Il Comunismo italiano tra presente e passato

Intervista a Fulvio Lorefice sulla situazione politica italiana rilasciata alla rivista americana Jacobin con il titolo “Italy’s Past Glories”

Il Partito Comunista Italiano (PCI) era un partito con sensibilità diverse. Secondo Palmiro Togliatti era una ‘giraffa’ con una tradizione democratica e nazional-popolare, ma legato allo stesso tempo alla parabola leninista del Comintern. Durante la leadership riformatrice di Enrico Berlinguer negli anni ’70 e nei primi anni ’80, il PCI rimase attaccato a questo passato, anche se cercò di accentuare la sua autonomia da Mosca. Il PCI morì insieme all’Unione Sovietica nel 1991, quale eredità ha lasciata il comunismo italiano?

«Neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince». Il comunismo italiano non si è sottratto al celebre vaticinio di Benjamin. Se è vero che quell’eredità continua ad informare alcune culture politiche della sinistra italiana è altrettanto vero che nella sua traduzione maggioritaria, quella cioè «migliorista», forte è l’impronta «nemica».

Il realismo di Togliatti era finalizzato alla costruzione di rapporti di forza favorevoli nella società e si inscriveva in un disegno politico di emancipazione e progresso. Dopo l’89 il «migliorismo» degli ex Pci è consistito invece in una semplice funzione descrittiva della realtà: un pragmatismo politico fine a se stesso, privo di referenti sociali e orizzonte strategico. Per costoro la rincorsa ad un baricentro politico che andava spostandosi a destra non è mai finita, per legittimare questa deriva si è svuotato di significato il lessico togliattiano che ha assunto una funzione ornamentale. Nella percezione comune il «peggiorismo», andrebbe così definita la cultura politica della destra Pci dopo l’89, rappresenta drammaticamente uno dei principali lasciti del comunismo italiano in termini di cultura politica. La cultura del conflitto per i beni economici è stata accantonata, come se i paradigmi legati ai valori, ai diritti civili, alla partecipazione cognitiva avessero vita autonoma.

Nel discorso politico della sinistra italiana prevale non a caso una lettura del cambiamento addomesticata, che prescinde sostanzialmente dal tema del conflitto. Si è perso di vista un dato ben presente a Togliatti, quello dell’essenzialità della pressione dal basso da parte delle classi subalterne in vista della conquista e della stabilizzazione di nuovi spazi di democrazia e di avanzamento sociale. Senza la dimensione del conflitto, tutto si riduce infatti alla pura e semplice amministrazione dell’esistente.

Per il resto del comunismo italiano sopravvive poco altro: alcune prestigiose figure sono state culturalmente imbalsamate, altre demonizzate e accusate di ogni nefandezza. Eppure basta sfogliare alcune riviste non direttamente politiche – come «Il Contemporaneo», «Riforma agraria» o «Cinemasessanta» – per avere un’idea di quel patrimonio.

Alcuni sostengono che l’eredità del PCI è ancora centrale nella vita pubblica italiana. Al momento di ‘scendere in campo’ nel 1994 Silvio Berlusconi disse che il suo scopo era resistere ai “comunisti”, benché il PCI si fosse sciolto nel 1991. Berlusconi accusò il Partito Democratico della Sinistra (PDS) di perpetuare l’influenza comunista nell’amministrazione statale, nei media e nei tribunali con un nuovo nome. Il PDS era la continuazione del PCI o di una sua parte? Fino a che punto ha mantenuto la base elettorale del vecchio PCI e i legami con i movimenti sociali e sindacali?

Il partito che nacque a Rimini nel 1991 rivelò immediatamente le sue fragilità: al congresso costitutivo Occhetto non raccolse i consensi necessari per essere eletto segretario. L’improvvisazione ideale e la sciatteria politica che contrassegnò quel passaggio provocarono l’avversione di moltissimi dirigenti, quadri e militanti, che pur avevano condiviso l’opportunità di voltare pagina con la precedente storia.

