Relazione di Gennaro Lopez, Presidente di Futura Umanità all’assemblea annuale del 17 Marzo

Se nell’anno trascorso la nostra associazione ha continuato ad essere attiva, lo si deve non certo a me e alle mie altalenanti condizioni di salute (che permangono), ma alla tenacia delle compagne e dei compagni del CD, che qui voglio ringraziare di vero cuore, riservando un particolare e affettuoso ringraziamento a Paolo Ciofi, vera “spinta propulsiva” per tutti noi, che trarrà le conclusioni di questa assemblea.
Non possiamo ovviamente prescindere in questa sede da considerazioni sul voto del 4 marzo scorso, un voto che consegna la vittoria alla Lega di Matteo Salvini e al M5S di Luigi Di Maio.
Con questa situazione inedita bisogna fare i conti con realismo, con coraggio, con la consapevolezza della gravità della crisi. Questa Italia è il paese in cui, fino a qualche anno fa, nessuno avrebbe immaginato un uomo che andasse in giro avvolto nel tricolore a sparare ai “negri”. Di fronte agli istinti razzisti e fascisti, di fronte alle spinte egoistiche e alla cura ossessiva degli interessi privati, di fronte al disprezzo per gli altri o al disinteresse per il destino degli altri, sembra che non esistano più anticorpi. S’è liquefatto lo spirito pubblico, disperso il senso di comunità, smarrita l’attenzione al bene comune. Si sono spezzati i legami sociali oltreché quelli politici. E ora? Come si libera il campo dalle macerie per ricostruire una sinistra? Che cosa può fare ciascuno di noi? Che cosa la nostra associazione?
Questo voto segna la pesante sconfitta del renzismo e del suo tentativo di attrarre i voti di centrodestra e quelli grillini con un populismo light e liberista. Si era capito il 4 dicembre del 2016 che quella storia si era chiusa, ma l’ostinazione di Renzi non ha fatto altro che condurre il Pd ai livelli più bassi mai raggiunti. Purtroppo, però, la sconfitta non si ferma a Renzi e al suo PD. Escono battuti, con un risultato pessimo, anche LeU e Potere al Popolo. Ma se l’esperimento di LeU può considerarsi chiuso, non può dirsi la stessa cosa per Potere al Popolo, che aveva messo in conto di non arrivare al 3% e tenterà di riavviare un suo percorso: vedremo.
Ora però comincia un’altra storia. C’è bisogno di ricostruire una grande e unitaria soggettività politica che sappia radicarsi tra le masse e interpretare i bisogni del Paese in chiave di uguaglianza e solidarietà, ponendo al centro dell’iniziativa politica i temi del lavoro e della Costituzione repubblicana e antifascista. Un soggetto politico della sinistra che sappia inventare un nuovo modo di fare politica, lontano da improvvisazioni elettoralistiche, da settarismi, personalismi, opportunismi, astrattismi e burocratismi. C’è bisogno di identità nette e di parole chiare. In fasi di polarizzazione politica e sociale elevata, con rischi evidenti di involuzione reazionaria nelle istituzioni (tra presidenzialismo e abolizione del divieto del vincolo di mandato), ci si può salvare dalle trappole dei meccanismi elettorali solo con un forte impianto progettuale, strategico e di radicamento sociale. Non sarà facile, ma questa è la sfida, alla quale abbiamo il dovere di non sottrarci. Tentiamo intanto qui un primo e provvisorio catalogo di questioni da approfondire e studiare.
