“Berlinguer e l’Europa, i fondamenti di un nuovo Socialismo” – Roma 06 marzo 2015
L’ambizione politica del Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli e – molto più in profondità – la tenace battaglia di Enrico Berlinguer per portare la lotta per la trasformazione sociale e politica in una dimensione europea, la sola ove si riteneva concretamente possibile difendere efficacemente la pace, contrastare il pericolo di ritorno della guerra fredda, contrastare il pericolo dell’olocausto nucleare, promuovere su basi inedite lo sviluppo della democrazia, trovavano ragione, alla fine degli anni Settanta, in una catena di circostanze storiche molto ben definite e dio sa quanto lontane, ad oltre trent’anni di distanza, dall’attuale stato delle cose. La presenza dell’Urss, la liquidazione dei fascismi in Grecia, in Portogallo e in Spagna e, soprattutto, la forza ancora grande del Partito comunista italiano, nonché lo straordinario prestigio internazionale del suo segretario generale, l’interlocuzione feconda con Willy Brandt e Olof Palme, la stessa, se pur contraddittoria e altalenante tessitura dell’eurocomunismo intrapresa con i partiti comunisti francese e spagnolo per l’affermazione di una via originale al socialismo, diversa dal modello sovietico e dallo smottamento mercatista delle socialdemocrazie passate per la cruna dell’ago di Bad Godelsberg, erano fattori che schiudevano la possibilità di una nuova pagina della storia d’Europa e del mondo. Una pagina potenzialmente capace di rompere definitivamente lo scenario bipolare della guerra fredda e di portare la lotta per l’egemonia delle classi lavoratrici, del lavoro, ad uno stadio mai prima raggiunto in Occidente.
Dalla scomparsa di Berlinguer e dal quadro sopra assai sommariamente tratteggiato ci separa tuttavia un’intera era politica, al punto che l’attuale costruzione europea, esclusivamente plasmata sui parametri di convergenza monetaria, priva di vera Costituzione e via via caratterizzatasi attraverso i patti che ne formano l’impianto sociale, ideologico, giuridico iperliberista (lungo una traiettoria che va da Maastricht al fiscal compact) e che veicolano una politica apertamente reazionaria, sarebbe difficilmente riconoscibile dall’europeismo progressivo e socialista che si fece a suo tempo banditore dell’unificazione politica continentale. Ciò malgrado già allora si avvertissero le crepe vistose di una Comunità europea in formazione (sebbene ancora lontana dal terrificante giogo oggi imposto ai popoli del continente), pur sempre nata sotto l’egida politica del capitale, come testimoniano gli interventi pronunciati al parlamento europeo dal segretario del Pci fra il ’79 e l’ ’83 del secolo scorso.
Negli anni a seguire, la Costituzione italiana, la più avanzata – socialmente e politicamente – fra quelle nate dalla sconfitta del nazismo e dei fascismi, non diviene più l’elemento dinamico, propulsivo, di una battaglia capace di varcare i confini nazionali ma, al contrario, essa subisce un progressivo snaturamento, per l’effetto combinato dell’eclissi e poi dell’eutanasia del Partito comunista italiano, improvvidamente trascinato dal suo gruppo dirigente post-berlingueriano “sotto le macerie del muro di Berlino” e dell’altrettanto progressivo, radicale smantellamento di tutte le più importanti conquiste del lavoro realizzate nel corso di impetuose stagioni di conflitto sociale e di classe.
E’ di primaria importanza soffermarsi su questi due elementi che marchiano di sé il tempo presente, per capire come e sulla base di quale analisi dare fondamento teorico e spessore politico allo sforzo di riorganizzare, in Italia, un movimento di classe uscito letteralmente devastato dalle vicende degli ultimi tre decenni.
L’analisi da cui dovrebbe in realtà prendere le mosse ogni scelta politica razionale ed efficace non può accontentarsi di una critica rivolta al liberismo “in generale”.
Una tesi che ha libero corso nella sinistra è quella secondo cui il processo di unificazione europea non avrebbe portato a compimento il suo più ambizioso progetto politico perché rimasto a metà del guado e perché diventato, via via, preda degli spiriti animali del capitalismo. Per cui oggi si tratterebbe semplicemente di costringere il manovratore a venire a più equi patti, introducendo qualche variante negli ingranaggi esistenti, qualche artifizio economicistico, qualche espediente di tecnica monetaria capace di mutarne l’indirizzo di fondo.
Il fatto è che l’Unione europea è prima di tutto la forma politica di un rapporto sociale e, precisamente, di un rapporto sociale imperniato sul dominio del capitale finanziario: l’architettura monetaria che esso ha posto al suo fondamento (e che trova nell’euro non già un sottoprodotto fenomenico, ma il proprio funzionale apparato strumentale) serve appunto a stabilizzare il potere dell’oligarchia liberista che governa l’Europa.
