11 marzo 1947
Presidente. È iscritto a parlare l’onorevole Togliatti. Ne ha facoltà.
Togliatti. Onorevole Presidente, signore, onorevoli colleghi, non è per mio desiderio, né per merito o colpa mia, ma unicamente perché così ha voluto la sorte, che intervengo alla fine di questo dibattito. Debbo a questo fatto di avere potuto seguire tutta la discussione preliminare sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana che qui si è svolta, di averne potuto cogliere i diversi momenti, dagli interventi dei colleghi i quali si sono elevati veramente a un’altezza degna del tema che sta davanti a noi, degna del compito che ci siamo prefisso, sino a quelli dei colleghi che hanno preferito soffermarsi sovra punti particolari, talora anche di importanza secondaria.
In questo momento però; se faccio uno sforzo per rievocare l’assieme del dibattito, non riesco a sfuggire a un senso di perplessità, e sorge in me questa domanda: siamo noi veramente riusciti, non come singoli, ma come Assemblea — la prima grande Assemblea democratica italiana, eletta sulla scala nazionale per discutere la Costituzione da darsi al Paese — siamo noi effettivamente riusciti ad afferrare e a porre nel necessario rilievo la prima e principale questione che sta davanti a noi e che dibattiamo davanti al popolo? Quale sia questa questione ritengo sia chiaro per tutti. La domanda alla quale dobbiamo dare una risposta è questa: Quale Costituzione dobbiamo dare all’Italia? È evidente: quella di cui l’Italia, in questo momento particolare, determinato, concreto, della propria storia, ha bisogno. Ma di quale Costituzione ha bisogno oggi l’Italia? E qui la questione che ho posto è strettamente collegata con un’altra, la più profonda, a cui hanno cercato di dare risposta altri oratori prima di me.
Perché facciamo noi una Costituzione nuova? Solo se avremo dato a questi interrogativi, che si pongono in questo momento, non soltanto a noi, ma a tutto il popolo, una risposta esatta e concreta, solo allora riusciremo a dare un orientamento giusto alle soluzioni che stiamo per prendere, tanto per quello che si riferisce ai problemi generali di ordine costituzionale, quanto per quello che si riferisce alle singole, concrete questioni che incontreremo nel corso della discussione di tutto il progetto.
L’onorevole Nitti, cercando di rispondere alla domanda ch’io mi pongo, ha detto che dobbiamo fare una Costituzione nuova perché siamo dei vinti, e tutti i popoli vinti sono costretti, quasi per una legge della storia, a darsi Costituzioni nuove.
È vero; ma non è tutta la verità. Direi che non è la verità espressa in modo preciso, intiero, in modo che aderisca veramente alla situazione odierna del Paese. In realtà, il principio che le Costituzioni si debbano cambiare o si cambino dopo le sconfitte, non è valido in modo assoluto, né fu sempre valido nel passato. Gli esempi si potrebbero portare numerosissimi. Questo principio, però, si afferma in un periodo determinato della storia, e precisamente si afferma via via che si consolida, nella vita dei popoli il principio democratico, del governo del popolo, per il popolo, attraverso il popolo. Direi anzi che anche dopo l’affermazione del principio democratico come cardine dell’ordinamento degli Stati, vi sono casi, e precisamente in quei paesi che non hanno un ordinamento conseguentemente democratico, dove la sconfitta non lascia tracce profonde. Si potrebbe citare il caso dell’Impero austroungarico, che non fu tratto a catastrofe, ma forse uscì rafforzato dalla sconfitta del 1866. Ma quando il principio democratico si afferma e mette solide radici nella coscienza dei popoli e nella realtà della vita nazionale e internazionale, allora il principio richiamato dall’onorevole Nitti ha valore, e ha valore per un motivo molto semplice: perché si afferma in questo momento il principio dalla responsabilità dei popoli per la loro storia e il loro destino. Quanto più vivamente l’esigenza democratica è sentita, tanto più è sentita questa responsabilità, per cui accade alle volte ad una stessa generazione di essere spettatrice di un dramma storico ed esecutrice dei giudizi di condanna che ne derivano nella coscienza popolare. Allora veramente, secondo il profondo motto del filosofo e poeta, «die Weltgeschichte wird Weltgericht», la storia universale si fa giudizio universale; e si fa giudizio universale, proprio perché i popoli si sentono responsabili del proprio destino, verso se stessi e verso i propri figli.
È vero quello che ha detto l’onorevole Nitti: noi siamo responsabili del futuro verso i nostri figli, verso i nostri nipoti. Per questo facciamo una nuova Costituzione, cioè vogliamo fondare un ordinamento costituzionale nuovo, tenendo conto di quello che è accaduto, cioè tirando le somme di un processo storico e politico che si è concluso con una catastrofe nazionale.
Questa catastrofe, signori, è stata in pari tempo il fallimento di una classe dirigente, e questa è dunque la vera questione, che sta davanti a noi e che ci deve orientare in tutto il dibattito costituzionale. Il popolo italiano infatti oggi non può [fare] a meno di chiedersi se questa sconfitta che abbiamo subìto, questo disastro nel quale ci hanno gettato, era qualche cosa di inevitabile, legata a uno di quei cataclismi che travolgono popoli e regimi, come furono nel passato le invasioni barbariche, e li travolgono alle volte nonostante tutti gli sforzi che essi possano fare per salvarsi. La risposta non è dubbia. Questa sconfitta non era inevitabile. Non ci troviamo di fronte a uno di quei cataclismi. Ci troviamo di fronte a una catastrofe che non possiamo non considerare legata a una politica determinata e conseguenza di essa, e questa politica fu voluta da una classe dirigente, la quale non seppe né vedere, né prevedere, perché anche quando assisté alla distruzione di beni, e materiali e morali, cui è legata tutta la vita della nazione, oppure quando era in grado di prevedere che verso questa distruzione si precipitava in modo fatale, lasciò fare e fu complice, perché sopra gli interessi di tutti fece prevalere l’interesse proprio egoistico, di casta, di conservazione di determinate strutture politiche, economiche, sociali. La vecchia classe dirigente italiana, nel, momento che compiva questo errore fatale, si rivelava come classe non più nazionale, perché nazionale è soltanto quella classe che quando difende le proprie posizioni e afferma se stessa, difende e afferma gli interessi di tutti gli uomini e, vorrei dire, di tutta l’umanità. È da questo fatto storicamente incontrovertibile che noi dobbiamo, trarre, oggi, tutte le conseguenze che ne derivano.
Colleghi, io sento rispetto, e anche più che rispetto, per gli uomini che siedono in quest’aula e che appartengono ai gruppi che furono parte integrante di questa vecchia classe dirigente. Non ho nessun ritegno a rivolgere loro, per certi aspetti della loro attività, l’appellativo di maestri, sia con la «m» maiuscola o minuscola, non importa. Sono sempre disposto ad ascoltare i loro consigli; però non posso non sentire e non affermare che anche questi uomini portano una parte della responsabilità per la catastrofe che si è abbattuta sul popolo italiano. Perché voi avevate occhi e non avete visto. Quando si incendiavano le Camere del lavoro, quando si distruggevano le nostre organizzazioni, quando si spianavano al suolo le cooperative cattoliche, quando si assaltavano i municipi con le armi, o si faceva una folle predicazione nazionalistica, non dico che voi foste complici diretti, ma senza dubbio eravate in grado di dire quelle parole che avrebbero potuto dare una unità a tutto il popolo, animandolo a una resistenza efficace contro quella ondata di barbarie; voi non foste all’altezza di questo compito; e non è per un caso che non avete trovato gli accenti che allora era necessario trovare.
Avete pensato che si trattasse di problemi di secondaria importanza, di tollerabili «esuberanze», oppure di metodi che vi sembrava lecito fossero adoperati per ridurre alla ragione i «sovversivi». Ma chi, sono i sovversivi? I sovversivi sono la nuova classe dirigente che avanza, che conquista le proprie posizioni, che afferma i propri ideali, che vuole il posto che le spetta nella direzione della vita pubblica e dello Stato, che vuole imprimere una vita nuova a tutta la nazione. È per arrestare la marcia in avanti della nuova classe dirigente, uscita dalle classi lavoratrici, che voi avete lasciato che il fascismo compisse la sua criminale opera di distruzione dei beni più preziosi della Nazione. Questa è la vostra responsabilità e noi non possiamo non sentirla. Forse, del resto, la sentite anche voi, e di qui deriva quella vena di amarezza che colgo nei vostri discorsi. Né io ho posto, né desidero approfondire questa questione a titolo di polemica personale, ma perché intendo che il problema della responsabilità di un regime e quindi di una classe dirigente sia posto, e domini tutto questo dibattito.
Per questo, quando ci si propose di tornare al precedente ordinamento costituzionale rispondemmo di no; per questo, onorevole Rubilli, abbiamo voluto la Costituente, e davanti alla Costituente sta ora nella sua interezza la questione più ardente e urgente della nostra vita nazionale, quella della responsabilità di tutto un ordinamento politico e sociale, a cominciare dai suoi aspetti costituzionali.
Per risolvere questa questione, che cosa abbiamo fatto sinora? Abbiamo, prima di tutto, abbattuto l’istituto monarchico e fondato un regime repubblicano. Guai se non lo avessimo fatto! Realmente, onorevole La Pira, in questo caso avremmo costruito sulla sabbia la nuova Costituzione, perché l’avremmo costruita sopra una menzogna. Qualunque Costituzione avessimo fatto, se fosse stata la Costituzione di quella monarchia che fu responsabile della nostra rovina, sarebbe stata una mostruosità morale, qualche cosa che non avrebbe potuto resistere in nessun modo, non dico alle critiche degli uomini, ma alla critica delle cose stesse.
Alcuni dei principali responsabili della nostra catastrofe sono stati duramente puniti. Sono scomparsi. Con altri abbiamo voluto essere magnanimi per non aprire lacerazioni troppo profonde nel corpo della Patria. La questione della responsabilità rimane però aperta per quello che si riferisce alla classe dirigente come tale. Rimane aperto il problema dell’avvento di una nuova classe dirigente alla testa di tutta la vita nazionale. La nuova Costituzione deve essere tale che per lo meno apra la via alla soluzione di questo problema.
Ma accanto alla questione della responsabilità si pone, immediatamente, quella delle garanzie per l’avvenire. Vogliamo che quello che è avvenuto una volta non possa più ripetersi. Non vogliamo più essere lo zimbello del giuoco, più o meno aperto, più o meno palese, di gruppi che vorrebbero manovrare a loro piacere la vita politica italiana perché concentrano nelle loro mani le ricchezze del Paese. Questo è avvenuto nel passato. Vogliamo evitare continui nell’avvenire. A questo scopo chiediamo anche delle garanzie costituzionali.
Per questo, onorevole Lucifero, vogliamo non una Costituzione afascista, ma antifascista. Quando diamo questo appellativo alla Costituzione che stiamo per fare, intendiamo precisamente dire che la Costituzione ci deve garantire, per il suo contenuto generale e per le sue norme concrete, che ciò che è accaduto una volta non possa più accadere, che gli ideali di libertà non possano più essere calpestati, che non, possa più essere distrutto l’ordinamento giuridico e costituzionale democratico, di cui gettiamo qui le fondamenta. Ma la sola garanzia reale, seria, di questi, è che alla testa dello Stato avanzino e si affermino forze nuove, le quali siano democratiche e rinnovatrici per la loro stessa natura. Tali sono, o signori, le forze del lavoro!
Questa ritengo sia la sola impostazione concreta possibile che si possa dare al problema della nostra nuova Costituzione.
Questa impostazione, come vedete, lascia da parte le ideologie. Onorevole Lucifero, ella si è meravigliato che io abbia affermato, in una riunione della prima Sottocommissione, che desideravamo una Costituzione che mettesse da parte le ideologie.
Lucifero. Me ne sono compiaciuto, onorevole Togliatti.