Evaporata la tensione ideale, il gruppo dirigente del nuovo partito, legato dalla comune biografia, aveva trovato nuova linfa nella ricerca della dimensione di governo. Alla convinzione della propria superiorità, forgiata dalle vicende storiche, si accompagnava l’ansia di accreditarsi come forza responsabile di fronte all’establishment.

Almeno in un primo frangente il Pds rappresentò quindi un fattore di accelerazione dello spostamento a destra del baricentro politico. Certo pesava il quadro internazionale ma non si riflette mai abbastanza sulle gravissime responsabilità soggettive che quel primo gruppo dirigente del Pds ebbe nell’introduzione del sistema elettorale maggioritario in Italia. Una vera e propria sciagura, le cui conseguenze vengono ancora oggi pagate delle sinistre in Italia. L’attacco al sistema proporzionale, l’unico in grado di garantire l’uguaglianza del voto e la centralità del Parlamento, perno della socializzazione del potere, si combinò non a caso con un’offensiva senza precedenti contro la democrazia sociale.

La via della moderazione salariale, intrapresa dalla CGIL con la cosiddetta «svolta dell’Eur» del 1978, venne sostanzialmente codificata nel luglio del 1993. Non è questa la sede per un’analisi delle premesse e degli esiti della cosiddetta «concertazione» ma l’involuzione del quadro politico italiano e l’indebolimento della sinistra non possono certamente comprendersi senza considerare questo aspetto. Gli artefici politici e sindacali della Bolognina offrirono il protagonismo del mondo del lavoro sull’altare di quello che nel gergo economico si definisce «vincolo esterno»: la necessità di ancorare l’Italia nel perimetro dell’Unione monetaria europea, anche a costo di ridurne l’apparato produttivo ad appendice di quello tedesco e di ridimensionare la sfera delle protezioni sociali. Lungo questo cammino venne ulteriormente dissipato quel capitale di intelligenze, capacità e insediamento, che era transitato nel Pds.

Circa un terzo degli iscritti al PCI rifiutò di confluire nel PDS e la maggior parte di questa minoranza tentò di “rifondare” il partito come Rifondazione Comunista. In che senso Rifondazione si è presentata come prosecutrice del PCI e del suo apparato simbolico, da Gramsci alla Resistenza passando per la difesa della Costituzione? Cosa definì politicamente un partito, come Rifondazione, in cui convivevano ex dirigenti del PCI, come il ‘filo-sovietico’ Cossutta, de il manifesto, ma persino di correnti dalla sinistra extraparlamentare e dal trotzkismo?

Il PCd’I si formò attorno ad un programma ben definito, le famose ventuno condizioni: una contingenza unica, figlia della Rivoluzione dell’Ottobre 1917. Rifondazione Comunista, di converso, non nasce attorno ad un programma ben definito ed è soprattutto figlia di quella che potrebbe essere definita la spinta regressiva dell’89.

La mancanza di un programma condiviso e la scarsa coesione culturale erano da considerarsi almeno inizialmente condizioni date. Se quindi, in una prima fase, i riferimenti al Pci – benché prevalenti – coesistevano con quelli della cosiddetta «Nuova sinistra», strada facendo all’interno di Rifondazione si è fatta strada la cultura altermondialista – divenuta dalla fine degli anni ’90 sostanzialmente egemone.

Veniamo, quindi, al nocciolo della questione. In molti, a partire da Aldo Tortorella, ritengono che la crisi dell’esperienza di Rifondazione fosse inscritta nelle fragili ed eterogenee basi strategiche e ideologiche originarie. A questo riguardo credo opportuno riflettere sull’omogeneità politico culturale del primo gruppo dirigente del Pci. Dissensi profondi erano esistiti tra dagli «astensionisti» di Bordiga, i «massimalisti» e il gruppo torinese dell’«Ordine Nuovo». Si pensi ai rimproveri rivolti a Gramsci per un articolo dell’ottobre 1914 in cui aveva perorato il passaggio dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante. Nonostante il collante costituito dalla Rivoluzione d’Ottobre e l’azione metodica dell’Internazionale, dopo nemmeno due anni dalla sua fondazione quel partito – non a caso – era giunto a una profondissima crisi della direzione: fu Togliatti a raccontarlo.