Il mondo si è fatto abissalmente diseguale: nel quale 8 (otto!) super ricchi possiedono l’equivalente delle risorse di metà dell’umanità e si aspetta l’avvento del primo trillionaire (uno che possegga mille miliardi di dollari). Il sistema economico in cui siamo immersi è stato definito come “capitalismo senza opposizione del lavoro”. Le nuove generazioni, in effetti, sembrano sempre più sfuggenti tanto alla sindacalizzazione, complici forme di contratto e condizioni lavorative differenti rispetto a quelle del ventesimo secolo, quanto alla partecipazione politica. Questo accade nel quadro di una “passivizzazione di massa”, indotta da diversi fattori (anche culturali), su cui occorre seriamente riflettere. L’ideologia del “libero mercato” si è dimostrata talmente pervasiva da aver trasformato in “merce” e aver imposto un prezzo non solo ai beni materiali, ma anche e sempre più a quelli immateriali. Dunque, non più cogito ergo sum, ma emo ergo sum, non più cittadini, ma solo consumatori. Forse troviamo qui, uno dei motivi della passivizzazione delle masse, che coinvolge le stesse classi dirigenti, se è vera la trasformazione epocale che G. Agamben ha visto nell’idea di governo, in cui la tradizionale relazione gerarchica tra cause ed effetti si è invertita: invece di governare le cause, si governano gli effetti (tipico il caso dell’immigrazione).
Tuttavia, se guardiamo alla sinistra nel mondo e non solo al nostro italico ombelico, va pur detto che qualcosa si sta muovendo: accade nella Gran Bretagna di Jeremy Corbyn, nella Francia di Jean-Luc Mélenchon e persino negli Stati Uniti di Bernie Sanders. Tutte situazioni che meritano di essere indagate e approfondite, così come occorre seguire altre realtà, come quella di Podemos in Spagna, di Syriza in Grecia, della sinistra portoghese. Cosa accomuna esperienze nate in contesti così diversi? Certamente molti punti di programma, come la riconversione ecologica, l’intervento dello Stato in economia, la rivendicazione di diritti in tema di sanità, istruzione, pensioni, assistenza sociale, la difesa dei beni pubblici dalla privatizzazione, la redistribuzione delle ricchezze e dei redditi, la condanna degli interventi bellici, la lotta a quello che spesso viene richiamato per brevità come “l’1%”. Li accomuna, insomma, una serie di obiettivi che mettono in discussione l’ideologia del “there is no alternative” (Clinton e Blair).
Per una prospettiva ispirata al socialismo
Ma il socialismo, come idea-guida o programma politico, è ancora attuale? Se indubbiamente occorre fare i conti con la realtà e le sue trasformazioni, occorre anche saper estrarre dalla realtà quegli elementi che contengono in nuce una prospettiva alternativa, senza nulla concedere a irrealistiche fughe in avanti. Sarebbe, comunque, un errore pensare che la possibilità di una controffensiva possa oggi esulare dal rapporto-scontro con le tendenze attuali del capitalismo, e affidata esclusivamente ad un complesso di valori o principi umanitari. Così come sarebbe errato tornare ad affidarsi a versioni e interpretazioni del socialismo affermatesi negli ultimi decenni. Il cosiddetto “socialismo liberale” ha creduto che l’economia di mercato – adeguatamente temperata da politiche macroeconomiche e di welfare – avrebbe messo in moto un processo tale da realizzare obiettivi di tipo socialista. In realtà, quel meccanismo ha finito per accentuare le diseguaglianze. La fase attuale propone quindi un duro conflitto col capitale, da praticare in coerenza con quanto sancito dalla nostra Costituzione: l’art. 1 e gli articoli che si riferiscono al lavoro sprigionano un universalismo e un principio di inclusione, le cui potenzialità sono enormi. Vi sono anche idee guida da recuperare, a cominciare da quella di eguaglianza e dal principio di “dare potere a chi non ce l’ha”.
Sul conflitto bisogna intendersi. La lotta che fu già fra due classi, ora si parcellizza e tende a frantumarsi. Non che il classico terreno di conflitto sia scomparso – il mercato globalizzato offre da un lato sovraprofitti e rendite, dall’altro bassi salari –, ma si esprime anche sul fronte ambientale, su quello del controllo dell’informazione, su quello di genere e su altri ancora, per esempio lì dove è in gioco la tutela di beni collettivi essenziali (caso tipico quello dell’acqua). Ne discende che per “classe” antagonista oggi dobbiamo intendere l’insieme di quanti vivono e lavorano in condizioni di subalternità, di sfruttamento, di marginalità o di esclusione. Ma esiste oggi una coscienza ed una solidarietà di classe? Il proletariato e la classe operaia sono diventati storicamente soggetti politici quando hanno acquistato identità collettive sia attraverso un impegno controculturale (o, se si preferisce, controegemonico) sia con un diffuso radicamento sociale dei soggetti politici e sindacali di riferimento. Oggi il conflitto è imploso nei territori in altre forme rispetto a quelle tradizionali. Ma è una dimensione di conflitto autoreferenziale, precario e privo di prospettive. Ciò che manca è un soggetto politico che costituisca il tessuto connettivo e dia continuità all’azione sociale, determinandone l’orizzonte.