Togliatti. Bene; ma, veda, onorevole Lucifero, per noi questa è una cosa elementare. L’ideologia non è dello Stato, l’ideologia è dei singoli o, se ella vuole, è dei partiti, e anche non sempre, perché posso concepire un partito nel quale confluiscano differenti correnti ideologiche per l’attuazione di un unico programma. Non impostazione ideologica, dunque, ma impostazione politica concreta, derivante da una visione esatta della situazione in cui si trova oggi l’Italia.
Perciò noi non rivendichiamo una Costituzione socialista. Sappiamo che la costruzione di uno Stato socialista non è il compito che sta oggi davanti alla Nazione italiana. Il compito che dobbiamo assolvere oggi non so se sia più facile o più difficile, certo è più vicino. Oggi si tratta di distruggere fino all’ultimo ogni residuo di ciò che è stato il regime della tirannide fascista; si tratta di assicurare che la tirannide fascista non possa mai più rinascere; si tratta di assicurare l’avvento di una classe dirigente nuova, democratica, rinnovatrice, progressiva, di una classe dirigente la quale per la propria natura stessa ci dia una garanzia effettiva e reale, che mai più sarà il Paese spinto per la strada che lo ha portato alla catastrofe, alla distruzione.
In questa visuale debbonsi considerare e io considero tutte le questioni costituzionali che stanno davanti a noi e che dibatteremo nel corso dei prossimi mesi.
Lo sforzo che vorrei fare all’inizio, in questo dibattito che giustamente fu definito preliminare, è quello di individuare quali sono i beni sostanziali che la Costituzione deve assicurare al popolo italiano, beni dei quali non si può prescindere, se si vuole raggiungere quell’obiettivo fondamentale che ho cercato di fissare e che devono essere o instaurati, o restaurati. Credo che questi beni siano tre: il primo è la libertà e il rispetto della sovranità popolare; il secondo è l’unità politica e morale della Nazione; il terzo è il progresso sociale, legato all’avvento di una nuova classe dirigente. Se noi riusciremo a fare una Costituzione la quale garantisca alla Nazione questi tre beni, allora non avremo fatto, com’è stato detto, una Costituzione interlocutoria, ma una Costituzione che rimarrà effettivamente come il libro da porsi accanto all’arca del patto, una Costituzione che illuminerà e guiderà il popolo italiano per un lungo periodo della sua storia. Le esigenze che ho indicato non sono infatti qualcosa di transitorio, ma sono esigenze permanenti e concrete, corrispondenti alla situazione storica ben determinata che sta davanti a noi.
Né io ritengo sia necessario, per assolvere al compito da me indicato, fare quella che è stata chiamata una Costituzione di compromesso. Che cosa è un compromesso? Gli onorevoli colleghi che si sono serviti di questa espressione, probabilmente l’hanno fatto dando ad essa un senso deteriore. Questa parola non ha però in sé un senso deteriore; ma se voi attribuite ad essa questo senso, ebbene, scartiamola pure. In realtà, noi non abbiamo cercato un compromesso con mezzi deteriori, per lo meno in quella parte della Costituzione alla cui elaborazione io ho cercato di partecipare attivamente. Meglio sarebbe dire che abbiamo cercato di arrivare ad una unità; cioè di individuare quale poteva essere il terreno comune sul quale potevano confluire correnti ideologiche e politiche diverse, ma un terreno comune che fosse abbastanza solido perché si potesse costruire sopra di esso una Costituzione, cioè, un regime nuovo, uno Stato nuovo e abbastanza ampio per andare al di là anche di quelli che possono essere gli accordi politici contingenti dei singoli partiti che costituiscono, o possono costituire, una maggioranza parlamentare. Ritengo questo sia il metodo che doveva e deve essere seguìto se si vuol fare opera seria, e sono lieto che immediatamente prima di me abbia parlato onorevole La Pira; il cui discorso, nonostante le frequenti citazioni latine, io ho ascoltato con appassionato interesse, perché mi è parso che nella prima parte della sua esposizione l’onorevole La Pira abbia dato un contributo molto efficace per scoprire non solo quale è la via per la quale noi siamo arrivati a questo tipo di Costituzione e a determinate formulazioni concrete, ma anche quale è la via per la quale siamo arrivati a quella unità che ci ha permesso di dettare queste formulazioni.
Effettivamente c’è stata una confluenza di due grandi correnti: da parte nostra un solidarismo — scusate il termine barbaro — umano e sociale; dall’altra parte un solidarismo di ispirazione ideologica e di origine diversa, il quale però arrivava, nella impostazione e soluzione concreta di differenti aspetti del problema costituzionale, a risultati analoghi a quelli a cui arrivavamo noi. Questo è il caso dell’affermazione dei diritti del lavoro, dei cosiddetti diritti sociali; è il caso della nuova concezione del mondo economico, non individualistica né atomistica, ma fondata sul principio della solidarietà e del prevalere delle forze del lavoro; è il caso della nuova concezione e dei limiti del diritto di proprietà. Né poteva fare ostacolo a questo confluire di due correnti, le quali partono da punti ideologicamente non eguali, la concezione, pure affermata dall’onorevole La Pira, della dignità della persona umana come fondamento dei diritti dell’uomo e del cittadino. Perché questa concezione avrebbe dovuto fare ostacolo? Al contrario, vi era qui un altro punto di confluenza della nostra corrente, socialista e comunista, colla corrente solidaristica cristiana. Non dimenticate infatti che socialismo e comunismo tendono a una piena valutazione della persona umana: a quella piena valutazione della persona umana, che noi riteniamo non possa essere realizzata, se non quando saranno spezzati i vincoli della servitù economica, che oggi ancora opprimono e comprimono la grande maggioranza degli uomini, i lavoratori.
Signori, se questa confluenza di due diverse concezioni su un terreno ad esse comune volete qualificarla come «compromesso», fatelo pure. Per me si tratta, invece, di qualcosa di molto più nobile ed elevato, della ricerca di quella unità che è necessaria per poter fare la Costituzione non dell’uno o dell’altro partito, non dell’una o dell’altra ideologia, ma la Costituzione di tutti i lavoratori italiani e, quindi, di tutta la Nazione.
Non escludo che sia stato seguito in qualche caso anche un metodo diverso, il metodo che chiamerei del compromesso deteriore, di quel compromesso che consiste nel lavorare non più sulle idee e sui principî, o sulle loro deduzioni e conseguenze, ma nel lavorare esclusivamente sulle parole: nel togliere una parola e metterne un’altra, la quale direbbe approssimativamente lo stesso, ma fa meno paura, oppure può essere interpretata in altro modo; nel sostituire così la confusione alla chiarezza. Questo metodo da altri è stato seguito; io ho cercato di non seguirlo mai. È certo che nella redazione definitiva del testo costituzionale in alcuni punti si sente l’influenza di questo metodo deteriore di compromesso; ed alcune affermazioni che nella redazione primitiva delle Sottocommissioni erano più chiare, più semplici, sono poi state direi lavate in modo tale, che hanno perduto quel rilievo che avrebbero dovuto avere.
Ad esempio, per l’articolo 1 avevamo proposto una formula secondo la quale si affermava che la sovranità risiede nel popolo ed i poteri emanano dal popolo. Non è giusto dire, come è detto nel testo definitivo, che la sovranità emana dal popolo: è il potere che emana dal popolo. È evidente che qui si è cercata una formula di compromesso deteriore, a scapito della chiarezza e della precisione. Lo stesso si è fatto in una serie di altre formulazioni. Non voglio tediarvi, ma avrei molti esempi da citare; li ricorderemo nel seguito della discussione. Tutti gli articoli relativi ai diritti sociali sono stati rielaborati con questo deteriore spirito di compromesso verbale. Anche negli articoli relativi all’ordinamento regionale si trova un errore di questo genere. Mentre la Sottocommissione aveva giustamente proposto: «Il territorio della repubblica è ripartito, ecc…»; il testo riveduto dice: «La Repubblica si riparte in Regioni e Comuni». Questa formula non è conciliabile con quella secondo la quale la Repubblica è indivisibile. È evidente che anche vi è stato, uno sforzo di compromesso in senso deteriore, ed io sarò d’accordo con tutti coloro che proporranno di ritornare, in tutti questi casi, a formule più precise, che abbiano maggiore rilievo, siano più incisive e dicano chiaramente quello che vogliono dire.
Oserei dire che nel nostro lavoro non ci hanno dato grande aiuto i giuristi. Non se l’abbiano a male i colleghi che esercitano questa nobile professione, che del resto avrebbe potuto anche essere la mia, se la politica non mi avesse traviato.
Molte formulazioni del progetto sono certamente deboli, perché giuridicamente non siamo stati bene orientati e effettivamente fu un errore non includere nella Commissione i rappresentanti della vecchia scuola costituzionalista italiana.
La realtà è però che negli ultimi venti o trenta anni la scienza giuridica si è staccata dai principî della nostra vecchia scuola costituzionale. In fondo quali erano questi principî? Erano da un lato i principî del diritto romano e dall’altro i grandi principî delle rivoluzioni borghesi, elaborati poi attraverso l’esperienza costituzionale dell’Ottocento. Negli ultimi venti o trenta anni invece sono affiorate e sono state accolte, soprattutto nel nostro Paese, dottrine diverse, quelle a cui accennava anche l’onorevole La Pira, che riconoscono e collocano la sovranità non nel popolo, ma soltanto nello Stato, e danno quindi ai diritti individuali soltanto un carattere riflesso. La scienza giuridica degli ultimi venti anni è stata permeata da queste nuove dottrine, e questo spiega perché, quando abbiamo dovuta scrivere una Costituzione democratica e abbiamo chiesto l’ausilio dei giuristi, essi non sono stati in grado di darci un aiuto efficace. Per darcelo, occorreva ch’essi cancellassero o dimenticassero qualche cosa; bisognava che ritornassero a qualche cosa che avevano dimenticato, e non erano sempre in grado di farlo. Questo è un motivo profondo delle debolezze e del carattere equivoco di molte tra le formulazioni del testo che sta davanti a noi.
Riconoscendo però questa debolezza, io non condivido la sostanza delle critiche che sono state fatte dall’onorevole Orlando. Alcune delle sue osservazioni sono giuste e ne terremo conto. Correggeremo, preciseremo i poteri dell’uno e dell’altro istituto, preciseremo le funzioni dell’uno o dell’altro potere. Però mi è parso, onorevole Orlando, che quando ella, partito da una definizione del regime parlamentare — e di definizioni del regime parlamentare se ne possono dare parecchie, perché le caratteristiche del regime parlamentare possono essere definite in modo diverso secondo le diverse dottrine e gli orientamenti diversi: della teoria e della pratica — mi è parso che quando ella a un certo punto si è fermato e ha detto: «qui manca qualche cosa» (e non so che cosa ella cercasse: colui che mantiene l’equilibrio, colui che ha l’iniziativa, colui che sancisce), onorevole Orlando, io ho avuto l’impressione, e perdoni se sono maligno, che ella cercasse qualcosa che noi non abbiamo voluto mettere nella Costituzione: che ella cercasse il re. (Si ride — Vivi commenti).
Noi abbiamo voluto fare una Costituzione conseguentemente repubblicana, cioè una Costituzione che fosse fondata su un riconoscimento completo della sovranità popolare e sul principio che tutti i poteri emanano dal popolo. Può darsi che non abbiamo ben definito l’uno o l’altro di questi poteri e che dobbiamo precisare qualcosa, però fondamentale rimane il principio che la sovranità risiede nel popolo e solo nel popolo, che è il vero principio repubblicano. La Repubblica non è soltanto il regime che ha cacciato i Savoia; la Repubblica è il regime nel quale il popolo è veramente sovrano e la sovranità popolare si manifesta in tutta la vita dello Stato.
Ho detto, onorevoli colleghi, che tre sono le esigenze fondamentali da soddisfare: esigenza della libertà; esigenza di unità politica e morale della Nazione; esigenza di progresso sociale e di rinnovamento della classe dirigente. Permettetemi di dedicare alcune parole a ciascuna di queste esigenze fondamentali.