Subentrò qui l’elemento soggettivo, ciò che Gramsci definì la «bolscevizzazione» del partito. A partire dal 1924 si innescò infatti un processo di costituzione di un nuovo gruppo dirigente. Collettivamente venne quindi a compiersi, come scrisse Togliatti, «un effettivo progresso qualitativo nella capacità sia di comprendere le situazioni oggettive, nazionali e internazionali, sia di adeguare ad esse non solamente una propaganda e un’agitazione, ma una vera azione politica».

Tale unificazione politica sulla base non di una lettura univoca della precedente storia ma di un programma politico di fase, è certamente mancata a Rifondazione Comunista. Con l’elezione a segretario di Bertinotti, quella strutturazione eterodossa e plurale del partito, che in una prima fase aveva rappresentato una straordinaria forza, si cristallizzò divenendo uno straordinario limite. Probabilmente il più grande limite. Si badi: non si sostiene qui che culture e sensibilità politiche diverse debbano azzerarsi nell’ambito di un percorso politico, si ritiene però dirimente la capacità di saperle coniugare e sintetizzare ad un punto più avanzato nel medio-lungo periodo. L’impressione, in questo caso, è che da questo momento in poi Rifondazione abbia proceduto attraverso mediazioni, o costanti negoziazioni, tra esponenti di culture politiche che erano diverse in partenza e che tali resteranno ancora a lungo. A ragione ancora oggi, dopo più di vent’anni, è possibile discutere dell’esistenza o meno di un corpus, in qualche misura organico, di pensiero politico di Rifondazione. Semplificando si potrebbe dunque dire che sia mancato l’elemento soggettivo: l’intellettuale collettivo. Quel grado di «maturità politica» di cui scrisse Gramsci.

La ricerca di nuovi riferimenti ideali nelle culture dell’indigenismo, pacifismo, post-operaismo, psicanalisi, socialismo utopico, libertarismo, si è risolta infatti nel mero culto delle differenze, accentuando la fragilità teorica del partito. Così facendo, la mediazione dell’esperienza, fulcro del pensiero marxista, è stata di fatto accantonata. Sulla via del sincretismo magico si sono completamente smarrite le nozioni fondamentali di strategia, tattica, classe, organizzazione. Caso più unico che raro nel panorama dei partiti comunisti, Rifondazione non ha mai espresso sostanzialmente una linea politica sul terreno sindacale.

Contraddittorie sono quindi state le riflessioni critiche sulla storia del Pci, così come i riferimenti internazionali di Rifondazione. Per una lunga fase il partito si è retto soltanto sul suo leader, Bertinotti, artefice di un’inedita personalizzazione dell’organizzazione, e sul residuo insediamento territoriale di ex Pci e Nuova sinistra.

Una prima scissione nelle file di Rifondazione avvenne nel 1995-6. Dopo la fine del primo mandato di Berlusconi, si insediò un governo tecnico guidato da Lamberto Dini che impose tagli al bilancio. Rifondazione nel suo complesso rifiutò di sostenere la sua politica economica, ma questa scelta indusse gli ex il Manifesto, Luciana Castellina e Lucio Magri che avevano sostenuto Dini per impedire il ritorno di Berlusconi, a uscire dal partito mentre un altro deputato di Rifondazione che aveva votato per Dini, come Nichi Vendola, rimase nel partito. In quale maniera questo tipo di anti-berlusconismo o la preoccupazione di Rifondazione di difendere le istituzioni repubblicane da lui minacciate, influenza l’orientamento del partito?