L’ambizioso progetto è quello di liquidare in radice il welfare novecentesco, ridurre strutturalmente i salari a livello di sussistenza, consegnare alla marginalità le forme di aggregazione sociale e politica di impronta classista, con l’obiettivo di rendere strutturale l’estrazione di plusvalore assoluto dal lavoro vivo, condizione necessaria in una fase storica in cui la composizione organica e la stupefacente concentrazione del capitale hanno raggiunto un livello tale da non riuscire ad offrire agli investimenti un adeguato rendimento.
Siamo cioè di fronte ad una vera e propria ristrutturazione della formazione economico-sociale capitalistica (nell’accezione marxiana) che coinvolge la struttura economica, cioè il modello di accumulazione, i rapporti sociali e di proprietà, la sovrastruttura politica, i modelli istituzionali ed elettorali e l’ideologia che tiene insieme l’impasto.
Guardiamo ora alla situazione italiana, con un necessario, impietoso atto di realismo, dunque senza sconti autoassolutori per noi stessi, premessa necessaria di ogni “ripartenza”.
Tradizionalmente, sono tre le fasi attraverso le quali matura, si struttura ed evolve il processo di coalizione del mondo del lavoro: una prima fase, pre-politica, in cui elementi del proletariato moderno riconoscono la necessità di unirsi in sindacati a fini di difesa dei propri interessi immediati nei confronti del capitale; una seconda fase, in cui nasce il partito politico, che il proletariato si dà per superare la dimensione economico-corporativa e per porsi obiettivi che investono l’orizzonte politico generale della convivenza statuale, senza tuttavia esprimere una complessiva e diversa idea di società; una terza fase, quella in cui il proletariato non è più solo “parte”, ma impara a guardare al “tutto” dal proprio “punto di vista storico” e guadagna la capacità di direzione egemonica nei confronti dell’intera società. E’ la fase in cui il proletariato si struttura in partito rivoluzionario.
Ebbene – e mi scuso per questa un po’ troppo scolastica semplificazione – nell’Italia che ha conosciuto il più grande partito comunista dell’Occidente e il più forte e originale movimento sindacale d’Europa, di questa formidabile potenza che ha assicurato per decenni la crescita democratica e sociale del Paese, non è rimasto, letteralmente, più nulla.
Non certo il partito rivoluzionario, essendo la sinistra “radicale” ridotta a dimensioni alquanto modeste; non c’è neppure una forza che ne tuteli/rappresenti gli interessi sul piano politico (la deriva culturale e politica liberista del Partito democratico ha da tempo superato le soglie dell’irreversibilità); sopravvive solo nominalmente il sindacato (salvo generose ma isolate avanguardie), incapace di rendersi interprete degli interessi immediati della classe, perché ridotto all’impotenza o, nella migliore delle ipotesi, protagonista di sussulti privi di respiro e continuità.
Va da sé che il compito da svolgere per la ricostruzione di una sinistra di classe innervata nella galassia del lavoro eterodiretto deve misurarsi con lo stato di anomia, passività e spoliticizzazione in cui sono state ridotte le classi subalterne per abbandono del campo o “manifesta incapacità” dei loro esangui gruppi dirigenti.
E’ una fatica che non lascia spazio all’improvvisazione e all’illusione di resurrezioni palingenetiche.
Questo comporta che non si aggiri con meri espedienti propagandistici la difficoltà ricorrendo a schemi preconfezionati e che si sappia partire dalla realtà “effettuale”, scansando la pretesa di surrogare l’analisi concreta e l’ingaggio sociale con “trovate”di breve momento o di fare della sola ideologia il collante di masse popolari che la crisi ha ricacciato in uno stato di indigenza o di semi-povertà, alle quali si devono offrire risposte immediate.
Ma se la costruzione di reti sociali di mutualismo solidale necessarie per fronteggiare l’attacco selvaggio al welfare e alla privatizzazione dei servizi sociali devono rappresentare un primo, elementare quanto essenziale elemento di coesione sociale ed organizzazione, occorre tuttavia non fermarsi qui per elaborare un programma sociale e politico credibile, dando prova di saperne prevedere l’impatto e le conseguenze di ordine nazionale ed europeo.
Si tratta allora di compiere un primo grande sforzo soggettivo: quello di superare l’inveterata coazione alla divisione e alla diaspora della sinistra, organizzata e non, per promuovere, fuori e contro ogni dilettantismo parolaio, una grande discussione nazionale per costruire un programma condiviso di svolta economica e sociale.
Si badi, non un prontuario buono per la propaganda elettorale e poi da dimenticare, ma un programma da perseguire con convinzione, prima di tutto nella pratica sociale.