Sarò breve sul primo punto, perché mi ha preceduto il collega onorevole Laconi, il quale ha chiaramente formulato le critiche che noi, sotto questo riguardo, facciamo al progetto che ci viene presentato. Siamo d’accordo sulla formulazione dei diritti politici del cittadino; non siamo invece completamente d’accordo sul modo come è stato disposto l’ordinamento costituzionale, cioè il sistema attraverso il quale si manifesta e si attua la sovranità, popolare. Troviamo pesante e farraginoso, prima di tutto, il procedimento legislativo. Critichiamo, in secondo luogo, il bicameralismo spurio di questo progetto. In linea di principio, siamo contrari a un sistema bicamerale; abbiamo però detto sin dall’inizio che non avremmo fatto di questa nostra posizione motivo di conflitto. Vogliamo guardare non alla forma, ma alla sostanza: accettiamo quindi anche un bicameralismo, ma a condizione che, se vi saranno due Camere, esse siano entrambe emanazione della sovranità popolare e democraticamente espresse dal popolo. Per questo aspetto, non ci sembra accettabile l’articolo 56 che stabilisce le categorie degli eleggibili a senatore. Attraverso queste categorie vediamo ricomparire ancora una volta il sistema del censo. Abbiamo fatto un’inchiesta in una delle province italiane per determinare, sulla base dell’articolo 56, quanti eleggibili a Senatore potrebbe avere un partito il quale sia il partito delle classi possidenti e quanti ne potrebbe avere un partito, come il nostro, che sia il partito delle classi lavoratrici. Il rapporto è di uno a dieci, e credo che, in altre province, specie nel Meridione, sarebbe ancora più sfavorevole.
Discutibilissimo sembra a me anche l’articolo 88, col quale si è tentato di dare una soluzione all’annosa questione della stabilità del Governo. Qui vi è, secondo me, veramente una deviazione del puro regime democratico di tipo parlamentare. Si richiede, infatti, in questo articolo che la mozione di sfiducia al Governo, — quella mozione di sfiducia la cui presenza continua in qualsiasi dibattito e in qualsiasi situazione è essenziale per il parlamentarismo — sia presentata da un quarto almeno dei membri dell’Assemblea per poter essere messa in discussione. Il che vuol dire che il gruppo autonomista, per esempio, che ha dieci deputati, non potrà mai mettere in discussione una mozione di sfiducia, a meno che non voglia andare a battere alla porta di un partito di massa perché gli presti quelle cento o centocinquanta firme che gli abbisognano. Mi pare che qui effettivamente, proprio nel momento in cui tutti criticano il sistema dei grandi partiti che opprimerebbero la libertà delle assemblee parlamentari, si fa una concessione a questo sistema, e nel modo peggiore.
Perché si sono introdotte queste norme? E perché riscontriamo in questa stessa direzione tutta una serie di altre debolezze nell’ordinamento costituzionale che ci viene proposto? L’onorevole Nenni ha dato una risposta che a me sembra giusta. Tutte queste norme sono state ispirate dal timore: si teme che domani vi possa essere una maggioranza, che sia espressione libera e diretta di quelle classi lavoratrici, le quali vogliono profondamente innovare la struttura politica, economica, sociale del Paese; e per questa eventualità si vogliono prendere garanzie, si vogliono mettere delle remore: di qui la pesantezza e lentezza nella elaborazione legislativa, e tutto il resto; e di qui anche quella bizzarria della Corte costituzionale, organo che non si sa che cosa sia e grazie alla istituzione del quale degli illustri cittadini verrebbero ad essere collocati al di sopra di tutte le Assemblee e di tutto il sistema del Parlamento e della democrazia, per esserne i giudici. Ma chi sono costoro? Da che parte trarrebbero essi il loro potere se il popolo non è chiamato a sceglierli? Tutto questo, ripeto, è dettato da quel timore che ho detto. Ma badate, qui si commette un errore. Comprendo che vi siano gruppi sociali i quali possono vedere con preoccupazione l’avanzata di una nuova classe dirigente, in quanto temono per le posizioni che occupano oggi e da cui dovranno, sloggiare, e sono ostili a qualsiasi profonda trasformazione sociale. Comprendo che l’egoismo possa dettare a questi gruppi sociali la paura, e quindi spingerli a proporre norme costituzionali del genere di quelle che sto criticando; ma non comprendo che una condotta simile possa essere di preveggenti uomini politici. Preveggenti uomini politici; al punto in cui i problemi sono arrivati nello sviluppo della società italiana, debbono volere che tutte le trasformazioni sociali e tutte le questioni che saranno poste in relazione con queste trasformazioni vengano dibattute e risolte nell’Assemblea e dall’Assemblea, e possano esserlo con quella rapidità ed energia che sarà richiesta dalle masse lavoratrici e dal movimento stesso delle cose. Quando avrete posto una remora con tutto questo sistema di inciampi, di impossibilità, di voti di fiducia, di seconde camere, di referendum a ripetizione, di Corti costituzionali, ecc., quale sarà il risultato che avrete ottenuto? Avrete evocato l’azione diretta; cioè avrete scardinato l’istituto parlamentare, ponendo nella Costituzione un germe di conflitti sociali e politici profondi, il che noi crediamo che non si debba fare.
Coloro i quali vogliono per il nostro Paese un avvenire di progresso sociale, ma nella libertà e nella tranquillità politica, non debbano porre ostacoli all’affermazione e al trionfo della volontà popolare. Bisogna lasciare che la volontà popolare si possa esprimere attraverso gli istituti parlamentari, attraverso le istituzioni; democratiche, sulla base costituzionale. Guai invece se la Costituzione fosse fatta in modo da opporre artificiosamente barriere a questa espressione.
In questa parte del progetto di Costituzione trovo però anche una mancanza di audacia e di spirito di conseguenza. Non si è avuto il coraggio di porre e risolvere due grandi questioni che devono essere invece affrontate con spirito democratico e risolte in modo nuovo: quella della Magistratura e quella dei poteri e degli organi di controllo.
Riguardo alla Magistratura, nella Commissione a stento siamo riusciti a far prevalere l’affermazione del ritorno alla giuria, e qui ho sentito un onorevole collega protestare dicendo che questa è cosa che riguarda gli avvocati penalisti. No, questa è una questione che riguarda tutti i cittadini. Il principio per cui, quando a un cittadino voi togliete dieci o venti o più anni della sua esistenza, o quando lo mandate a giudizio e lo condannate per delitto politico, egli ha diritto al giudizio dei suoi pari, è una delle più grandi conquiste della democrazia. Qui siamo senza dubbio in presenza di una di quelle tracce di spirito giuridico reazionario, che non siamo ancora riusciti a cancellare. La mia opinione è che nell’ordinamento della Magistratura avremmo dovuto affermare in modo molto più energico la tendenza alla elettività dei magistrati, il che ci avrebbe fatto fare un grande passo avanti per togliere il magistrato dalla situazione penosa in cui oggi si trova, di essere un sovrano senza corona e senza autorità. Soltanto quando sarà stabilito un contatto diretto tra il popolo, depositario della sovranità, e il magistrato, questi potrà sentirsi partecipe di un potere effettivo, e quindi godere della fiducia completa del popolo nella società democratica.
Un altro problema che non è stato non solo risolto, ma nemmeno affrontato, è quello dei controlli. Si è tutto rinviata alla legge, così per la Corte dei Conti, come per il Consiglio di Stato, come se si trattasse di argomento non costituzionale. Ma tutto questo sistema è vecchio. Tutti quelli di noi che sono passati attraverso un Ministero hanno visto che questo sistema non serve più. Una Corte dei Conti la quale serve per far sì che per liquidare una pensione occorrano due anni, mentre in altri Paesi civili occorrono due settimane; un organo di controllo che durante il ventennio della tirannide fascista non ha controllato niente, né impedito che venisse dilapidato il pubblico denaro, e ora pone ostacoli su ostacoli a indispensabili misure democratiche, è qualcosa che deve essere profondamente rinnovato. Opera costituente, sarebbe di esaminare come possano organizzarsi nuovi istituti di controllo, in maniera che essi siano in un modo o nell’altro appoggiati dalla sovranità popolare e collegati col popolo. L’ordinamento autonomistico può forse aiutarci in questa direzione: in questa direzione è certo che bisogna muoversi, se si vuole fondare una democrazia moderna, respingendo istituti e formule che oggi sono superati e servono a ben poco.
In conclusione, a proposito dei problemi di libertà, il nostro partito seguirà una linea di condotta conseguentemente democratica, cioè lotterà in modo conseguente, perché la Costituzione sia una Costituzione popolare, perché il popolo sia riconosciuto come sovrano, e l’ordinamento costituzionale sia tale che permetta alla sovranità popolare di manifestarsi e di dare la propria impronta a tutta la vita della Nazione.
E permettimi a questo punto, amico Lussu, di dirti che allorché, preoccupato della democrazia e delle sue sorti, ti sei rivolto da questa parte e hai domandato se qui siedono dei veri e sinceri democratici, hai sbagliato indirizzo. Non è questa la direzione, verso cui devi guardare per trovare i nemici della democrazia. Il movimento operaio italiano non ha mai rotto la legalità democratica e non ha mai minacciato la democrazia. O forse ci vuoi rimproverare di esserci armati per la guerra di liberazione, o tu vuoi unirti a coloro che ci rimproverano di aver liquidato sul campo i responsabili della tirannide fascista.?
Lussu. Anzi!
Togliatti. Permettimi allora di manifestare il mio stupore, per aver notato in te quel caratteristico rovesciamento di fronte, che è fatale alla democrazia. Guai alla democrazia, quando essa non riesce più a capire da che parte sono i suoi nemici! (Interruzione dell’onorevole Lussu). Non credo che tu sia un buon democratico se non riesci a vedere da che parte sono i tuoi nemici.
Lussu. Risponderò a suo tempo.
Togliatti. È nel tuo diritto.
Vengo ora alla seconda delle esigenze fondamentali da me indicate: l’unità politica e morale
della Nazione che è in parte da salvare, in gran parte da consolidare. Molto abbiamo già fatto per salvare l’unità politica e morale della Nazione e soprattutto molto abbiamo fatto noi, il partito più avanzato dei lavoratori; ma dobbiamo ancora consolidare quello che abbiamo salvato.
E qui trovo due questioni sulle quali chiedo che abbiate la pazienza di ascoltarmi: i rapporti fra lo Stato e la Chiesa e il regionalismo.
Non condivido l’opinione di chi ha detto in quest’aula che la questione del mantenimento della pace religiosa non esiste. Non è vero: questa questione esiste. Tutti coloro che hanno fatto la campagna elettorale precedente al 2 giugno lo hanno sentito. È meglio dunque riconoscerlo e sapere che la pace religiosa del nostro Paese si mantiene attraverso l’azione meditata dei Governi e di quei partiti che hanno una responsabilità di Governo o, se non altro, una funzione di direzione della vita nazionale, in quanto partiti di massa.
L’onorevole Lucifero ci ha proposto l’invocazione a Dio. Questa è veramente una delle proposte che hanno suscitato in me i maggiori dubbi, perché effettivamente Dio votato a maggioranza in una Assemblea politica ed approvato con 20 e con 50 o anche con 200 voti di maggioranza, non lo capisco. (Si ride). Quando poi ho sentito il nostro collega parlare di Dio nel tono con cui i nostri oratori di comizio parlano alla fine dei loro discorsi, quando si tratta di avere gli applausi degli elettori riuniti, mi sono ricordato del primo e secondo comandamento. (Si ride).
Il problema della pace religiosa, in ogni modo, esiste e bisogna riconoscere che la pace religiosa è fondata su due colonne: il Trattato lateranense e il Concordato, uniti assieme nel modo che tutti sappiamo. Nessuno di noi aveva chiesto che venisse aperto il problema del Trattato e del Concordato; nessuno del nostro partito in particolare. Fin dall’anno scorso, in occasione del nostro V Congresso, noi facemmo un’affermazione precisa in questo senso. Ma quando voi ci avete chiesto l’inserimento del Trattato e del Concordato nella Costituzione, attraverso il richiamo dell’articolo 5, allora il problema si pone e siamo costretti a discutere.