Di fronte al governo Dini lo scontro interno in Rifondazione fu acceso e produsse, come noto, alcune lacerazioni. Ciò nonostante questo partito rappresentò un argine fondamentale a difesa dei diritti di lavoratori e pensionati in questa fase. Era il contesto a mutare in peggio. «Baciare il rospo» fu il titolo con cui il quotidiano «il Manifesto» espresse il suo sostegno al governo Dini e in questo proposito è condensata la strategia della sinistra liberal e del cattolicesimo sociale del ventennio successivo: costituire un moderno «Comitato di Liberazione Nazionale» con cui porre fuori gioco Berlusconi e le destre. Se è vero che a tale formula, dopo alterne vicende, approderà lo stesso Bertinotti nel 2006, vale la pena sottolineare ancora una volta il condizionamento negativo esercitato dal sistema elettorale maggioritario e dalla mistica della «governabilità». Quella politica istituzionale volta, cioè, all’eliminazione di ogni istanza sociale incompatibile con il liberismo. L’introiezione culturale delle sue ragioni nell’elettorato della sinistra storica, promosso dal Pds/Ds con la sempiterna retorica della «responsabilità nazionale», pose ciclicamente all’angolo del sistema politico Rifondazione, accusata ad ogni piè sospinto di «massimalismo» e «irresponsabilità».

Per molti nel panorama della sinistra europea, nei primi anni del nuovo millennio Rifondazione rappresentava un modello. Si pensi soprattutto al periodo dei Forum Sociali, delle proteste contro il G8 a Genova nel 2001 e della mobilitazione contro la guerra in Iraq. In questo periodo, Rifondazione sembrò capace di unire un’efficace azione parlamentare con una certa apertura ai movimenti sociali – molto più di partiti come Die Linke in Germania o il Partito comunista francese. Puoi spiegare perché il partito andò in quella direzione e quali risultati furono conseguiti da Rifondazione e dai movimenti stessi? Che tipo di leadership politica offrì?

Gli ultimissimi anni del XX secolo videro Rifondazione dibattere sul rapporto col centro-sinistra e su quello coi movimenti. Un rapporto avanzato coi secondi, negli intendimenti di Bertinotti, avrebbe contribuito infatti alla modificazione del quadro politico nazionale. Rifondazione si spese quindi generosamente nelle mobilitazioni no-global. Sotto il profilo teorico nel gruppo dirigente fecero breccia le suggestioni sull’«Impero» di Negri e Hardt mentre l’ottantesimo anniversario della fondazione del Pci fu l’occasione per assumere la critica dello stalinismo nel dna di Rifondazione. Come da più parti osservato, l’esigenza di operare una cesura con la storia precedente e di «rifondare» l’identità mostrò presto la corda. Il proposito di uscire «da sinistra dalla crisi del movimento operaio» rimase quanto mai vacuo. La storia, nel volgere delle poche settimane che separarono il G8 di Genova dall’attentato alle Twin Towers, si prese peraltro la briga di smentire categoricamente le tesi sul declino degli stati-nazione in favore del potere sovranazionale dell’«Impero» mentre fu presto evidente che la questione dello stalinismo altro non era che strumento d’attacco alla minoranza interna. Il tema del rapporto coi movimenti produsse nel partito e nell’area culturale della sinistra italiana due attitudini. Una minoritaria interpretava i movimenti come la domanda sociale da soddisfare, l’altra maggioritaria proponeva invece di fare tabula rasa di ogni impianto analitico novecentesco in nome di un «nuovo inizio». Negli ambienti giovanili del partito fecero quindi capolino proposte di scioglimento dell’organizzazione nel movimento. Gli effetti di questa vicenda si manifesteranno nel medio-lungo periodo in termini di perdita di autorevolezza del partito e della sua funzione propulsiva, determinando in ultima analisi un complessivo impoverimento organizzativo.