Le impressionanti capitalizzazioni di nuove imprese multinazionali e sovranazionali o il fenomeno di società che non sono proprietarie di mezzi di produzione né elargiscono salari ma hanno enorme influenza nel mercato e nell’immaginario, realtà a trazione finanziaria e tecnologica, incidono fortemente sul tessuto sociale e hanno enormi conseguenze anche di ordine culturale (Amazon, Google, Facebook, ecc.). Come Cerbero, il mostro del neocapitalismo ha tre teste (tecnologia, finanza, globalizzazione) e fa la guardia agli inferi del mercato.
La robotica industriale e quella domestica stanno avanzando (si prevede che esploderanno entro il 2030) grazie a un’intelligenza artificiale che rende il robot un automa che parla, esegue e soprattutto è in grado di apprendere. Questi sviluppi sono tali da fare immaginare una società liberata probabilmente dal lavoro più routinario e pesante, ma con l’incubo della disoccupazione tecnologica, della disoccupazione giovanile, delle varie distopie tecnologiche che prefigurano perfino trasformazioni antropologiche. Cambiano, in sostanza, il modo di lavorare e la natura stessa del lavoro. Inoltre, se non si tematizzano i rapporti tra il quinto della popolazione che vive nel mondo benestante e i 4/5 che vivono altrove è difficile pensare a prospettive socialiste adeguate alla nostra realtà.
Il partito
Ricostruire vuol dire recuperare la capacità di ad avere un ruolo di indirizzo politico, che è cosa diversa dall’organizzazione del consenso. I partiti sono diventati, per la gran parte, strumenti di leaders, si sono trasformati in gruppi di potere (esposti a infiltrazioni, carrierismi, conflitti di interessi), o, nel migliore dei casi, in macchine elettorali. La domanda centrale per noi è come si rifonda un partito di massa, di ispirazione socialista. La risposta può venire solo a seguito di un impegnativo lavoro che sappia coniugare teoria e prassi. Tuttavia, un punto a me sembra chiaro: qualsiasi ipotesi di lavoro si metta in campo, non si potrà prescindere dal conflitto sociale. Il radicamento nella società va costruito seguendo il metodo dell’inchiesta, dell’elaborazione, della formazione, delle lotte. Insomma, penso a ciò che ci insegna la nostra storia: un partito che sia una palestra di educazione civica e di elevazione culturale, politica e morale, capace di “pensieri lunghi”, un luogo di solidarietà e condivisione, di intelligenza collettiva, che abbia come stella polare la finalità di trasformare le classi subalterne in classi dirigenti. Alla base di tutto, c’è il necessario ripensamento della politica, a partire dai fondamentali, che significa ri-studiare Machiavelli, Marx, Gramsci, Lenin.
D’altra parte, se da un lato vi è un fiorire di reti, associazioni, centri, fondazioni, siti e riviste on line, e dall’altro un deficit di elaborazione nelle politiche istituzionali, è segno evidente che qualcosa non funziona. Bisognerebbe riflettere su come sia possibile rimettere al centro la necessità di una mediazione tra saperi e democrazia tramite l’elaborazione del partito politico.
I connotati di una cultura politica
Vi è un lavoro di demistificazione da compiere nei riguardi delle distorsioni di giudizio che si sono manifestate in questi anni sul funzionamento del sistema economico, dando corso a idee e indirizzi sbagliati: sul debito pubblico, sulla progressività delle imposte, sul ruolo delle privatizzazioni e sugli effetti di una riduzione del costo del lavoro. C’è poi da chiedersi come si sia potuta perdere di vista la “questione meridionale”, che certo va rideclinata, ma resta una gigantesca questione nazionale.
