disuguaglianze, questo slogan si sta facendo strada in vari ambienti della sinistra. Ma c’è bisogno di chiarezza. Se il capitale, secondo l’analisi critica di Carlo Marx, oggi più che mai indispensabile per scoprire il codice genetico del capitalismo globale, è «un determinato rapporto di produzione sociale» ed è «costituito dai mezzi di produzione monopolizzati da una parte determinata della società», ne consegue che la distribuzione della ricchezza e del reddito dipende in un ultima analisi dalla distribuzione della proprietà.

Siamo realisti. C’è qualcuno che pensa di redistribuire sostanziosamente reddito e ricchezza senza toccare il rapporto di proprietà, vale a dire il rapporto di produzione capitalistico nella sua espressione giuridica? Non si farà alcun deciso passo in avanti restando nella sfera distributiva. Per ottenere risultati positivi a vantaggio della collettività è indispensabile intervenire nel processo di accumulazione della ricchezza reale e quindi redistribuire la proprietà, mettendo sotto controllo i detentori del grande capitale e della finanza. Come del resto la nostra Costituzione rende possibile se venissero applicate le norme del Titolo III riguardanti i rapporti economici, che sono sempre state un terreno di lotta e che oggi vengono del tutto ignorate.

Scopriamo una verità piuttosto imbarazzante: la cultura distributiva è rimasta molte spanne indietro rispetto alla cultura della Costituzione, la quale non teme di misurarsi con la questione cruciale della proprietà. E infatti, sul fondamento del lavoro, che da merce diventa inalienabile diritto e quindi ridefinisce sostanzialmente i principi di libertà e di uguaglianza, la nostra Carta del 1948 – la cui potente carica innovativa continua colpevolmente a essere sottovalutata – delinea un progetto di società molto avanzata, da costruire attraverso l’espansione progressiva della democrazia e il protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori sulla via di una civiltà più evoluta e più umana, che potremmo denominare nuovo socialismo.

Teniamo bene a mente l’articolo tre, dove si afferma che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Da cui discende: a) che l’applicazione di questo principio comporta il rovesciamento delle politiche economiche e sociali oggi vigenti in Italia e in Europa; b) che non è sufficiente intervenire nella sfera distributiva se si vogliono effettivamente garantire uguaglianza e libertà a tutti gli italiani, elevando le lavoratrici e i lavoratori al ruolo di classe dirigente.

Esattamente in ragione di ciò, nel Titolo III già menzionato si pone un limite alla proprietà, che, pubblica o privata, deve assolvere a una funzione sociale; si prescrive che comunque le diverse forme di iniziativa economica non devono recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, e pertanto vanno indirizzate a fini sociali; si rende esplicita la possibilità di trasferire a comunità di lavoratori e di utenti imprese che si riferiscano a servizi pubblici o a fonti di energia e a situazioni di monopolio. Sono condizioni che i padri costituenti ritennero indispensabili perché i nuovi diritti, i diritti sociali, possano tradursi in realtà, nella vita reale di ogni persona. Non certo come graziose concessioni di un sovrano o come bonus di un qualsiasi uomo solo a comando, bensì come tessuto connettivo di una società rinnovata.

Premesso che «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto» (articolo quattro), mi limito qui a ricordare che la Costituzione garantisce il diritto a una retribuzione paritaria per uomini e donne a parità di condizioni lavorative, proporzionata alla quantità e qualità di lavoro, e comunque sufficiente ad assicurare «un’esistenza libera e dignitosa»; nonché il diritto al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite, alla tutela della salute, all’assistenza e alla pensione, all’istruzione. In poche parole: l’economia al servizio degli esseri umani, e non viceversa.

Sono diritti che nelle condizioni del mondo di oggi hanno valore universale. Come universale è il principio che ripudia la guerra in quanto «strumento di offesa alla libertà di altri popoli e di risoluzione delle controverse internazionali». La straordinaria modernità della nostra Costituzione si riscontra anche nel principio che assegna alla Repubblica – ed è questo un altro principio che trascende la dimensione nazionale – il compito di promuovere lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica, e di tutelare l’ambiente e il patrimonio storico e artistico.