E siamo costretti a discutere per parecchi motivi. Prima di tutto, onorevole Orlando, tengo a precisare che non è vero che io abbia detto di essere favorevole all’inserimento dei Patti lateranensi, attraverso il richiamo dell’articolo 5, nella Costituzione. Ho votato contro questo richiamo e anche qui, sino a che il problema sarà posto nel modo come adesso è posto, voteremo contro. Attraverso quel richiamo così esplicito, infatti, ritorniamo all’articolo primo dello Statuto. Ora non dimentichiamo che l’articolo primo dello Statuto, in tutte le discussioni che ebbero luogo prima nel Parlamento subalpino, dal 1849 in poi, e quindi nei successivi Parlamenti italiani, venne sempre considerato come qualche cosa di decaduto. Basti ricordare in proposito il discorso di Marco Minghetti nel dibattito sulla legge delle Guarentigie, dove egli dice la cosa apertamente, e aggiunge che l’articolo primo viene lasciato nello Statuto unicamente per non aprire un procedimento di revisione costituzionale. È soltanto nel Trattato lateranense che questo articolo viene riesumato e rimesso in circolazione, ed è principalmente per questo che l’inserimento dei Patti lateranensi nella nuova Costituzione non è da noi approvato. Quando volete farci tornare alla religione di Stato, ci volete fare tornare a qualche cosa che la nostra coscienza non può accettare.
Voi dite: si tratta della nostra libertà, cioè della libertà della Chiesa.
No, nessuno offende la vostra libertà; nessuno ha proposto e nessuno propone di ritornare a un regime giurisdizionalista, nessuno sogna in questa Assemblea di proporre una costituzione civile del clero: quindi la vostra libertà è salva.
Ma voi dovete riconoscere che nel Trattato e nel Concordato vi è qualche cosa che urta la nostra coscienza civile e che sarebbe bene — lo stesso onorevole La Pira accennava a questa possibilità — che venisse al momento opportuno eliminata. Perché dunque inserirli in modo così solenne nella Carta costituzionale?
Vorrei dire però che un’altra questione ci preoccupa. L’ho sollevata in un mio precedente discorso in questa Assemblea, parlando di un eventuale rinnovo dei Patti allo scopo di eliminare la firma del fascismo e introdurre i necessari ritocchi. Badate però che questo problema l’ho posto di riflesso: non l’avremmo probabilmente posto di nostra iniziativa, se non vi fosse stata la proposta di inserimento dei Patti nella Costituzione, o non lo porremmo con urgenza il giorno in cui fossimo riusciti a trovare, in sede costituzionale, quella soluzione, che l’onorevole Orlando si augurava ieri che noi trovassimo, e cioè una soluzione che raccolga l’unanimità dei suffragi dell’Assemblea.
E qui si inserisce una questione abbastanza grave e profonda, quella dei rapporti della Chiesa cattolica col regime democratico repubblicano. Il nuovo giuramento dei vescovi sta bene; ma Concordato e Trattato sono qualche cosa di più del giuramento, sono un impegno e un grande impegno.
Ora, in cerca di una documentazione sopra questo tema, mi è accaduto di sfogliare un testo autorevolissimo di Diritto delle Decretali, manuale d’insegnamento nella Pontificia Università Gregoriana in Roma, e a proposito dei concordati, delle condizioni e del momento in cui la Santa Sede li conclude ho trovato una affermazione assai sintomatica che mi permetterete di citare: «…Sedes Apostolica, ne evidenti ludibrio exponatur, conventiones in forma solemni inire non solet, nisi gubernium civile necessitate petendi consensus comitiorum publicorum non sit adstrictum…».
Una voce. Vuol tradurre? (Si ride).
Togliatti. Per i colleghi che non sono democristiani posso anche fare la traduzione (Si ride), la quale suona così:
«La Sede Apostolica, per non correre il rischio di gravi delusioni, di solito non stipula convenzioni solenni, se non con quei governi i quali non sono costretti a chiedere l’approvazione di un corpo rappresentativo».
Onorevole Orlando, forse in questa formulazione autorevole vi è una spiegazione più pertinente di quella che cercava di dare lei, relativa al momento in cui i Patti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica vennero conclusi. È evidente che di fronte ad affermazioni simili, ci sentivamo dubbiosi.
Ad ogni modo, concludendo su questo punto, ripeto che il problema della pace religiosa esiste e che deve esser fatta qualche cosa di comune accordo in questa Assemblea e fuori di questa Assemblea per garantirne la soluzione, cioè per dare alla pace religiosa del popolo italiano un carattere solido e permanente. Noi vogliamo una Costituzione la quale guardi verso l’avvenire. I problemi già risolti nel passato non ci interessano più; cerchiamo però che quelle posizioni di libertà, che hanno conquistato i nostri padri e i nostri avi attraverso lotte memorabili, non vadano perdute. E voi, colleghi della Democrazia cristiana, credo che farete opera buona, favorevole al consolidamento dell’unità politica e morale della Nazione, se non porrete noi e altre parti importanti dell’Assemblea di fronte ad alternative troppo gravi e invece cercherete insieme con noi la forma o la formula migliore per risolvere questa questione col soddisfacimento di tutti e con la più larga maggioranza possibile.
E vengo al regionalismo. Il capitolo relativo suscita in noi molti dubbi, e come esso sta oggi non so se potremo votarlo nella sua integrità.
Ci troviamo di fronte a due partiti di differente peso e numero: il Partito repubblicano storico e il Partito democristiano, che si affermano decisamente regionalisti ed hanno fatto prevalere il loro punto di vista in questo testo costituzionale. Il Partito repubblicano storico rappresenta una nobile tradizione; il regionalismo però è soltanto parte della sua tradizione, ma forse la parte più interessante, certo la più progressiva. Il Partito democristiano rappresenta esso pure un complesso di dottrine e di posizioni politiche, tali per cui non sarebbe serio se trascurassimo le sue affermazioni, se prendessimo alla leggera le sue rivendicazioni. Occorre quindi discutere con spirito molto obiettivo, per veder di trovare assieme la strada giusta.
Nessuno può dire oggi, se sia stato giusto organizzare l’Italia come è stata organizzata dopo il 1860. Il tipo di organizzazione centralizzata, che è stato dato allora all’Italia, è stato il risultato della unione di classi dirigenti diverse: lo volle la classe dirigente meridionale, lo volle la classe dirigente del Nord. Poteva essere presa un’altra strada? Non so. La storia è stata così e basta. Però è un fatto che camminando per quella, strada abbiamo fatto del cammino, abbiamo raggiunto determinate posizioni, ed essenzialmente dobbiamo dire che l’unità nazionale, grazie a un ordinamento che aveva senza dubbio gravi e anche gravissimi difetti, è stata ad ogni modo mantenuta. Orbene, l’unità nazionale è un bene prezioso, soprattutto per un paese il quale la possiede da poco tempo. Da quanti anni siamo noi un Paese nazionalmente unito? Da 70 o 80 anni, non più, e per arrivare a conquistare questo risultato abbiamo impiegato secoli di lotta; di travaglio, di sofferenze, di sconfitte e di umiliazioni.
Ci sconfissero e umiliarono tutti o quasi tutti i popoli vicini perché non eravamo uniti, perché non avevamo un esercito e uno Stato unitari, mentre essi li possedevano da secoli. Dobbiamo stare attenti a non perderla ora, questa unità.
Parlo qui come rappresentante di un partito della classe operaia, e la classe operaia è stata sempre più unitaria della borghesia. La borghesia fu da noi unitaria, nelle sue differenti frazioni, solo per particolari suoi motivi egoistici, non sempre confessabili; mentre la classe operaia fu unitaria perché la sua missione non poteva adempiersi se non su una scala nazionale. Non per niente la classe operaia ha dato il primo italiano del Nord, Bruno Buozzi, organizzatore dei metallurgici torinesi, il quale sia stato eletto deputato in una grande città meridionale. In questo modo gli operai dimostravano di essere una classe progressiva. I metallurgici di Torino davano la prova di saper camminare sul solco aperto dal Conte Camillo Benso di Cavour, facendo proprie e portando avanti quelle conquiste che non devono essere toccate, anzi conservate e consolidate dalle nuove generazioni.
Pur essendo unitari, siamo però d’accordo per la concessione di un regime particolare di larga autonomia a determinate regioni, e cioè alla Sicilia, alla Sardegna e alle zone di lingue e nazionalità miste. Nelle grandi isole italiane mediterranee si sono creati infatti una situazione particolare economica e politica e un particolare clima psicologico che impongono quella soluzione. Qui deve quindi esser concessa l’autonomia più larga. A questo non facciamo nessuna obiezione in questo campo, anzi siamo all’avanguardia della lotta per la libertà dei popoli siciliano e sardo in un’Italia democratica. Quando però si tratta di tutto il resto del territorio nazionale, lasciateci riflettere e riflettiamo assieme. Misure di decentramento amministrativo, formazione di enti regionali che permettano, perché meglio e direttamente collegati col popolo, tanto un più ampio e sicuro sviluppo democratico, quanto la formazione di nuovi quadri dirigenti della Nazione su una scala locale: tutto questo è considerato da noi con simpatia e accettato. Ci preoccupano però due cose: da un lato una parte delle norme che avete scritto in questo progetto, dall’altro lo spirito e gli argomenti coi quali le presentate.
Risulta, infatti, dal progetto che è data facoltà legislativa primaria alle regioni, e non soltanto per la decisione di questioni interne dell’organizzazione regionale stessa, ma anche, con una riserva formale che non si comprende neanche bene cosa significhi, per argomenti e temi di importanza fondamentale, come l’agricoltura. Il problema agrario è uno dei più gravi fra quelli che la Repubblica deve affrontare e risolvere. Ma cosa faremo per risolvere le questioni agrarie, cioè che riforma agraria faremo seguendo la strada indicata da questo progetto? Faremo le fattorie collettive in Emilia e manterremo il latifondo in Sicilia e la grande proprietà terriera nel Salento? Questo può derivare da un’applicazione della Costituzione regionalista che ci viene presentata. (Interruzioni a destra). Ma no, non siete voi che dovete decidere, deve decidere tutta la Nazione. (Applausi a sinistra).
La verità è che il nostro Paese non è economicamente e socialmente, tutto allo stesso grado di sviluppo. Una parte, forse, sarebbe già matura per trasformazioni di tipo socialista, mentre l’altra no, l’altra non ha ancora compiuto la rivoluzione antifeudale. È necessario quindi che le necessarie trasformazioni, economiche e sociali si compiano tenendo conto di questo dato di fatto. E non vedete che questo è ciò che stiamo facendo noi, partito più avanzato della classe operaia, e delle masse lavoratrici, appunto per evitare che da questa situazione possa uscire una rottura della unità nazionale? Per questo indichiamo a una parte del fronte dei lavoratori la necessità di segnare il passo, allo scopo di poter fare avanzare tutto il fronte insieme, altrimenti corriamo il rischio di perdere un bene che è prezioso per tutti noi e deve essere la base di tutto il progresso politico e sociale del Paese: l’unità politica e morale della nazione. Questo è ciò che stiamo facendo noi, ma lo stesso metodo deve essere seguito da tutti, e non bisogna che ad esso possano fare ostacolo gli ordinamenti costituzionali.
Inoltre trovo che nelle disposizioni che avete scritto è lasciata in disparte la finanza. Grave lacuna, che rende oscuro o incerto l’assieme delle norme sull’ordinamento regionalistico. Marco Minghetti, quando presentò alla Camera, credo nel 1863 o 1864, un progetto il quale prevedeva determinate autonomie regionali sulla base di un libero consorzio di province, propose che se si dovesse accettare un sistema di autonomie locali, si prendesse come punto di partenza e pietra di paragone il bilancio dello Stato e si vedesse quali entrate e quali uscite dovevano essere attribuite al potere centrale, quali entrate e quali uscite agli enti decentrati. Questa dovrebbe essere la base di organizzazione di qualsiasi autonomia; invece nel vostro progetto proprio questo lato è lasciato interamente al buio. (Interruzioni — Commenti).
Fuschini. C’è il rinvio alla legge.