Nel 1996-8 Rifondazione diede un sostegno esterno al primo governo di centro-sinistra guidato da Romano Prodi, giungendo successivamente a scindersi con quanti all’interno del partito intendevano partecipare pienamente al governo. Eppure nel 2006 Rifondazione prese parte al nuovo governo Prodi. Come valuteresti la sua esperienza governativa? Ha mai offerto qualcosa di diverso dal resto dell’alleanza centro-sinistra? E cosa possiamo dire dell’insuccesso alle elezioni del 2008? Tale dato riflette gli esiti dell’esperienza nel governo o un più generale declino e smobilitazione dei movimenti sociali e della sinistra?

È molto complesso esprimere giudizi articolati su fenomeni contemporanei. Si può tuttavia affermare che il saldo generale di queste esperienze è negativo per tutta la sinistra. Tale esito non era inscritto nelle premesse, sulla prassi politica credo abbia pesato la mancata comprensione di alcuni fenomeni strutturali venuti a compiersi in questi anni in Europa e a cascata in Italia.

Negli intendimenti formali di Ciampi, Prodi e dei gruppi dirigenti dei partiti del centro-sinistra, all’euro è affidato il compito di motore iniziale di un processo riformatore, in grado di inserire l’Italia e quindi l’Europa tra i grandi protagonisti della politica e dell’economia mondiale. Nella sostanza i trattati europei (artt. 119-120 del TFUE) proclamano l’assoluta sovranità del mercato, dotandolo delle forme adeguate e dei modi efficaci per esercitarla. Come tali sono ridotti a mere declamazioni gli enunciati degli articoli 2 e 3 del TUE, specie quelli sui diritti sociali, subordinandone il godimento alle disponibilità dei bilanci statali.

Il primo punto di contraddizione riguarda i trattati dell’Unione che, contrariamente alla Costituzione italiana, antepongono la lotta all’inflazione e la stabilità dei prezzi al diritto al lavoro e al salario. Il secondo attiene la democrazia e la sovranità popolare svilite dal vigente ordinamento europeo. Su questi due punti ma se ne potrebbero citare degli altri, non vi era e non vi è adeguata consapevolezza nella sinistra. In questo senso il dibattito italiano è ancora oggi di gran lunga il più povero, arretrato e mistificatorio dell’intero continente. Per gran parte della sinistra italiana l’Unione Europea è un tabù, su questo come su altri argomenti prevalgono quindi fideismo e pensiero magico. Quella al neo-liberismo tende a essere per la sinistra italiana una critica alla sovrastruttura politico-ideologica e non alla struttura economica.

La mancata comprensione delle trasformazioni economiche e delle articolazioni politiche che ne sono espressione non ha consentito di trarre per tempo le necessarie conseguenze in termini di tattica. Nel momento in cui Beppe Grillo muoveva i suoi primi passi, tra il 2007 e il 2009, non si era ancora compreso – per esempio – il salto qualitativo rappresentato dalla nascita del Partito Democratico e la natura degli interessi di cui si rendeva garante. Non a caso Rifondazione e la sinistra tutta ragionavano ancora in quella fase di un CLN con cui mandare a casa Berlusconi. Queste insufficienze rispetto alla fase storica hanno lasciato il campo ad un fenomeno squisitamente italiano qual è per l’appunto Grillo e il Movimento 5 Stelle, divenuti campioni del «que se vayan todos!».

Discorso analogo può farsi per il Partito della Sinistra Europea, cui è mancato e manca una strategia in grado di collegare l’azione nei singoli stati nazionali sulla base di un piano generale. Per questa ragione non può sottovalutarsi la riflessione, promossa da alcuni esponenti di sinistra della socialdemocrazia europea come Lafontaine e Mélenchon, attorno al ruolo dell’euro e al posizionamento politico da tenersi. Una dialettica cui dovrebbe collegarsi la stessa sinistra italiana.