In linea con una visione complessa dell’uguaglianza che non si riduce nell’impianto della Carta alla parità delle condizioni di partenza, Stefano Rodotà ha osservato che oggi «l’accesso alla conoscenza reso possibile da Internet non basta ad affermare in astratto il pari diritto di ciascuno, se poi le condizioni materiali e culturali creano condizioni di disuguaglianza e di esclusione». In altre parole, l’uguaglianza sostanziale che le innovazioni scientifiche e tecnologiche del nostro tempo reclamano a gran voce, e che consentirebbero a tutti e a tutte di vivere lavorando meno e meglio, è esattamente ciò che la Costituzione garantisce agli italiani. I quali, dopo la grande vittoria democratica nel referendum, dovrebbero essere chiamati a lottare per l’applicazione dei principi costituzionali, portandoli in Europa e nel mondo.

Alla domanda del che fare rispondo che questo dovrebbe essere il compito della sinistra, e al tempo stesso il mezzo per costruire una vera sinistra, una sinistra nuova con caratteristiche popolari e di massa: promuovere un vasto e articolato movimento di lotta per l’applicazione della Costituzione con obiettivi concreti, da sviluppare nei territori ma anche a livello nazionale ed europeo. Facendo leva su quell’inestimabile patrimonio di energie e di intelligenze messe in campo senza risparmio nella campagna referendaria da uomini e donne, giovani e anziani, che si sono uniti e mobilitati per un grande obiettivo, al di là delle tessere che avevano o non avevano in tasca. Un patrimonio, e un esempio da mettere a valore.

Intanto, un primo passo potrebbe essere una grande campagna di acculturazione costituzionale da promuovere nelle scuole, nelle fabbriche e in tutti i luoghi di lavoro per diffondere la conoscenza della Costituzione antifascista, la sua cultura della solidarietà, dell’uguaglianza e della libertà, contro la cultura del business, della disuguaglianza e della divisione. A tutti coloro che soffrono per gli effetti distruttivi della crisi la nostra Carta fondamentale offre un orizzonte, una speranza e motivazioni molto concrete per ribellarsi e lottare. A una sinistra nuova, che sul fondamento del lavoro voglia costruire in Italia e in Europa un’alternativa praticabile alla dittatura del capitale, offre una tavola di valori e di diritti su cui definire un programma di interventi a medio e lungo termine.

La Costituzione unisce i lavoratori e il popolo, e chiede un cambiamento radicale: facciamo la sinistra della Costituzione, per l’applicazione della Costituzione.

Futura Umanità si unisce al dolore per la scomparsa di Alfredo Reichlin

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Con Alfredo Reichlin scompare uno dei dirigenti “storici” del Pci. Avrebbe compiuto 92 anni il prossimo 26 maggio.

Era nato a Barletta, dove il nonno paterno, svizzero, aveva impiantato ai primi del ‘900 una fabbrica per l’estrazione del tannino dalle vinacce.

Molto importante per la sua formazione politica fu l’amicizia con i due fratelli Pintor, Giaime e Luigi, nonché la partecipazione alla lotta di Liberazione (nei GAP) grazie ad un altro amico e compagno di gioventù, Lucio Lombardo Radice. Fu tra i giovani intellettuali che Togliatti “reclutò” tra i suoi collaboratori per la costruzione del “partito nuovo”. Al Pci si era iscritto nel 1946. Diresse per sei anni l’Unità (a partire dal 1958) e per altrettanti anni (dal 1962 al 1968) fu alla guida del Partito in Puglia, misurandosi con le difficili emergenze legate alla “questione meridionale”. Eletto alla Camera dei Deputati nel 1968, è stato parlamentare per sette legislature. Entrato a far parte della Direzione del Partito, fu tra i più stretti collaboratori di Enrico Berlinguer, soprattutto per le politiche economiche. Dopo lo scioglimento del Pci, ha fatto parte del PDS, poi dei DS e infine del PD.

L’Associazione Futura Umanità rende il suo omaggio partecipe e commosso al ricordo del combattente antifascista e del dirigente comunista.

“Nella Resistenza romana” di Alfredo Reichlin

Intervento pronunciato al convegno della Igs Italia «Valentino Gerratana “filosofo democratico”» (Roma, 18-19 novembre 2010), ora in Valentino Gerratana “filosofo democratico”, a cura di E. Forenza e G. Liguori, Roma, Carocci, 2011.