Togliatti. Precisamente, il rinvio alla legge è troppo poco. Ma se ciò che è stato scritto in questo progetto a proposito delle autonomie regionali, solleva in noi una serie di dubbi molto gravi; altri dubbi e non meno gravi sollevano in noi i commenti e lo spirito col quale abbiamo sentito che il tema viene discusso. Perché, nelle discussioni, di che si è parlato? Si è parlato di mercati regionali, di sbocchi al mare, di hinterland, di porti regionali; sono stati adoperati concetti i quali servono unicamente per ragionare attorno a quella che è l’organizzazione di uno Stato federale. Ma vogliamo proprio fare dell’Italia uno Stato federale, creando tanti piccoli Staterelli che lotterebbero l’un contro l’altro per contendersi le scarse risorse del Paese? (Commenti — Interruzioni).
Di questo orientamento, sostanzialmente federale, nella Costituzione è rimasta persino la traccia, perché è rimasta una norma che si giustificherebbe solo in una organizzazione prettamente federalistica, quella cioè per la quale una regione non può ostacolare il transito verso altre regioni. Una norma simile, ripeto, non si giustifica in uno Stato unitario, ma soltanto in uno Stato federale. (Commenti).
Del resto, la perplessità non è soltanto in noi, la perplessità è nel Paese: Guardate il Paese, interrogatelo. Su questo tema lo troverete perplesso e in alcune sue parti anche profondamente turbato.
Una voce a destra. Referendum. (Commenti).
Togliatti. Il relatore sull’ordinamento regionale nella seconda Sottocommissione ha detto che anche la regione sarebbe un ente naturale. In realtà, se mai, è qualche cosa di più e di meno: è un ente storicamente determinato. Però, quando rifletto alla storia del nostro Paese, difficilmente trovo la regione come tale; trovo invece un’altra cosa, trovo invece la città.
Una voce al centro. Anche la provincia.
Togliatti. È su per giù la stessa cosa, poiché la provincia non è in sostanza, che l’organizzazione della vita civile attorno alla città. Il peso che le città hanno in questa organizzazione è caratteristico e impronta originale della nostra storia e del nostro Paese, tanto nel nord come nel sud. Orbene, oggi chi è perplessa, a proposito dei piani regionalistici, è proprio la città italiana, la quale nell’organizzazione provinciale ha trovato finora la soddisfazione dei suoi interessi materiali e delle sue aspirazioni ideali. La città italiana tipica, che è la città capoluogo di provincia, teme la costituzione dei nuovi grandi centri regionali, e quindi la creazione di un apparato nuovo il quale potrebbe diventare una nuova barriera tra la città, dove si risolvono tutte le questioni della provincia, e lo Stato. È quindi naturale la reazione. Cosa credete che siano tutte queste Tuscie, e Daunie, e Japigie, e Intemelie che spuntano da una parte e dall’altra e di cui non avevamo mai sentito parlare prima d’ora? Io non rido di queste cose. Questa è la forma che prende questo stato non ancora di ribellione, ma di timore, che è nelle popolazioni italiane, e particolarmente nelle popolazioni cittadine, che non vedono chiaro in quello che vogliamo fare riorganizzando lo Stato su base regionale. Vi è qui in embrione una specie di ribellione della vecchia struttura politica e civile italiana, come si è storicamente formata, rispetto a piani di organizzazione, i quali possono essere ideologicamente o dottrinariamente giustificati, ma che vanno contro qualche cosa che già esiste, che è solido e non si distrugge agevolmente.
Per concludere su questo punto, dico una cosa sola: colleghi democristiani, colleghi repubblicani, non risolvete, col colpo d’una maggioranza, che oggi avete, ma che domani potreste non avere più, una questione così grave di organizzazione dello Stato italiano. E soprattutto in questo momento — ha ragione l’onorevole Nitti — in cui già sono attive forze centrifughe, che non riusciamo a controllare oggi completamente e che forse non potremmo più controllare in nessun modo domani, se ci mettessimo su una strada sbagliata di organizzazione dello Stato. Stiamo attenti a quello che facciamo.
Vengo all’ultima delle esigenze, che ho detto dover stare alla base del nostro lavoro costituzionale: l’esigenza di progresso sociale e di rinnovamento delle classi dirigenti.
Qui si presentano differenti temi, e in particolare quello della formulazione dei nuovi cosiddetti diritti sociali.
Siamo d’accordo, in generale, sulle formulazioni date; abbiamo però parecchie osservazioni da fare. Questo è infatti il punto, dove quel tipo deteriore di compromesso, onorevole Ruini, di cui ho parlato all’inizio della mia esposizione, ha giocato ampiamente, sostituendosi una parola all’altra, attenuandosi questa o quella affermazione, in modo tale da far sparire del tutto lineamenti originali del progetto che la prima Sottocommissione aveva elaborato.
Nel corso della discussione in questa Assemblea, poi, a un certo momento si era stabilito un fronte quasi generale degli oratori contro l’inserimento nella Carta costituzionale della affermazione di questi diritti. Tutti — strano a dirsi — sembravano esser diventati staliniani. Se si trattasse d’una convinzione seria e sincera, non potrei che rallegrarmi; ma non è così: si trattava unicamente di trovare nella citazione di un testo corrispondente a una situazione ben diversa dalla nostra un argomento per respingere, oppure per togliere dal testo costituzionale vero e proprio l’affermazione dei nuovi diritti sociali, per inserirli soltanto — in modo ancora più limitato e modesto di quanto non sia oggi — in un preambolo. In modo molto espressivo diceva uno dei colleghi che mi hanno preceduto che si trattava di confinarla nel preambolo: il confino è infatti il luogo dove si mandano le persone non desiderate.
Tupini. Come i Patti Lateranensi, non desiderati.
Togliatti. In realtà noi vogliamo l’inserzione di questi nuovi diritti nella Costituzione per fare un testo che corrisponda alla situazione reale del nostro Paese, situazione di transizione, nella quale tali diritti noi non siamo riusciti ancora a tradurre in atto, ma forse ci saremmo riusciti se la situazione internazionale non fosse stata per noi così grave e dolorosa.
Oltre a questo, noi teniamo a che venga fatta un’affermazione precisa circa il carattere della Repubblica. Riproporremo qui che la Repubblica italiana venga denominata Repubblica italiana democratica di lavoratori, e con questo non intendiamo dare l’ostracismo a nessuno, non vogliamo escludere nessuno dall’esercizio dei diritti civili e politici, ma vogliamo affermare che la classe dirigente della Repubblica deve essere una nuova classe dirigente (Commenti a destra), direttamente legata alle classi lavoratrici.
Infine, avendo chiesto e chiedendo che venga inserita in modo preciso nel testo costituzionale l’affermazione del diritto al lavoro, del diritto al riposo, del diritto alla assicurazione sociale e all’assistenza e così via, dobbiamo dare una chiara risposta alla grave questione, che molti hanno sollevato, delle garanzie per l’attuazione e la realizzazione di questi diritti.
L’onorevole Saragat, trovatosi di fronte a questa questione, ha risposto che la garanzia di questi diritti sta nel senso sociale e nel senso di civismo degli italiani. No, questo non basta! Mi auguro che il senso sociale degli italiani sia sempre ricco, ricchissimo, e permetta di risolvere bene e a tempo e nell’interesse delle classi lavoratrici tutte le questioni di organizzazione economica e sociale che si presenteranno nel futuro.
Ma questo augurio è poca cosa, anzi, è cosa nettamente insufficiente. Occorre qualche cosa di più e di diverso; occorre cioè che, se anche non siamo in grado di scrivere quello che è scritto nella Costituzione staliniana, cioè i mezzi concreti con cui si garantiscono il lavoro, il riposo, le assicurazioni, l’istruzione di tutti i lavoratori, indichiamo però il metodo generale che deve essere seguito dal nuovo Stato democratico repubblicano per riuscire a garantire questi nuovi diritti.
E qui non ho che da rinviare alla relazione che presentai alla prima Sottocommissione, nella quale indicavo chiaramente che questo metodo generale deve consistere nei punti seguenti:
«a) la necessità di un piano economico, sulla base del quale sia consentito allo Stato di intervenire per il coordinamento e la direzione dell’attività produttiva dei singoli e di tutta la Nazione;
«b) il riconoscimento costituzionale di forme di proprietà dei mezzi di produzione diverse da quella privata, e precisamente la proprietà cooperativa e quella di Stato. Il riconoscimento della proprietà cooperativa nella Costituzione stessa consentirà al legislatore di svincolare il movimento cooperativo dalle troppo ristrette pastoie dell’attuale legislazione civile e commerciale, e sarà utile premessa a un largo sviluppo della cooperazione, nel campo della produzione e del lavoro in modo particolare. Il riconoscimento costituzionale della proprietà di Stato di determinati mezzi di produzione servirà, d’altra parte, a dare una base costituzionale nuova al processo di nazionalizzazione di determinate branche industriali;
«c) la necessità che vengano nazionalizzale quelle imprese che per il loro carattere di servizio pubblico oppure monopolistico debbono essere sottratte alla iniziativa privata, allo scopo precisamente di impedire che gruppi plutocratici, avendo queste imprese nelle loro mani, se ne servano per stabilire una loro egemonia su tutta la vita della Nazione;
«d) la necessità dell’organizzazione di Consigli di azienda come organi per l’esercizio di un controllo sulla produzione, da parte di tutte le categorie dei lavoratori, nell’interesse della collettività;
«e) la necessità che l’esercizio del diritto di proprietà, di cui d’altra parte si garantisce la tutela da parte della legge, sia limitato dall’interesse sociale; e infine,
«f) la necessità che la distribuzione della terra nel nostro Paese venga profondamente modificata in modo che sia limitata la grande proprietà terriera e vengano protette e difese la proprietà piccola e media, e in modo particolare l’azienda agricola del coltivatore diretto».
Di tutto questo che cosa dobbiamo scrivere nella Costituzione? Dobbiamo scrivere quel tanto che serva a tracciare la strada su cui dovranno muovere le Assemblee legislative nella loro opera di concreta organizzazione della vita economica e sociale. Anche questa Assemblea, pur essendo, di sua natura costituente, avrebbe dovuto incominciare a muoversi per questa strada. Essa infatti è stata eletta dal popolo nella speranza che avrebbe preso le prime misure necessarie per introdurre, o almeno per iniziare, trasformazioni profonde nell’organismo economico della nazione, nell’interesse delle masse lavoratrici e di tutti i cittadini. Non siamo ancora riusciti a farlo: dobbiamo però farlo. Queste sono le opere che la Repubblica deve fare; soltanto affrontando queste opere, compiendo queste trasformazioni, si risolve radicalmente la questione della legittimità del regime repubblicano. Vi è una legittimità formale della Repubblica, che sta nel referendum e nella maggioranza che in esso si manifestò per il regime repubblicano. Ma vi è anche un problema di legittimità sostanziale. Tale legittimità sostanziale consiste nel fatto che la Repubblica affronti e risolva quei problemi di trasformazione economica e sociale che il popolo ritiene debbano essere risolti dal regime repubblicano e che sono maturi per una soluzione.
La nostra Costituzione, anche se non sarà essa il documento che ci darà la soluzione di tutti questi problemi, dovrà essere però un documento che tracci il cammino sul quale si muoveranno i politici e i partiti italiani. Tutti coloro che accettano questa Costituzione come fondamento della vita politica italiana devono essere impegnati a muoversi sulla via del rinnovamento economico e sociale. Ecco quello che noi vogliamo. Ecco perché chiediamo che la parte della Costituzione che tratta dei diritti sociali sia chiara, senza equivoci e questi diritti siano sostanzialmente garantiti.
Ho finito, onorevoli colleghi. Ho sentito da molti, e giustamente, dire che il compito che sta davanti a noi è grave, pesante: è vero, onorevole Calamandrei.
«Ma chi pensasse il ponderoso tema E l’omero mortal che se ne carca
No ‘l biasmerebbe se sott’esso trema».
Ma questo vale per noi come singoli; noi qui, però, non siamo come singoli.
