Articolo di Paolo Ciofi
Ricorre il 21 gennaio il centenario della nascita di Bruzio Manzocchi (Francavilla Marittima 21 gennaio 1917 – S. Vincent 5 settembre 1961), che subito dopo la Liberazione si misurò sui temi della gestione sociale delle imprese e della organizzazione del lavoro insieme – tra gli altri – a Silvio Leonardi. Nonché sui nodi irrisolti e tuttora attuali della qualità dello sviluppo, delle nazionalizzazioni e di una politica economica innovativa fondata sui principi costituzionali, che approfondì nel volume Lineamenti di politica economica in Italia (1945—1959, Editori Riuniti 1960. Bruzio Manzocchi fu membro della Commissione economica centrale del CLN Alta Italia e segretario del Movimento dei consigli di gestione, per poi far parte della Commissione economica centrale del Pci, che diresse fino alla morte sopravvenuta improvvisamente a soli 44 anni. Pubblichiamo per l’occasione il ricordo di Paolo Ciofi scritto per Rinascita della sinistra nel novembre 2001.
Cresciuto in una famiglia socialista, Bruzio Manzocchi, che aveva assistito alle persecuzioni fasciste contro suo padre, conquistò gradualmente la consapevolezza di un impegno di lotta, e trovò nel Pci il terreno più fecondo per la ricerca intellettuale e l’azione politica. Come molti giovani intellettuali brillanti e colti del suo tempo, che intendevano cambiare il destino del proprio Paese, compì una scelta radicale e definitiva: “entrare nel partito – annotò nella sua autobiografia – significava, per me, dedicarvi interamente la mia attività e quindi indirizzare in modo nuovo la mia vita”.
Coloro i quali oggi ritengono di poter uscire dalla crisi della sinistra facendo ricorso alla formula magica del “riformismo”, che in sostanza significa il ritorno al Psi dopo aver cancellato il Pci, e cioè ripercorrere all’indietro il concreto cammino della storia così come si è configurato in Italia, dovrebbero riflettere sulle ragioni che indussero tanti giovani come Bruzio a scegliere il partito comunista muovendo dalla tradizione socialista. E anche sul perché la sinistra nel suo insieme oggi appare ai giovani così poco attraente.
Valtellinese di Morbegno, Manzocchi era nato nel 1917 in Calabria a Francavilla Marittima, dove il padre imprenditore si era recato a costruire una teleferica. Aveva ottenuto la laurea in legge a Milano nel 1938, e dopo essere stato per qualche tempo assistente di Scienza della finanze a Venezia entrò in fabbrica alla O.M.. In questa nuova collocazione si dedicò agli studi di economia generale e applicata, in particolare all’organizzazione dell’impresa in Germania, Francia e Stati Uniti, disciplina nella quale conseguì una seconda laurea all’Università di Neuchatel.
In Svizzera era riparato dopo l’otto settembre 1943 per sfuggire ai tedeschi. Rientrato in Italia, lo troviamo già nel 1945 nella Commissione economica centrale del CLN Alta Italia e poi segretario del Centro economico per la ricostruzione. Ma l’esperienza sicuramente più significativa, prima di essere chiamato alla Commissione economica centrale del partito, che diresse fino alla morte sopravvenuta improvvisamente a soli 44 anni nel 1960, fu quella di segretario del movimento dei Consigli di gestione.
Era il tempo della ricostruzione materiale e morale dell’Italia, e dell’impianto del partito comunista di massa nella società italiana lacerata e distrutta. Due compiti di enorme portata, che camminavano di pari passo nella prospettiva della costruzione di una democrazia di tipo nuovo, fondata sulla libertà garantita dalla partecipazione dei lavoratori e delle masse, e tale da lasciare la porta aperta a trasformazioni di tipo socialista. L’appeal del Pci fu grande, e Bruzio Manzocchi ne fu sedotto fino a diventare protagonista, perché i comunisti, che erano stati i combattenti più coerenti e coraggiosi contro il fascismo, indicavano per l’Italia una grande idea di cambiamento.
Togliatti, rientrato in Italia, non si presentò con le formule morte dei politicanti e degli azzeccagarbugli, non propose un ritorno al passato né indicò nell’applicazione di un modello sperimentato altrove la via da seguire, ma muovendo dall’analisi dei fatti in buona sostanza sovvertì gli schemi usuali del movimento operaio e dei partiti comunisti. “Oggi – affermò nel suo primo discorso pubblico appena sbarcato a Napoli nel 1944 – non si pone agli operai italiani il problema di fare ciò che è stato fatto in Russia”. Si trattava, invece, di lavorare per creare in Italia un regime democratico avanzato, obiettivo che poteva essere realizzato solo mettendo in moto le masse, adottando una politica che non solo nei fini, ma anche nei mezzi e nel metodo, fosse popolare e partecipata.