Ecco, di seguito, per cominciare il confronto, alcuni punti prioritari sui quali, si potrebbe costruire una grande coalizione sociale e politica capace di intercettare ampi consensi e mobilitare nella lotta altrettanto vasti strati popolari:
a) difesa dei salari, attraverso il ripristino della cogenza dei contratti nazionali di lavoro e la reintroduzione di un sistema di indicizzazione delle retribuzioni al costo della vita (scala mobile); b) reintegrazione dei diritti del lavoro espropriati dalla crociata anti-operaia in corso, a partire dallo Statuto dei lavoratori nell’originaria versione del 1970, rafforzato da elementi di “tutela reale” per tutte le forme di lavoro eterodiretto; c) abolizione del ginepraio di forme contrattuali stratificatesi nel tempo per l’azione convergente di governi di centrodestra e di centrosinistra (dal “pacchetto Treu al jobs act, passando per la “legge 30”) e ripristino del contratto a tempo indeterminato come forma canonica del rapporto di lavoro; d) riduzione generalizzata dell’orario di lavoro; ricostruzione di un regime previdenziale pubblico solidaristico e a ripartizione; e) nuove politiche fiscali che restituiscano progressività all’imposta sul reddito e prevedano una tassa strutturale sui grandi patrimoni; f) un piano nazionale per il lavoro fondato su massicci investimenti nella rete infrastrutturale primaria del paese; g) nazionalizzazione del sistema bancario e dei principali asset industriali; h) rinegoziazione delle regole che disciplinano gli scambi commerciali e i movimenti di capitale.
Si tratta, insomma, di costruire le premesse per un’uscita da sinistra dalla crisi e riscattare l’Europa dalla tagliola della finanza e dei proprietari universali che stanno succhiando il sangue dei popoli.
Si può obiettare – e certo si obietterà – che anche solo un quarto di questo programma entrerebbe in rotta di collisione con le regole capestro fissate dai patti di convergenza europei. E questo è certamente vero. Ma, allora, delle due l’una: o si resta prigionieri in quel recinto, e allora ogni proposito, anche il più tenuemente riformista, è destinato ad essere frustrato, oppure si deve mettere a preventivo la fuoriuscita da quel meccanismo infernale, del resto disegnato proprio per cambiare in senso apertamente reazionario i rapporti sociali.
Fuoriuscita – beninteso – da “quel” meccanismo forgiato dal capitale e dalle classi dominanti, non fuoriuscita dall’Europa, non, dunque, rinunciando a porre al livello continentale il tema della trasformazione bensì rafforzandolo attraverso una battaglia che riacquisti spessore, significato, autonomia al livello nazionale.
Si tratta, in sostanza, di condividere con i movimenti che nei vari paesi si battono contro l’austerity l’obiettivo di liberare l’Europa dalla camicia di forza che la inchioda ad una regressione della civiltà senza via d’uscita e dalle conseguenze incalcolabili: o una nuova rivoluzione passiva e una definitiva restaurazione oligarchica o, peggio ancora, l’ecatombe democratica e il fascismo.
Si può altresì obiettare – e anche in questo caso le ragioni non mancano – che per fare queste cose occorrono altri rapporti di forza, e che siamo lontani dalla capacità di mettere in campo una forza d’urto quale sarebbe necessaria per perseguire un progetto di simile portata.
Rispondo rammentando che con questa piattaforma potremo però rivolgerci sul serio ai proletari di questo paese e alle forze intellettuali non compromesse con la vulgata corrente, usando argomenti, parole, programmi, proposte che nessun altro può, sa, vuole utilizzare. Proposte che abbiano in sé la forza di rilanciare le lotte e dare il senso di una mobilitazione nazionale, ma non nazionalista, solidale, ma non corporativa, europeista, ma non prigioniera dei dogmi del monetarismo liberista.
Ne abbiamo la forza? Nella situazione presente, no. Ma avere una linea chiara oppure non averla non è la stessa cosa.
Del resto, una posizione attendista, o l’illusione di potere negoziare, nel quadro delle compatibilità date, significativi miglioramenti produrrebbero tre effetti massimamente negativi: a) consegnerebbero la protesta contro l’austerity alla demagogia parafascista di Matteo Salvini, consentendo alla destra più reazionaria di riscuotere la rappresentanza di ampi strati popolari e di ridurre la dialettica politica italiana ad un duello fra la “nuova” Lega in versione lepenista e il Partito democratico organico al liberismo europeo; b) genererebbero, di fronte ad una deflagrazione dell’euro, la peggiore delle condizioni, perché il ritorno alla moneta nazionale – senza adeguate contromisure – rovescerebbe sui lavoratori, sui disoccupati, sugli strati più deboli della popolazione uno tsunami sociale di proporzioni devastanti; c) contribuirebbero all’isolamento della Grecia di Syriza, che invece di schiudere le porte di un’altra Europa si ritroverebbe sola, stritolata – come già appare – fra le ganasce della tenaglia dei poteri forti europei.