 

Ricordo il giorno in cui incontrai Valentino Gerratana. Era l’inverno del 1944 nella Roma occupata dai tedeschi. L’appuntamento era in una piccola trattoria vicino Piazza Fiume. Mi è rimasto impresso il suo volto: magrissimo, con la barba nera mal rasata che rendeva i suoi occhi più tristi e severi. Poche parole e lunghi silenzi. Luigi Pintor e io eravamo ragazzi. Avevamo preso la licenza liceale solo pochi mesi prima. Era lì che qualcuno ci aveva detto che avremmo potuto incontrare l’uomo del “centro”, questa parola pronunciata a bassa voce e con enorme circospezione che indicava il Comando segreto dei comunisti.

Guardando quell’uomo che mi sembrava senza età pensai: finalmente si fa sul serio. Valentino corrispondeva infatti perfettamente all’immagine che mi ero fatta di un capo comunista: un uomo i cui ordini non erano discutibili. Di cui ci si poteva fidare. Che poteva dirci dove e come cominciare a sparare. E così fu. Qualcuno – credo Lucio Lombardo Radice – aveva garantito per noi tre (Luigi Pintor, Arminio Savioli e io) come nuovi e affidabili possibili “gappisti”. Così, formammo una cellula, cioè quell’unità combattente di base che per le ragioni della sicurezza clandestina poteva avere rapporti con l’insieme della rete solo attraverso una persona. Quella persona era Valentino Gerratana, nome di battaglia “Santo”. Il nostro compito era “rendere la vita impossibile all’occupante”: queste furono le direttive generali che ricevemmo da “Santo” quel giorno.

In quei mesi febbrili e sconvolgenti (per me almeno) io lo rividi – stando ai miei ricordi – forse solo un’altra volta. Poi in una stupenda giornata di sole in una Roma chiassosa e volgare piena di prostitute e di borsari neri, con le strade percorse da traballanti camioncini pieni di gente e dalle camionette americane, lo rincontrai. Eravamo stati convocati dal Partito (entità per me ancora misteriosa) in un grande caseggiato di ferrovieri in viale Regina Margherita, dove abitava uno di noi. Per conoscerci e per festeggiare. È lì che vidi per la prima volta le facce di quei venti giovani sconosciuti che avevano colpito duramente la guarnigione tedesca di Roma, fino all’attentato di via Rasella, e l’avevano costretta sulla difensiva fino a fissare il coprifuoco alle cinque del pomeriggio. Eravamo i componenti del famoso Gap centrale. Un pugno di giovani intellettuali, parecchi dei quali diventeranno poi famosi: Salinari, Calamandrei, Gerratana, Trombadori, Bentivegna, Carla Capponi e altri e altre. Tra costoro c’era anche Marisa Musu, che diventò la prima moglie di Gerratana. Scarsissima la presenza di proletari.

Quei giovani non venivano da Mosca o dall’esilio, ma dalle scuole e dalle università italiane, e ciò che li animava non erano tanto i testi del comunismo (che avremmo letto dopo), ma uno strano impasto ideale e culturale che non si riduceva al mito sovietico e che si era formato negli anni ’30. Era nato in quegli anni un sentimento nuovo, l’antifascismo, che ripensava la grande tradizione democratica dello storicismo italiano e al tempo stesso si mescolava con le esperienze più moderne del Novecento europeo. Dopo il grande cinismo da straniero in patria alla Prezzolini e l’edonismo dannunziano, nasceva una cultura che si chiamò dell’impegno e le cui tracce erano visibili perfino nell’attualismo “gentiliano”. Il mito sovietico contava naturalmente. Ma se quegli anni ’30 furono così importanti è perché vi successe di tutto: l’avvento dei fascismi e gli spettacolari trionfi della pianificazione sovietica, la guerra di Spagna e le prime esperienze socialdemocratiche. Insomma, quell’insieme di cose che avevano alimentato la cosiddetta “guerra civile europea”. È in quegli anni e in quella temperie che le avanguardie giovanili scoprirono il famoso impegno. Così fu anche per Valentino.
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