di Gennaro Lopez
Vi prego di considerare questo intervento non come contributo a carattere storico o teorico, ma come una testimonianza: vi spiego perché. Sono stato, negli anni ’70, segretario di una grande sezione romana del partito e intendo rifarmi a quella esperienza per proporvi alcune considerazioni relative al modo in cui agiva politicamente, socialmente, organizzativamente, la classica istanza di base del Pci. Brevi cenni al contesto sono necessari. La sezione di cui parlo era quella di Pietralata, una delle storiche borgate romane create dal fascismo per trasferirvi coloro che aveva espulso dalle aree “sventrate” del centro storico: un popolo considerato riottoso e da tenere sotto stretta sorveglianza, vista la collocazione contigua alla borgata di ben due caserme dell’esercito. Nei primi anni del dopoguerra, l’immigrazione dall’Abruzzo e dalle regioni meridionali aveva arricchito la popolazione della borgata di nuove e numerose presenze, che avevano rapidamente assimilato il sentimento antifascista dominante. Dando anche man forte a rivendicazioni e lotte per ottenere condizioni di vita dignitose e il rispetto di diritti ora sanciti dalla Costituzione della Repubblica: al lavoro, alla salute, all’istruzione. In tale contesto mette radici l’organizzazione del Pci romano, con una sezione non a caso intitolata al 25 aprile. Radici solide: nelle elezioni si raggiungono e talora si superano percentuali del 70%, fino a dar vita ad una “Casa del popolo”, un vero e proprio centro civico autogestito che, oltre alla sezione del partito, ospita il circolo della FGCI, il circolo ARCI, una polisportiva, un bar, spazi per attività ricreative e culturali, una sala per le assemblee impreziosita da un bell’affresco di Ennio Calabria, a segnalare il rapporto, vitale in quegli anni, tra intellettuali e classe operaia. Bene. Vorrei ora soffermarmi su ciò che definirei come “duplice funzione pedagogica” esercitata dalla sezione del partito. Duplice perché destinata, da un lato, all’interno del partito, ai suoi iscritti, ai suoi militanti, dall’altro lato al di fuori del partito, alla generalità dei cittadini abitanti del quartiere. Si trattava di una pedagogia (quella destinata agli iscritti) ad ampio spettro, agita a più livelli: da quello minimo, di vera e propria alfabetizzazione politica, al livello più impegnativo volto alla formazione / trasformazione del militante in dirigente politico. Con sguardo retrospettivo (all’epoca non me ne rendevo pienamente conto) credo di poter dire che probabilmente era proprio quello il partito pensato da Gramsci e da Togliatti. L’agenda dell’attività politica prevedeva puntuali e ricorrenti scadenze che condizionavano la vita quotidiana del gruppo dirigente, fino ad influire sugli stili di vita dei singoli, con indotta tendenza alla disciplina e all’autodisciplina. Ricorro ad un aneddoto per illustrare il concetto: il Comitato direttivo della sezione si riuniva ogni settimana in un giorno fisso, con presenza obbligatoria per tutti i componenti, ciascuno dei quali era responsabile di un settore di lavoro o di attività specifiche. Accadde che un componente del CD dovette assentarsi (certamente per validi motivi) per tre riunioni consecutive; al suo ritorno fu accolto da un accigliato, anziano compagno con queste parole: “la prossima volta, portaci una tua fotografia, così la attacchiamo al muro e possiamo riconoscerti quando rientri dalle tue assenze!”. Quel rimprovero esprimeva in realtà anche qualcosa di più di un semplice richiamo al senso del dovere, esprimeva la consapevolezza di essere parte di un collettivo la cui funzione dirigente veniva garantita dalla partecipazione attiva di tutti i componenti. Perciò non si trattava di una partecipazione generica, bensì di una partecipazione (quella del gruppo dirigente della sezione) organizzata e disciplinata. In quelle riunioni – era un direttivo numeroso, formato da operai, pensionati, casalinghe, docenti, studenti (una sorta di “blocco sociale” in miniatura) – il segretario introduceva con aggiornamenti sulla situazione politica internazionale, nazionale e locale, proponendo le iniziative da organizzare nei giorni successivi, seguiva un dibattito (a volte di durata estenuante) e infine le conclusioni dello stesso segretario, chiamato ad operare una sintesi che risultasse la più unitaria possibile. Questa ricerca tenace dell’unità interna era il tratto distintivo che maggiormente conferiva autorevolezza al gruppo dirigente. La partecipazione degli iscritti trovava occasioni strutturate nelle assemblee generali e nei congressi di sezione. In questi casi il dibattito veniva concluso da dirigenti della Federazione o del Comitato centrale o della Direzione nazionale, una modalità del tutto coerente col metodo del centralismo democratico: un metodo generalmente considerato (e spesso criticato dagli avversari) come unidirezionale (dal vertice alla base), che andava invece valutato considerandolo (come in effetti era) nel suo andamento bidirezionale (dal vertice alla base e viceversa), affidato quindi alla capacità di ascolto dei gruppi dirigenti, in assenza della quale non avrebbe avuto senso quell’aggettivo “democratico” che qualificava il termine “centralismo”. La comunità degli iscritti trovava, ovviamente, anche altri momenti di incontro: significativo era quello legato alla campagna annuale del tesseramento, che si realizzava attraverso il porta a porta (occasione molto preziosa per chiacchierate a quattr’occhi con compagne e compagni, al fine di condividerne opinioni politiche e problemi di vita quotidiana), una campagna che si concludeva puntualmente con la “festa del tesseramento”, appuntamento fisso di un calendario laico che si dipanava lungo l’anno: il 21 gennaio, l’8 marzo, il 25 aprile, il 2 giugno; ma ci si ritrovava, ahimè, anche nei momenti tristi, quelli degli addii, quando il carro funebre si fermava davanti alla sezione, la bandiera rossa abbrunata, e il segretario dava l’ultimo saluto a chi ci lasciava per sempre. Di fronte a questo sentirsi comunità unita e solidale, anche nella condivisione di un dolore privato, è difficile non riflettere su quanta umanità, con la fine del Pci, sia stata colpevolmente dissipata, dispersa.