Mario Tronti, che non si può definire un “togliattiano”, ha notato come nell’impostazione nuova di Togliatti, che si sublima nel partito di massa come strumento della politica non più monopolio delle avanguardie e delle élites, viene superata la storica contrapposizione tra rivoluzionari e riformisti che aveva segnato il secolo: la rivoluzione non come unico atto risolutivo (la presa del Palazzo d’inverno), ma come processo che avanza già prima della conquista del potere, secondo quanto aveva insegnato Gramsci; le riforme non come provvedimenti tecnico-istituzionali in apparenza “oggettivi”, ma come misure che incidono nella struttura della società, spostando reddito e potere a vantaggio degli operai e dei lavoratori. Dunque, una sintesi originale di rivoluzione e riforme, che concepisce la politica non come protesta bensì come processo costruttivo di un nuovo blocco storico, e che perciò, lavorando per una nuova società, non si risolve nella fornitura di qualche pezzo di ricambio al capitalismo dominante.
Manzocchi aveva colto¸ nel campo nella politica economica, tutta la portata innovatrice di questa impostazione. Da un lato, si trattava di battere il liberismo, che nella pratica e nella dottrina negava l’esistenza dei monopoli (“non saprei indicarvi casi specifici”, affermava Epicarmo Corbino) o li vedeva nello Stato e nei sindacati (che secondo il prof. Papi “sono i più grandi monopolisti”), identificando il “libero mercato” con il dominio del grande capitale: davvero il Cavaliere non ha scoperto niente di nuovo. Dall’altro lato, però, non si poteva rimanere imprigionati nel keynesismo e nella logica puramente quantitativa derivante dalla teoria della domanda effettiva, perché ricostruendo il Paese occorreva incidere nella qualità del suo sviluppo.
In Manzocchi era lucida la consapevolezza che per determinare una diversa qualità dello sviluppo, non più dominato dagli interessi delle grandi concentrazioni capitalistiche, sarebbe stato necessario intervenire nel processo di accumulazione. Per ciò, per compiere scelte per l’appunto qualitative, era indispensabile mettere in campo molteplici strumenti di politica economica e fiscale, insieme a un’azione riformatrice capace di incidere nei rapporti di produzione e nella struttura della società. Il rilievo dato alla qualità dello sviluppo, alla necessità di selezionare investimenti e consumi, al nesso tra lotte rivendicative e lotte per le riforme fanno di Manzocchi, a mio parere, un vero anticipatore.
Significativa la sua polemica con Ezio Vanoni nel libro da lui dedicato alle vicende della politica economica in Italia e pubblicato nel 1961 dagli Editori Riuniti. Se si rimane alla superficie dei fenomeni economici – osservava – vale a dire ai loro aspetti puramente quantitativi, quando il saggio di accumulazione è insufficiente (come storicamente si è verificato in Italia) di solito si agisce secondo una vecchia e consolidata formula, “tradizionale nei ceti conservatori”, che era alla base dello “schema Vanoni”: “poiché il reddito prodotto, se non investito, è consumato, si riducano i consumi a vantaggio degli investimenti e il problema è risolto”. “E’ invece necessario rendersi conto – precisava – che tra accumulazione e sviluppo economico esistono relazioni qualitative, inerenti alla struttura sociale (…), e che solo modificando queste relazioni si può realizzare uno sviluppo economico rispondente e alle possibilità materiali esistenti e ai bisogni della collettività”.
Non era un dogmatico che pretendesse di mettere le brache al mondo, e tanto meno un apologeta dell’esistente. Direi che era uno sperimentatore, un galileiano dell’economia, che provando e riprovando, muovendo con caparbietà dall’analisi dei fatti cercava la via per trasformare la realtà. Sapeva che l’economia non è un’entità sovraordinata e metastorica, governata da “leggi” bronzee e immutabili, ma il risultato dell’attività umana e di determinate relazioni tra gli uomini, e che perciò per sua natura è dinamica e trasformabile, come gli aveva insegnato quel tale di Treviri.
La costanza dello sperimentatore e la fiducia nella trasformazione sono due caratteristiche che mai hanno abbandonato Bruzio Manzocchi nella sua febbrile attività di economista e dirigente politico, di educatore e pubblicista: sia che si occupasse dei Consigli di gestione, tema su cui bisognerebbe ritornare in modo approfondito, sia che analizzasse potenzialità e limiti del piano del lavoro proposto dalla Cgil. Sia che trattasse il tema scottante della nazionalizzazioni, problema non di quantità – come non si stancava di ripetere – ma qualitativo, “cioè del tipo di politica che l’iniziativa democratica riesce ad imporre agli organismi del capitalismo di Stato”. Sia che si misurasse con il nodo allora inedito della programmazione regionale, opponendo alla staticità delle compatibilità date una visione dinamica, capace cioè di “modificare le condizioni esistenti”, come disse nella sua ultima relazione il giorno prima di morire a Saint Vincent.
Una visione sperimentale e dinamica, illuminata da due principi ben saldi: l’affermazione dei diritti degli operai e dei lavoratori, e la “Costituzione come base di una politica economica”. Di fronte ai formulismi vuoti del momento mi viene da dire: Caro Bruzio, è ancora oggi un buon programma. Ma bisogna avere, come hai avuto tu, il coraggio e la forza di lottare per attuarlo.