Noi siamo qui, prima di tutto, noi della grande maggioranza dell’Assemblea, gli esponenti di un grande movimento nazionale liberatore, movimento il quale trae i succhi della propria esistenza dalle migliori tradizioni della vita e della storia del nostro Paese: le tradizioni liberali e democratiche. Queste tradizioni il fascismo ha voluto negarle, ha cercato di distruggerle; non vi è riuscito ed è crollato nel baratro, nel quale purtroppo ha trascinato anche noi.
Ma noi ci sentiamo qui, noi comunisti, voi socialisti e anche voi, colleghi della Democrazia cristiana, noi tutti dobbiamo sentirci qui anche gli esponenti di qualche altra cosa: gli esponenti di quelle masse lavoratrici di operai, di braccianti, di contadini, di impiegati, di uomini del popolo, di uomini che vivono soltanto del proprio lavoro, e che da decenni sono attive nella lotta per la loro emancipazione. Queste masse si sono organizzate, hanno combattuto e combattono non soltanto per migliorare la loro esistenza giorno per giorno, attraverso le loro agitazioni e i movimenti loro economici e politici, ma anche e soprattutto per gettare le fondamenta di un nuovo ordinamento sociale, di una società nazionale rinnovata, governata dal lavoro secondo i propri interessi e secondo la propria profonda moralità, secondo quei principî di libertà, di uguaglianza, di giustizia sociale, che sono l’essenza dell’ideologia delle classi lavoratrici, in tutte le forme in cui essa può manifestarsi.
Onorevole Presidente! Onorevoli colleghi! Il nostro gruppo interverrà attivamente nel dibattito costituzionale, per sostenere che nella maggior misura possibile la nuova Carta costituzionale della Repubblica italiana corrisponda a questi principî; corrisponda cioè a quelle che sono le aspirazioni della grande maggioranza del popolo italiano, aspirazioni che esprimono la più profonda, la più urgente esigenza della nostra vita nazionale in questo momento. (Vivissimi applausi. — Moltissime congratulazioni).
(*) L’Assemblea plenaria prosegue la discussione generale del progetto di Costituzione elaborato dalla cd. Commissione dei 75. Il testo del progetto, che l’Assemblea rivedrà nel suo insieme, con variazioni puntuali anche di un certo rilievo, in: http://legislature.camera.it/_dati/costituente/lavori/ddl/00nc.pdf
————————————————————————————————————————————————————–Palmiro Togliatti
INTERVENTO ALL’ASSEMBLEA COSTITUENTE
25 marzo 1947
PRESIDENTE: Ha chiesto di parlare l’onorevole Togliatti. Ne ha facoltà.
TOGLIATTI: (Segni di attenzione). Signor presidente, signore, onorevoli colleghi. Siamo giunti al termine non di una lotta, ma di un dibattito, di una discussione elevata, ardente, appassionata, la quale ha profondamente interessato non soltanto questa Assemblea, ma tutto il Paese.
Arrivati a questo punto, una dichiarazione, non direi di voto, ma tale che precisi la posizione politica dei differenti partiti, è doverosa, e noi ringraziamo il nostro presidente di averci permesso di fare questa dichiarazione in questo modo, affinché essa possa essere abbastanza ampia emotivata, tale da non lasciare nessun dubbio in nessuno.
Doverosa è la dichiarazione di voto, da parte nostra, di fronte all’Assemblea, doverosa di fronte al nostro partito, doverosa di fronte alle masse di lavoratori e cittadini che ci seguono, che ci hanno dato la loro fiducia, mandandoci qui come rappresentanti della nazione.
L’articolo che sta davanti a noi consta di tre parti. A proposito della terza, il nostro gruppo ha presentato degli emendamenti, anzi un emendamento, il quale potrà essere concordato e posto ai voti insieme con l’emendamento presentato da altri autorevoli colleghi.
Non abbiamo avuto nessuna difficoltà, sin dall’inizio, ad approvare la prima parte dell’articolo, quella nella quale si dice che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
Non solo non abbiamo avuto difficoltà, ma i colleghi della prima Sottocommissione ricordano senza dubbio che questa formulazione è stata data da me stesso.
E qui permettetemi un ricordo.
L’onorevole Dossetti, riferendosi a questa prima parte dell’articolo che stiamo discutendo, cercando di darne una giustificazione dottrinaria, diceva che questa si può trovare in un corso di Diritto ecclesiastico, tenuto precisamente nel 1912, all’Università di Torino, dal senatore Francesco Ruffini.
Voi mi consentirete di ricordare all’onorevole Dossetti che sono stato allievo di quel corso, che l’ho frequentato quel corso, che ho dato l’esame di Diritto ecclesiastico su quelle dispense che egli ha citato e lodato. È, forse, per questo che non ho trovato difficoltà a dare quella formulazione. Ricordo però anche che quelle lezioni non erano frequentate soltanto da me. Veniva alle volte e si sedeva in quell’aula un uomo, un grande scomparso, amico e maestro mio, Antonio
Gramsci, e uscendo dalle lezioni e passeggiando in quel cortile dell’Università di Torino, oggi semidistrutto dalla guerra, egli parlava con me anche del problema che ci occupa in questo momento, del problema dei rapporti fra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano. Eravamo allora entrambi giovanissimi, entrambi all’inizio della nostra vita politica e ci sforzavamo di individuare quali erano le origini e quali
avrebbero potuto essere le sorti future di quel contrasto tra lo Stato e la Chiesa che allora era ancora per gran parte in atto in Italia, ma che in parte era superato o si stava superando, e ricordo che Gramsci mi diceva che il giorno in cui si fosse formato in Italia un governo socialista, in cui fosse sorto un regime socialista, uno dei principali compiti di questo governo, di questo regime, sarebbe stato di liquidare completamente la questione romana garantendo piena libertà alla Chiesa cattolica.
Ripeto che la prima parte di questo articolo non offre per noi nessuna difficoltà.
E vengo alla seconda parte, che è quella a proposito della quale hanno avuto luogo i più ampi dibattiti ed avrà luogo lo schieramento più importante in quest’aula. Qui si tocca il fondo del problema dei rapporti fra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica. Ora, di questo problema noi non ci siamo interessati soltanto oggi né soltanto nel corso delle discussioni della prima Sottocommissione e della Commissione dei settantacinque. Fin dall’inizio del 1946, quando si tenne in Roma il V Congresso del nostro partito, dedicammo una parte non trascurabile dei nostri dibattiti all’esame di questo problema, e la nostra posizione venne allora definita così nel rapporto che io tenni al congresso. Permettetemi di citare. «Poiché l’organizzazione della Chiesa» dicevo io allora «continuerà ad avere il proprio centro nel nostro Paese e poiché un conflitto con essa turberebbe la coscienza di molti cittadini, dobbiamo regolare con attenzione la nostra posizione nei confronti della Chiesa cattolica e del problema religioso. La nostra posizione è anche a questo proposito conseguentemente democratica. Rivendichiamo e vogliamo che nella Costituzione italiana vengano sancite le libertà di coscienza, di fede, di culto, di propaganda religiosa e di organizzazione religiosa. Consideriamo queste libertà come le libertà democratiche fondamentali, che devono essere restaurate e difese contro qualunque attentato da qualunque parte venga. Oltre a questo, però, esistono altre questioni che interessano la Chiesa e sono state regolate coi Patti del Laterano. Per noi la soluzione data alla questione romana è qualcosa di definitivo, che ha chiuso e liquidato per sempre un problema. Al Trattato del Laterano è però indissolubilmente legato il Concordato. Questo è per noi uno strumento di carattere internazionale, oltre che nazionale, e comprendiamo benissimo che non potrebbe essere riveduto se non per intesa bilaterale, salvo violazioni che portino l’una parte o l’altra a denunciarlo. Questa nostra posizione è chiara e netta. Essa toglie ogni possibilità di equivoco e impedisce che fondandosi sopra un equivoco si possano avvelenare o intorbidare i rapporti fra le forze più avanzate della democrazia, che seguono il nostro partito e la Chiesa cattolica».
Come vedete, vi sono qui alcune affermazioni fondamentali, alle quali abbiamo il dovere di rimanere coerenti, alle quali ci siamo sforzati di rimanere coerenti, alle quali credo che siamo rimasti coerenti fino ad ora. Prima affermazione fondamentale: la rivendicazione delle
libertà di coscienza, di fede, di culto, di propaganda religiosa e di organizzazione religiosa. Il progetto di Costituzione, per questa parte, ci soddisfa. Noi appoggeremo tutte quelle proposte le quali tenderanno a rendere sempre più tranquille le coscienze di tutti i credenti di tutte le fedi, garantendo loro tutte le libertà di cui hanno bisogno per esplicare il loro culto e svolgere la loro propaganda.
Seconda affermazione: consideriamo definitiva la soluzione della questione romana, e non vogliamo in nessun modo riaprirla.
Terza affermazione: riteniamo che il Concordato sia uno strumento bilaterale e che solo bilateralmente potrà essere riveduto.
Nel corso dei dibattiti della prima Sottocommissione e della Commissione dei settantacinque, ci siamo costantemente attenuti a questi principi, e anche nel mio intervento, e negli interventi degli altri colleghi del mio gruppo, nel dibattito generale sulla Costituzione e nel dibattito su questa parte della Costituzione stessa, queste sono le posizioni che noi abbiamo affermate.
Abbiamo, però, sollevato, in pari tempo, alcune questioni che ci preoccupavano e che ci hanno incominciato a preoccupare particolarmente – e in questo concordo col giudizio dato dal collega Nenni – quando ci si chiese di inserire come tali, e il Trattato e il Concordato, nella nostra nuova Costituzione attraverso un esplicito richiamo.
Precisamente, le questioni che ci preoccupavano erano quella della firma e quella di alcune determinate norme, sia del Trattato sia del Concordato, in cui trovavamo un contrasto con altre norme della Costituzione, da tutti noi insieme volute e approvate preliminarmente nelle commissioni. Questa contraddizione apriva un problema; poneva un interrogativo. Mai abbiamo parlato di una denuncia o dell’uno o dell’altro dei due strumenti diplomatici che sono legati insieme in quel complesso che viene chiamato “Patti del Laterano”. Le stesse preoccupazioni nostre, del resto, in maggiore o minore misura, abbiamo sentito esprimere da tutti, anche dai colleghi di parte democristiana, quando sono intervenuti nel dibattito. Tutti hanno riconosciuto, credo senza eccezioni, per quanto con maggiore o minor vigore, la fondatezza almeno di una parte delle esigenze presentate sia da noi che da altri colleghi di questa parte. In pari tempo abbiamo affermato sin dall’inizio, raccogliendo un appello venuto dal presidente Orlando, il nostro desiderio che si trovasse di tutta questa questione una soluzione attorno alla quale potesse venire realizzata, se non l’unanimità, per lo meno la grande maggioranza di questa Assemblea.
Questo infatti ritenevamo fosse necessario, anzi quasi indispensabile, per consolidare la pace religiosa del nostro Paese. In questo senso ci siamo mossi nelle conversazioni e trattative che hanno avuto luogo negli scorsi giorni tra noi e i rappresentanti di altri gruppi dell’Assemblea. Diverse formule sono state presentate e vagliate nel corso di queste conversazioni. Una di esse, la quale aveva l’autorevole appoggio dell’onorevole Orlando, passava dall’affermazione: «I rapporti ecc. ecc. sono regolati» all’affermazione: «La Repubblica riconosce e conferma i Patti lateranensi». Questa formula, pur essendo per degli aspetti più tassativa, direi anche più impegnativa dell’altra, pure soddisfaceva una delle nostre esigenze, quella del cambio della firma. Al posto di quella del fascismo, subentrava la firma della Repubblica. Non siamo però riusciti a venire all’accordo su questa formula, così come non eravamo riusciti precedentemente a trovare un accordo sopra altre formule le quali tenevano conto di esigenze affacciate, come ho detto, da tutte le parti, anche dalla parte democristiana.