Passa attraverso una risocializzazione della politica l’introduzione di nuovi strumenti e metodi di selezione delle classi dirigenti, una necessità che ci viene richiamata dalla capacità che ha avuto il neo liberismo di trasformare in identità collettive le motivazioni individuali (di imprenditori di sé stessi, gestori di capitale, umano e materiale, in un mondo-mercato di opportunità, nel quale il singolo potesse affermarsi e riconoscersi come parte attiva della società). Questa narrazione egemonica (che ha saputo inventare anche nuove tecniche di comunicazione, generando senso comune) ha trovato un contrasto molto debole.
Però, se è vero che l’eterogeneità sociale è oggi molto alta e che le soggettività sono plasmate dalla cultura dominante, è anche vero che non vi era minore disomogeneità in altre epoche della storia, e che quando l’idea e le politiche del socialismo si sono generate la società era costituita in maggioranza da braccianti, servi, artigiani e sottoproletari, mentre gli operai erano una sparuta minoranza. Ma era la stessa elaborazione di un pensiero e di una politica del socialismo a dar luogo alla costruzione di identità e a far trovare in essa ragioni e motivazioni.
Alcune identità collettive emergono oggi, per esempio nelle contrapposizioni élite/popolo, giovani/vecchi, inclusi/esclusi. E’ importante però chiedersi quanto quelle identità settoriali siano riconducibili ad una identità comune e se su tale base sia possibile costruire una trasformazione dell’assetto sociale.
L’eguaglianza e la solidarietà
Va posta attenzione a non considerare le fonti di diseguaglianza come appartenenti solo alla sfera economica o del potere. Le diseguaglianze di genere e quelle di generazione evocano anch’esse questioni di giustizia sociale. Un’altra demistificazione da compiere riguarda la cosiddetta “meritocrazia”. L’idea che a ciascuno spetti “ciò che ognuno si merita” ha trovato la sinistra troppo debole nella controffensiva culturale (se non consenziente e perfino convinta che fosse un orizzonte di modernizzazione). Si è diffusa, la convinzione che la società sia ingiusta perché non c’è la valorizzazione del merito, senza però interrogarsi su come si fa a far valere il proprio merito. Ci si è convinti che bastasse essere uguali ai blocchi di partenza e dare a tutti le risorse per fare la propria corsa e poi accettarne gli esiti, come conseguenza di un verdetto – appunto – di merito. A parte che c’è sempre chi ha già in partenza un handicap, non si possono poi ignorare le condizioni in cui si svolge la corsa e le condizioni sono quasi sempre diseguali.
Torno, per concludere, alla domanda che avevo posto all’inizio. Quale contributo può dare all’opera di ricostruzione un’associazione come la nostra? Credo sia necessario ampliare il nostro campo d’attività in particolare nei territori, soprattutto per contribuire alla formazione e alla maturazione politica di quanti – specialmente giovani – vorranno cimentarsi con questa impresa di ricostruzione; bisognerà partire da una rilettura critica di ciò che è accaduto nella sinistra italiana dal 1989-’90 ad oggi: la parabola PDS-DS-PD (da un iniziale orizzonte socialdemocratico all’approdo di tipo liberista e alla fuoriuscita delle minoranze interne dell’ultima fase); e poi le vicende della sinistra cosiddetta “radicale” (dall’avvio di Rifondazione, scissione dopo scissione, fino alle liste di “Potere al Popolo). Nel necessario intreccio di teoria e prassi, pensiamo che si debba ripartire da Marx. Per il 18 ottobre abbiamo programmato un impegnativo convegno su “Marx e il capitale come rapporto sociale”. Prenderemo poi spunto dalla presentazione degli atti del convegno sulla Rivoluzione d’Ottobre per rilanciare, con un’altra iniziativa, la riflessione e il confronto sulle prospettive del socialismo in Occidente, tema al quale sta lavorando Paolo Ciofi. Trarremo spunto, infine, dal 70° anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione per ripercorrere il contributo dato dalle e dai Costituenti comuniste/i alla elaborazione della nostra Carta.

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