Secondo i sondaggi, circa il 40% degli operai ha intenzione di votare per il Movimento Cinque Stelle il prossimo 4 marzo nonché il 30% dei giovani e dei disoccupati. Perché la sinistra italiana non riesce più a parlare a queste fasce sociali? Perché non è più in grado di reclutare giovani?

La crescita del consenso verso il M5S tra i lavoratori e i giovani ha trovato terreno fertile nell’arretramento in termini di coscienza politica e di classe, verificatosi a livello di massa in ragione della mutazione genetica del Pci / Pds. Persa la propria visione del mondo, e rimossa la consapevolezza di appartenere ad una classe sociale, in questo trentennio il lavoratore italiano è finito in balia della narrazione ideologica che lo vuole cittadino tra i cittadini. Se allora “uno vale uno”, è del tutto naturale che il lavoratore ceda alle sirene della competizione sociale, dell’etica individualista e della cosiddetta meritocrazia, rivolgendo la sua attenzione ad una forza politica – come ad esempio il M5S – che propone un’emancipazione individuale e soluzioni di breve termine, piuttosto che rivolgerla a chi propone un percorso di lotta per raggiungere e soddisfare un ormai troppo evanescente ed impalpabile interesse collettivo. Le principali organizzazioni della sinistra che hanno cercato di invertire la predetta tendenza storica godono oggi di scarsa credibilità e autorevolezza, anche in ragione del contraddittorio posizionamento politico da esse espresso rispetto all’establishment dell’ultimo ventennio e al modestissimo conflitto sociale nel paese. Chi, come il Movimento 5 Stelle, ha mantenuto invece un’assoluta alterità allo status quo gode di grande credito. Attraverso la denuncia dei costi e del malaffare in politica, questo movimento è riuscito a costituire in Italia una base di massa, con moltissimi addentellati tra i settori popolari benché sia espressione della piccola-media borghesia contraria all’Unione Europea.

Nella percezione di moltissimi giovani, operai e disoccupati, le difficoltà economiche, l’incertezza sul futuro, così come l’insoddisfazione per una qualità della vita in costante calo – temi ineludibilmente connessi alla crisi economica e alle soluzioni politiche fin qui adottate – originano pressoché unicamente dal problema della «casta». Tale costrutto politico ha, quindi, rappresentato per un verso una «risposta» politica e ideologica delle classi dominanti al tema della crisi, per l’altro uno strumento attraverso cui modellare l’ordinamento politico. Come nel caso del «sistema del 1896» negli Stati Uniti, ad essersi insediate in una posizione di controllo ben più salda della sfera pubblica nazionale risultano essere, infatti, le oligarchie economiche.

La sinistra dal canto suo ha impiegato moltissimo tempo per affrancarsi dal rapporto con i partiti garanti dell’austerity e ha colpevolmente sottovalutato la capacità che aveva una certa declinazione del tema della «casta» di fortificare un senso comune, che conteneva per molti aspetti elementi di verità. La modestia e la contraddittorietà delle iniziative politiche in merito, a fronte di una massiccia offensiva culturale, ha prodotto un ulteriore brusco arretramento.

Nella prospettiva delle elezioni politiche del 4 marzo, il Prc partecipa alla lista Potere al Popolo. Questa iniziativa, lanciata dall’ex-OPG di Napoli, vuole unire i movimenti sociali, il Prc e anche altri partiti comunisti più piccoli, ma non si autodefinisce da comunista. Secondo te quali possibilità esistono oggi per ricomporre il movimento comunista e una sua identità comunista?