E vengo alla seconda “funzione pedagogica” esercitata dal partito, quella che, attraverso l’attività della sezione nel territorio, riguardava la generalità dei cittadini. Essa può riassumersi nella formula: “socializzazione della politica”. Consisteva, cioè, in azioni mirate a rendere il cittadino protagonista attivo e consapevole nell’impegno a cambiare lo stato di cose presente, a partire dal proprio quartiere e dal proprio posto di lavoro. Si trattava di promuovere, dunque, partecipazione democratica dando vita ad esperienze collettive, che rompessero il guscio dell’isolamento individuale ed autoreferenziale, tipico della condizione periferica e sempre foriero di orientamenti di segno qualunquista e reazionario, come abbiamo potuto constatare, purtroppo, negli anni più recenti. Socializzare la politica significava, ad esempio, organizzare – insieme con altre realtà politiche e sociali del territorio – l’attività e le lotte di un comitato di quartiere per obiettivi legati ai servizi sociali, all’ambiente, alla qualità della vita; significava (altro esempio) farsi parte attiva nel sostegno all’esperienza degli organi collegiali della scuola, sollecitando e aggregando i genitori nella formazione della loro lista elettorale; significava (ancora) collaborare al buon funzionamento del comitato di gestione dell’asilo nido o del consultorio familiare. Insomma, il partito che ho vissuto era quello che faceva partire dal territorio e dai luoghi di lavoro la costruzione di un blocco sociale e la stessa politica delle alleanze (mi piace ricordare che nel comitato di quartiere coinvolgemmo la locale sezione della DC e la Parrocchia); era una rete di relazioni umane, che garantiva la tenuta del tessuto democratico del quartiere e la sezione del Pci era, su questo terreno, la presenza politica con più filo da tessere.
Vorrei concludere con brevi cenni a due attività tipiche della sezione, che pure inserirei tra quelle che si possono ascrivere a questa seconda “funzione pedagogica”. Anzi, direi che entrambe possono rappresentare un punto d’incontro, di sintesi tra le due funzioni pedagogiche. Si tratta dell’organizzazione delle Feste de l’Unità e della diffusione del medesimo giornale. La Festa de l’Unità rappresentava l’evento capace di mobilitare l’intero quadro attivo della sezione, la sua preparazione e, ancor più, la sua gestione, erano palestre in cui si misuravano e si confrontavano le più diverse competenze: la felice fusione che ne derivava, tra l’elemento ludico e quello politico, favoriva l’interesse e il coinvolgimento dell’intero quartiere e dunque lo svilupparsi di incontri, di relazioni, di rapporti umani. Analogo obiettivo “relazionale” aveva la diffusione dell’Unità, la domenica mattina: non tanto quella fatta per strada, ai semafori o agli incroci, ma soprattutto quella fatta porta a porta. Sì certo, poteva capitare (e capitava!) che dopo aver aperto faticosamente la porta di casa, chiusa con otto mandate, comparisse qualcuno visibilmente assonnato e ancora in pigiama che ti diceva: ‘no, grazie, l’ho già comprata’! Ma anche questa, come altre risposte, entrava a far parte della riflessione, del bilancio politico che si cercava di trarre a fine mattinata: quante copie vendute? Che cosa si dice in giro? Quali sentimenti esprimono le persone? Al centro di quell’attività non erano dunque gli introiti del giornale (certo, anche quelli contavano), ma ancora una volta la relazione umana, interpersonale, con tutta la sua ricchezza, con tutto il suo significato e valore politico. E davvero non vedo, oggi, piattaforma informatica o altro strumento di comunicazione a distanza che possa sostituirla. Neppure come surrogato.
Concludo. Oggi sarebbe assurdo, oltre che anacronistico, riproporre quella forma-partito, quegli schemi e quegli stili organizzativi. Tuttavia, ricordare e studiare quell’esperienza penso ci aiuti a riproporre la necessità che la politica del nostro tempo ripensi il proprio rapporto col territorio e con la propria, totalmente smarrita, funzione pedagogica.