Ho sentito testé l’onorevole De Gasperi affermare che per lo meno una di queste formule, quella sostenuta dall’onorevole Basso, avrebbe potuto essere accettata, se non si fosse impegnata su di essa una discussione impegnativa prima che la cosa venisse davanti all’Assemblea. Mi permetta, onorevole De Gasperi, ma ciò che ella ha detto è una svalutazione diretta dell’Assemblea. I dibattiti che precedono preparano i dibattiti nell’Assemblea; ma qui si decide ogni questione, qui ogni formula deve essere pesata, valutata, accettata o respinta. In questo sta la sovranità della nostra Assemblea. (Applausi).
Da ultimo, quando vedemmo che nessuna delle formule presentate era tale che, essendo accettata dalla parte democristiana, ci consentisse di avere quella larga maggioranza o di raggiungere anche quell’unanimità che avremmo voluto si raggiungesse nell’interesse del Paese, si discusse della possibilità di presentazione di un ordine del giorno il quale, a conclusione del dibattito, mettesse in valore l’importanza, il peso di esso nella vita nazionale, pur non dicendo in sostanza nulla di più e nulla di meno di quanto diceva l’articolo 7 e di quanto nel corso del
dibattito quasi concordemente era stato detto da tutti.
L’ordine del giorno venne formulato da un autorevole parlamentare e soddisfaceva molti di noi. Anche esso, però, alla fine venne respinto. Nemmeno in quella direzione trovammo quella via di uscita che stavamo cercando, e ciò nonostante avessimo affermato – e tutti lo riconoscevano insieme con noi – che l’approvazione di un simile ordine del giorno, pur non aggiungendo e non togliendo nulla all’articolo, sarebbe stata un atto politico importante, che avrebbe facilitato l’opera necessaria a raggiungere i più larghi consensi possibili e forse l’unanimità.
In nessun modo, dunque, siamo riusciti a metterci d’accordo. Perché? Perché ci siamo trovati a un certo momento e ci troviamo ora in una specie di vicolo cieco? Perché il nostro dibattito è arrivato a questo punto di evidente drammaticità?
Onorevoli colleghi, qui si pone un problema profondo, che io formulerei a questo modo: in sostanza con chi è il dibattito? Fra noi e i colleghi di parte democristiana? Non credo.
I colleghi di parte democristiana alle volte parlano presentandosi come unici difensori della libertà della coscienza religiosa delle masse cattoliche. Non credo che alcuno dei partiti di sinistra voglia lasciare loro la esclusività di questa funzione.
Anche nel nostro partito esistono, e credo per la maggioranza degli iscritti, i cittadini cattolici e noi siamo assertori e difensori della libertà della loro coscienza religiosa. È vero, noi difendiamo questa libertà come partito democratico, moderno, progressivo, comunista, se volete; ma, a ogni modo, la difendiamo. Non lasciamo a voi l’esclusività di questa funzione.
Anzi, mi pare che il dibattito sia stato un po’ viziato dal fatto di esser diventato un dibattito con voi, colleghi democristiani, mentre non lo è. In fondo, il dibattito è tra l’Assemblea costituente italiana e un’altra parte, l’altra parte contraente e firmataria dei Patti del Laterano. Questa è la realtà, che dobbiamo guardare in faccia se vogliamo comprendere bene di che si tratta e quello che dobbiamo fare.
Qui è avvenuto però un fatto spiacevole. È avvenuto che da tutti i settori dell’Assemblea, compreso il vostro, si è detto che un determinato ritocco di alcune norme dei Patti, in un momento determinato, con le forme opportune, sarebbe desiderabile e dovrebbe potersi fare. Ecco una voce unanime, o quasi, che esce dal luogo dove siedono i rappresentanti della nazione. Questa voce, però, non è andata più in là.
Onorevole De Gasperi, qui è mancato qualcosa, è mancato, più che l’intermediario, il rappresentante autorizzato di questa voce, che è la voce della nazione, che si sia presentato all’altra parte, le abbia significato quello che qui si pensa e sia in grado ora di significare a noi quello che da noi quest’altra parte richiede. Non siamo infatti autorizzati a credere che la vostra opinione di partito sia opinione autorizzata dall’altra parte.
In questo dibattito, insomma, abbiamo sentito l’assenza, quell’assenza che lamentava anche l’onorevole Orlando, del governo. La democrazia italiana in questa occasione non è stata guidata da un governo, il quale si sentisse legittimo rappresentante di quella opinione democratica e repubblicana, che qui in modo unanime espresse una stessa
esigenza, pure con sfumature diverse riguardo all’intensità. E forse questo è il male che succede in tutti i Paesi, quando si agitano questioni di questa natura e il partito dirigente è il Partito democristiano. (Commenti).
L’onorevole De Gasperi ha parlato, e io mi aspettavo parlasse come capo del governo. Se avesse parlato come capo del governo dicendoci: «Così si pone il problema; questo è da farsi nell’interesse nazionale», lo avrei applaudito. Egli ha avuto invece, come uomo di governo, un unico accenno alla necessità di consolidare il regime repubblicano. Onorevole De Gasperi, questo accenno l’abbiamo compreso; l’avevamo anzi già compreso prima.
Ripeto: avremmo voluto che l’onorevole De Gasperi non parlasse qui, come ha parlato, quale esponente del Partito democristiano o, ancora di meno, come esponente della coscienza cattolica, la quale non si estrinseca né si può estrinsecare in un solo partito; ma che, per tramite suo, tutto il nostro dibattito fosse guidato da un rappresentante autorizzato di tutta la nazione, cioè dal nostro governo, democratico e repubblicano.
Questo non è avvenuto; e dobbiamo dolercene. Siamo dunque costretti, per conoscere la posizione
dell’altra parte, a leggere il suo organo autorizzato ufficiale L’Osservatore Romano.
L’onorevole Nenni ne ha parlato come di un giornale tra gli altri. No, questo non è esatto, e questo non basta. Permettetemi di parlare dell’Osservatore Romano come dell’esponente autorizzato dell’altra parte. Esso è l’unica voce, l’unico mezzo che abbiamo per conoscere che cosa pensa la Santa Sede, la quale è firmataria, insieme con i rappresentanti di allora dello Stato italiano, degli atti di cui stiamo discutendo. Orbene, le affermazioni a questo proposito dell’organo ufficiale autorizzato della Santa Sede non sono equivoche. Prendo soltanto quattro degli articoli consacrati, in date diverse, alla trattazione di questo problema dall’Osservatore Romano e vi trovo le stesse affermazioni.
Il 13 di marzo: «Simile omissione [l’omissione del richiamo al Trattato e al Concordato nella Costituzione] significherebbe nella realtà… non un silenzio, non una lacuna, ma una minaccia, un pericolo. La minaccia alla pace religiosa, il pericolo di vederla turbata per la
possibilità che lo sia». Il 19 dello stesso mese: «Questo eventuale diniego [si tratta sempre del diniego del richiamo esplicito ai Patti], il sostenerlo necessario, il presagirlo possibile, turba già la pace e l’unità spirituale del popolo, il quale può ben pensare fin d’ora che tale pace, tale unità è minacciata per l’avvenire, se al suo unico fondamento si vuol… togliere la sicurtà costituzionale».
Il 20 e il 21 dello stesso mese: «Per quanto si protesti fin d’ora di non voler cadere nell’anticlericalismo di maniera, né in una lotta contro la religione, tuttavia [se si esclude dall’articolo 5 il richiamo costituzionale ai Patti lateranensi], pace religiosa… certissimamente non sarà, purtroppo». Il 22 di marzo: «Se realmente si vuole che nessuna lotta a carattere religioso turbi il faticoso rinnovamento della patria, perché mai così manifesto timore di riaffermare, in un momento e in un documento solenne, l’efficacia di Patti sottoscritti non soltanto tra un governo e altro governo, tra uno Stato e altro Stato, bensì tra il popolo italiano e la sua fede e la sua Chiesa?».
Non vi è dubbio che ci troviamo di fronte a un’esplicita manifestazione di volontà dell’altra parte, della Chiesa cattolica, della Santa Sede. Ed è questo il punto da cui dobbiamo partire, onorevoli colleghi, nel determinare la nostra posizione. Questo è il punto da cui dobbiamo partire, dal momento che tutte le questioni da noi precedentemente sollevate sono state sempre subordinate a una esigenza fondamentale, quella di non turbare la pace religiosa del nostro Paese. Esisteva o no la pace religiosa prima di oggi, prima del crollo del fascismo, prima della disfatta? Si può discutere, si può vedere come sono andate le cose storicamente.
Nel 1929, quando i Patti lateranensi furono firmati, non c’è dubbio che, nonostante tutto il precedente lavorio preparatorio compiuto da uomini politici di marca democratica e di fede liberale, non c’è dubbio che quell’accordo, concluso in quel momento, fece veramente pesare sul nostro Paese – permettetemi l’espressione romantica – l’ombra funesta del triste amplesso di Pietro e Cesare. Lo sentimmo chiaramente noi, che dirigevamo la lotta antifascista della parte avanzata del popolo italiano. Sentimmo che, nonostante oggi si interpreti l’espressione “uomo della Provvidenza” dicendo che si trattava di riferirsi a quella virtù che la Provvidenza ha di mandare uomini buoni e uomini cattivi, allora “uomo della Provvidenza” fu inteso come uomo “provvidenziale”.
Poi le cose cambiarono, senza dubbio. Questa prima impressione si attutì; qualche posizione fu conquistata e consolidata da noi; qualche posizione fu perduta dal fascismo; la nostra lotta per la democrazia, per la libertà contro la tirannide si sviluppò; gli uomini si svincolarono da quella primitiva impressione. Arrivammo così alla guerra di liberazione, nella quale avemmo profonda l’impressione che la pace religiosa veramente ci fosse. Vedemmo infatti nelle nostre unità partigiane operai cattolici affratellati con militanti comunisti e socialisti; vedemmo nelle unità comandate dai migliori tra i nostri capi partigiani, i cappellani militari, sacerdoti, frati, accettare la stessa nostra disciplina di lotta. Tutto questo ci permetteva di ritenere che la pace religiosa fosse stata raggiunta. Per questo chiudemmo quella pagina; né avevamo alcuna intenzione di riaprirla. Non solo, ma arrivammo a quel grande successo, a quella grande vittoria che è stata l’unità sindacale, giungemmo alla conclusione di un patto di unità sindacale fra le grandi correnti tradizionali del movimento operaio italiano: la corrente comunista, la corrente socialista e la corrente cattolica. Poi ci fu il 2 giugno, che segnò senza dubbio un passo addietro, per gli episodi di cui tutti fummo testimoni; per i motivi che tutti sappiamo. E ora siamo di fronte all’avvenire e a difficoltà nuove per il nostro Paese: siamo di fronte a problemi economici e politici che si stanno accumulando e intrecciando l’uno con l’altro. In questa situazione, abbiamo bisogno della pace religiosa, né possiamo in nessun modo consentire a che essa venga turbata.
Ora, il contrario del termine “pace” è “guerra”. È vero che per fare la guerra bisogna essere in due e che una delle parti può sempre dichiarare – come fai tu, compagno Nenni – «noi la guerra non la vogliamo»; ma per dichiararla, la guerra, basta uno solo. Di questo bisogna tener conto.
Questa è la situazione reale, di fatto, che oggi esiste, e noi, Partito comunista, che dal momento in cui abbiamo incominciato ad agire legalmente nel Paese, sempre abbiamo avuto tra i nostri principali obiettivi quello di mantenere la pace religiosa, non possiamo trascurare questa situazione, anzi dobbiamo tenerne conto e adeguare ad essa la nostra posizione e, di conseguenza, il nostro voto.
E qui la mia dichiarazione di voto potrebbe trasformarsi in un appello: potrei rivolgermi ai colleghi socialisti, ai colleghi di altre parti, invitandoli a votare con noi, a votare come noi voteremo. (Interruzioni-commenti). Essenzialmente però noi votiamo tenendo conto della
nostra responsabilità; e comprendiamo benissimo che la responsabilità nostra è più grave forse di quella di qualsiasi altro membro di questa Assemblea: è certamente più grave di quelli che posso considerare come degli isolati, dell’onorevole Lussu, dell’onorevole Crispo, o dell’onorevole Condorelli, che non sono a capo di grandi partiti; anche, vorrei dire, dell’onorevole Benedetto Croce, che è passato in quest’aula come un’ombra, l’ombra di un passato molto lontano! La nostra responsabilità è più grande, in sostanza, anche di quella dei colleghi socialisti, perché non siamo soltanto partito della classe operaia, ma siamo considerati come il partito più avanzato dei lavoratori, e in sostanza la maggioranza della classe operaia orienta la sua azione a seconda del modo come il nostro partito si muove.