Il dato odierno è che il quadro oggettivo è aggravato da quello soggettivo. Le condizioni materiali dei subalterni peggiorano anche in ragione dei limiti che esprimono le organizzazioni politiche che vorrebbero rappresentarli. Al contempo il quadro soggettivo è aggravato da quello oggettivo, peggiorano cioè le condizioni delle organizzazioni in ragione della distanza dalla dinamica sociale concreta. L’autoreferenzialità della sinistra deriva in ultima istanza da questo. Risolvere questo dilemma non è affatto semplice. In Spagna, dove la situazione della sinistra è stata per decenni disastrosa, è stato risolto da Podemos politicizzando una mobilitazione per moltissimi versi civica. In Italia alcune occasioni non sono state colte, penso in particolare alla mobilitazione referendaria per l’acqua e in termini molto diversi alla manifestazione del 15 ottobre 2011. In entrambi i casi è mancato un soggetto politico in grado di esprimere una direzione consapevole a questi processi e un programma politico di fase.

Le elezioni in questo quadro più che rappresentare una soluzione, possono indicare quanto si è lontani o vicini da una meta. Più di ogni altra cosa, per Potere al Popolo, ciò che conta è offrire un programma di mobilitazione e lotte per il domani, dando continuità al processo. Il dibattito sull’unità della sinistra, dei comunisti o di entrambi, ha senso quindi dentro un movimento reale, non al suo esterno. In una società sempre più passivizzata come quella italiana, focalizzare la propria attenzione sui segmenti sociali e le articolazioni politiche che esprimono una qualche forma di coscienza, che sono pochi, rischia peraltro di risultare politicamente inadeguato. Il sostegno politico in favore di un cambiamento della realtà sociale va ricercato tra coloro i quali oggi non partecipano. Il tema dell’astensionismo, sempre più rilevante nella dinamica elettorale italiana, esprime in questo senso una precisa connotazione di classe: sono, infatti, i settori popolari quelli che progressivamente stanno scivolando verso il disimpegno e il non-voto.

In passato il PCI e persino Rifondazione erano visti in altri paesi come modelli, adesso sembra che una certa subalternità culturale abbia preso il sopravvento sulla sinistra italiana, per cui ci si affretta a imitare l’ultimo ‘esempio’ dall’estero, considerato come una soluzione ai problemi propri dell’Italia. La sinistra italiana dove potrebbe trovare i mezzi per uscire da questo circolo vizioso e in che senso la sua storia è utile per farlo?

L’interesse nutrito dalla sinistra italiana in questi ultimi anni per Syriza e Podemos è stato molto superficiale. L’attenzione più che concentrarsi sulle dinamiche politiche e sociali da cui sono scaturite quelle esperienze, si è rivolta alle espressioni esteriori, mediatiche, della leadership. L’insegnamento politico comunemente tratto dall’esperienza di Syriza e Podemos è stato l’esaltazione del momento monocratico e la connessa ricerca di un salvifico nuovo leader.

Questa lettura così approssimativa di due fenomeni complessi è parte di una profonda involuzione culturale e intellettuale. Più debole è la capacità di direzione e influenza politica espressa dalle organizzazioni della sinistra italiana e più angoscioso è il loro patimento. Questa condizione psicologica ha molteplici riflessi, condensabili nella tendenza generale a concepire la politica come un’attività irrazionale, presieduta da logiche imperscrutabili. La politica acquista carattere di scienza, scriveva Togliatti, quando è invece «risultato di approfondita ricerca delle condizioni in cui si muovono le società umane, i gruppi che le compongono e i singoli». Quando cioè l’azione organizzata di movimenti e organizzazioni si basa sulla conoscenza approfondita della realtà sociale. La capacità, cioè, di precedere e accompagnare la lotta e la mobilitazione, con lo studio, l’indagine, la conoscenza delle strutture della società, della dinamica delle classi. Una capacità che consente di «comprendere», e quindi «giustificare storicamente, tanto l’avanzata quanto la ritirata o l’arresto, tanto la vittoria quanto la sconfitta». Politica quindi come scienza: un principio che il marxismo aveva contribuito a fondare, e del quale oggi la sinistra, in preda agli irrazionalismi del primitivismo politico, sembra avere grande bisogno.

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