Per questo non è soltanto alla nostra coscienza e convinzione personale, individuale che noi ci richiamiamo, come si richiamano altri colleghi, nel decidere il nostro voto. Essenzialmente facciamo appello a questa nostra responsabilità politica, e al modo come noi realizziamo la linea politica che ci siamo tracciata nella attuale situazione del nostro Paese. La classe operaia non vuole una scissione per motivi religiosi, così come non vuole la scissione fra noi e i socialisti. Noi siamo dunque lieti, anche se voteremo differentemente dal Partito socialista, che questo fatto non apra un contrasto fra di noi. In pari tempo però sentiamo che è nostro dovere fare il necessario perché una scissione e un contrasto non si aprano tra la massa comunista e socialista da una parte e i lavoratori cattolici dall’altra.
Abbiamo avuto stamane i risultati della votazione svoltasi in preparazione del congresso confederale alla Camera del lavoro di Milano. Si sono avuti 327mila voti per i comunisti, 152mila per i socialisti e 106mila per i democristiani. Orbene, vogliamo noi che tra questa massa di 106mila operai che segue la Democrazia cristiana e la rimanente massa di tre o quattrocentomila operai che non seguono la Democrazia cristiana, ma di cui molti sono cattolici, si apra un contrasto proprio oggi, in un momento in cui questioni così gravi sono poste davanti a noi, in cui è soprattutto necessario che le forze del lavoro siano unite? (Commenti). Non solo, ma io ritengo che la classe operaia, che noi qui rappresentiamo, o almeno quella parte di lavoratori che è rappresentata da noi, sia interessata a che sia mantenuta e rafforzata l’unità morale e politica della nazione, sulla base di una esigenza di rinnovamento sociale e politico profondo. Anche di questo interesse e di questa esigenza noi teniamo conto.
E qui avrei finito, onorevoli colleghi; avrei finito se la posizione assunta dal nostro partito in questa discussione, e soprattutto nelle conversazioni che hanno avuto luogo nei giorni scorsi, non fosse stata al centro di una particolare attenzione e nella stampa e nell’assemblea.
Forse mi permetterete di dedicare qualche minuto ancora all’esame delle critiche e delle obiezioni che ci sono state fatte, tanto più in quanto ciò mi permetterà di chiarire ancora meglio la nostra posizione e trarne tutto il succo.
Lascerò da parte le volgarità, gli articoli come quelli che scriveva l’altro giorno un illustre camaleonte, il signor Mario Missiroli, domandandosi che cosa c’è sotto all’atteggiamento dei comunisti, eventualmente favorevole al voto dell’articolo 5 o dell’articolo 7, nella forma in cui questo articolo viene presentato. L’autore di questo scritto argomenta lungamente e argomenta, naturalmente, in termini di hegelismo. Ma l’hegelismo l’abbiamo studiato anche noi, anche noi ce la sappiamo cavare con queste formulette, e soprattutto sappiamo come molte volte esse vengano adoperate esclusivamente per coprire una specie di cinismo, come quello di cui dà prova questo signore che accusa noi di non avere una coscienza etica dello Stato, perché saremmo disposti anche ad accettare la formula dell’articolo 5 così come ci è stata presentata: proprio lui che, per esaltare i Patti del Laterano, scrisse un intiero volume che, si dice, ebbe il personale plauso di Mussolini! È evidente che lezioni di etica da un camaleonte non le prendiamo.
Ma eleviamoci in un’atmosfera superiore: paullo maiora canamus. Anche in quest’aula, la questione del nostro atteggiamento è stata posta, e prima di tutto dall’onorevole Orlando, il quale ha detto: «Non vorrei collocarmi più a sinistra dei comunisti». Che cosa è destra e che cosa è
sinistra non sempre è facile dirlo in politica, onorevole Orlando. A ogni modo, non ho ben capito se, quando ella usava quella espressione, intendeva esprimere una perplessità sua circa la posizione che ella doveva prendere, oppure se avesse voluto che noi ci collocassimo un po’ più a sinistra per far posto a lei. (Si ride). Insomma, vi è qualcuno che avrebbe voluto ad ogni costo che fossimo noi a condurre questa battaglia. No, signori: noi conduciamo le battaglie che sembra a noi debbano essere combattute e, quando riteniamo che per consolidare l’unità politica e morale della nazione debba essere presa una determinata posizione, la prendiamo, lo diciamo chiaramente e ci assumiamo tutte le responsabilità che ne derivano. Ma anche l’onorevole Nitti ci ha fatto oggetto della sua critica e delle sue benevole osservazioni. L’onorevole Nitti si è lusingato di darci una piccola lezione di interpretazione del marxismo. Onorevole Nitti, siamo sempre disposti ad accogliere tutte le lezioni. Però, quando si tratta di una interpretazione del marxismo, diretta allo scopo di determinare la nostra politica, questa lezione ce la diamo fra noi. La sede di essa è il nostro comitato centrale, sono gli organi dirigenti del nostro partito. Se ella crede di entrare nel nostro partito (Ilarità), forse potrà anche collaborare alla elaborazione della dottrina marxista nei riflessi e nelle applicazioni che questa comporta nella vita politica di oggi. La porta non è chiusa per nessuno, e non è detto che ella non possa rapidamente superare i gradini che portano anche alle più alte cariche del partito, in modo che ella possa dare il suo contributo alle direttive di azione di un partito che si sforza di applicare alla situazione attuale precisamente i principi del marxismo. (Si ride).
Ma lasciamo gli scherzi, onorevole Nitti, ella ha detto una cosa che io non accetto: ella ha detto che i regimi socialisti non si conciliano con l’esistenza della religione. Non è vero: e questo è il punto che desidero chiarire meglio, perché illumina nel modo migliore la nostra posizione di oggi.
Vi è una sola esperienza in proposito, l’esperienza dell’Unione Sovietica. È evidente che nel corso della sua esistenza, l’Unione Sovietica ha dovuto attraversare differenti periodi, anche per questo riguardo. Ma che cosa avvenne in quel Paese? Avvenne che la Chiesa cristiana ortodossa, l’unica Chiesa ivi esistente, per il suo orientamento politico e per il tipo stesso della organizzazione, era strettamente vincolata al vecchio regime zarista, a quel regime di oppressione economica, politica e sociale, a quel regime di tirannide che era uno dei più arretrati, inumani e barbari di quei tempi.
Gli esponenti della Chiesa ortodossa ritennero di dover prendere la difesa del regime zarista e delle forze sociali che esso esprimeva, contro le masse di operai, di contadini, di intellettuali avanzati, che volevano rinnovare profondamente, su una base socialista, il loro Paese, e adempivano questo compito edificando un nuovo Stato, uno Stato socialista. Ebbene, il nuovo Stato accettò la lotta e vinse. Vinse, e non poteva non vincere, come non possono non vincere tutti i regimi che attuano profonde trasformazioni politiche e sociali, quando queste sono mature nella coscienza popolare e nello sviluppo stesso delle cose. Vinse, e la Chiesa ortodossa ne subì, per un periodo di tempo abbastanza lungo, le conseguenze.
Però noi vedemmo, già prima dell’ultima guerra, che la situazione era cambiata; e nel corso della guerra non soltanto funzionarono regolarmente, liberamente le istituzioni religiose, ma il sentimento religioso agì come stimolo alla lotta eroica delle grandi masse della popolazione di tutte le parti della Russia per la difesa della patria socialista minacciata nella sua esistenza dalle orde dell’invasione tedesca e fascista. Oggi esiste in Russia un regime di piena libertà religiosa (Commenti), e il regime socialista si rivela
perfettamente conciliabile con questa libertà.
Questo, colleghi democristiani, è il punto al quale io volevo arrivare, perché da esso traggo due insegnamenti: il primo è che non vi è contrasto fra un regime socialista e la coscienza religiosa di un popolo; il secondo è che non vi è nemmeno contrasto fra un regime socialista e la libertà religiosa della Chiesa, e in particolare di quella cattolica.
Questa è la posizione di principio più profonda, che non solo giustifica, ma spiega la posizione che noi prendiamo in questo voto. Vogliamo rendere sempre più evidente al popolo italiano questa verità. Quindi è inutile che vi poniate delle domande superflue: è inutile vi domandiate cosa c’è sotto. Non c’è sotto nient’altro che questo: il nostro voto sarà dato secondo convinzione e per disciplina: per disciplina a una linea politica, secondo la convinzione che questa politica è quella che meglio corrisponde agli interessi della nazione italiana.
Si dice che verrà chiesto un voto segreto, oppure che voteremo pubblicamente per appello nominale. Il nostro voto non cambierà, sia che si voti in segreto, sia che si voti apertamente. Non vi sono in noi preoccupazioni elettorali se non nel senso di tener fede alle assicurazioni che abbiamo dato agli elettori che hanno votato per noi… (Commenti animati-interruzioni).
Una voce: Non ci crediamo.
TOGLIATTI: Onorevoli colleghi della Democrazia cristiana, la vostra intolleranza è utile. (Commenti). Essa serve a dimostrare la validità delle argomentazioni dei vostri contraddittori. Ho cercato di dimostrare prima che è stato un inconveniente per noi aver dovuto trattare con voi e non direttamente con altre parti. Voi mi state dando la prova che ho ragione. Sono convinto che in un consesso di prelati romani sarei stato ascoltato sino alla fine con più sopportazione di quanto voi non mi abbiate ascoltato. (Commenti prolungati al centro).
PRESIDENTE: Mi sembra che i commenti siano già stati troppo lunghi. Permettano che l’onorevole Togliatti riprenda il suo discorso.
TOGLIATTI: Si è anche parlato di una eventuale minaccia di un appello al Paese, attraverso un referendum, o un plebiscito, minaccia che determinerebbe il nostro atteggiamento. Anche questo non è vero. Qualora noi ritenessimo che vi è una questione o un dissenso che bisogna portare dinanzi al popolo, noi stessi chiederemmo il referendum. E del resto, colleghi di parte monarchica, abbiamo vinto già una volta un referendum: siamo disposti a vincerne un altro. (Commenti).
Una voce a destra: Bene, si faccia il referendum !
CONDORELLI: Ne prendiamo atto.
TOGLIATTI: I motivi per i quali, visti fallire i nostri tentativi per arrivare attraverso una modificazione delle formule presentate o attraverso la presentazione di un ordine del giorno successivo al voto dell’articolo, i motivi per i quali, visti fallire questi tentativi, il gruppo parlamentare comunista ha deciso di votare per la formula che viene presentata, sono dunque motivi profondi, che investono tutto l’orientamento politico del nostro partito. La nostra lotta è lotta per la rinascita del nostro Paese, per il suo rinnovamento politico, economico e sociale. In questa lotta noi vogliamo l’unità dei lavoratori, prima di tutto, e, attorno a essa, vogliamo si realizzi l’unità politica e morale di tutta la nazione. Disperdiamo le ombre le quali impediscono la realizzazione di questa unità! Dando il voto che diamo, noi non sacrifichiamo, dunque, nulla di noi stessi; anzi, siamo coerenti con noi stessi sino all’ultimo. Siamo oggi quello che siamo stati in tutta la lotta di liberazione e in tutto il periodo di profonda crisi e di ricostruzione apertosi dopo la fine della guerra. Siamo oggi quel che saremo domani, nella lotta che condurremo insieme a voi, accanto a voi – se volete – o in contrasto con voi, per la ricostruzione, il rinnovamento, la rinascita d’Italia.
Siamo convinti, dando il nostro voto all’articolo che ci viene presentato, di compiere il nostro dovere verso la classe operaia e le classi lavoratrici, verso il popolo italiano, verso la democrazia e la Repubblica, verso la nostra patria! (Vivi applausi all’estrema sinistra -commenti animati).