Il Pci e Roma negli anni 70. Non c’è futuro senza radici

Conferenza di Paolo Ciofi svolta il 15 marzo ’19 presso l’Associazione Enrico Berlinguer a Roma

 

Il Pci primo partito nella capitale dello Stato: un passaggio inedito sulla via italiana al socialismo

Care compagne e cari compagni, rivolgendomi a tutti voi qui presenti, innanzitutto voglio ringraziare Claudio Siena e l’Associazione Enrico Berlinguer che ci ospita. Con la quale intendiamo proseguire in una intensa e proficua collaborazione.
Un ringraziamento particolare va a Enzo Proietti, che ha promosso questo incontro e gli altri che seguiranno con un lavoro prezioso di contatti, di stimolo e di raccolta di materiali spesso dispersi o addirittura finiti nell’immondezzaio di un passato condannato senza appello. Lo ringrazio perché ricostruire la storia e la memoria del Pci a Roma, grande metropoli e capitale di uno dei Paesi finora più avanzati del mondo, in questo passaggio molto difficile nel quale oggi ci troviamo a vivere serve per recuperare un punto di vista da cui muovere: per interpretare il presente e quindi costruire il futuro.
Non vorrei fare abuso di citazioni. Ma di fronte a questo eterno presente, che in realtà è una regressione verso il passato, come non dare ragione a Giacomo Leopardi, quando affermava che l’essere umano senza memoria «non sarebbe nulla, e non saprebbe far nulla»? «Certamente nella svalutazione del passato è implicita una giustificazione della nullità del presente», sosteneva il nostro Gramsci. Promettono di costruire cattedrali – aggiungeva – e invece fabbricano solo oscure soffitte. Ovvero seminano dragoni e raccolgono pulci, per dirla come quel tale.
Com’era dunque il Pci, e cosa sono stati gli anni 70 a Roma per il Pci, che – ricordiamolo subito – era allora il più grande e autorevole partito comunista dell’Occidente capitalistico? Anni durante i quali io sono stato prima segretario regionale del Lazio e poi, del 76 al 79, segretario della Federazione romana. Non sono uno storico e non pretendo di diventarlo in questa circostanza. Ma d’altra parte, piuttosto che indugiare su vicende personali di relativo interesse, vorrei mettere in luce – sulla base di un esercizio non facile di recupero della memoria e di documenti originali – il significato e i contenuti di una fase straordinaria nella vita dei comunisti romani e di questa città che non ha uguali nel mondo per bellezza, per storia e vocazione universale. Una riflessione che faccio oggi qui con voi, dopo quasi 50 anni, quando il Pci divenne il primo partito a Roma, capitale dello Stato italiano e sede del Vaticano centro della cristianità. Assumendo in prima persona funzioni di governo al Comune, alla Provincia e alla Regione.
Si è trattato di un passaggio inedito e in parte inaspettato, che poneva problemi del tutto nuovi in campi fino ad allora inesplorati: a noi e anche ai nostri amici e avversari, dentro e fuori d’Italia. In una fase, appunto quella degli anni 70, che a mio parere è stata il punto più alto raggiunto dal Pci nella lotta per cambiare la società seguendo il percorso originale della via italiana al socialismo, e che – in pari tempo – ha visto lo scatenarsi di una controffensiva in tutti i campi e con molti mezzi volta a bloccare il cambiamento, e a sradicare il partito comunista dalle sue basi di massa. In questo scontro, che finiva per mettere in discussione le basi stesse della Repubblica democratica, Roma è stata un epicentro decisivo.
Il percorso originale e inesplorato della via italiana al socialismo, che come sappiamo prende origine da Gramsci, poi definita e praticata da Togliatti, sviluppata e arricchita da Longo e Berlinguer, si fondava sul principio dell’espansione massima della democrazia per dare vita e sostanza a una civiltà superiore oltre il capitalismo: una democrazia progressiva, dunque, fino a fondere in un binomio inscindibile la democrazia stessa e il socialismo. Un percorso – ecco l’originalità della via italiana e la grande conquista del movimento operaio di questo Paese – che si può compiere attuando i principi della Costituzione del 1948 giacché il lavoro e non il capitale è il fondamento della Repubblica.
Alla condizione, ovviamente, che sia presente un partito delle lavoratrici e dei lavoratrici capace di organizzare l’insieme delle classi e dei ceti subalterni, al centro di un vasto sistema di alleanze sociali e politiche. Questo partito era ben presente in quegli anni, e con le sue lotte aveva consentito di raggiungere importanti traguardi sociali e civili. Il conflitto, che il Pci svolgeva coerentemente sul terreno democratico, era più che mai aperto.
Nel tornante tra gli anni 60 e 70 Berlinguer osserva che emergeva «la necessità e la possibilità di realizzare un grande passo avanti sulla via della trasformazione democratica e socialista del nostro Paese». E siccome nel contempo si trattava di respingere ripetuti attacchi di natura conservatrice e apertamente reazionaria, aggiunge che occorreva stabilire un nesso organico tra strategia e tattica: proprio nell’avvicinamento «tra problemi di strategia e problemi di direzione pratica sta una delle particolarità più appassionanti dell’attuale situazione».
Lo sviluppo degli eventi confermava la sua analisi. Dopo «l’autunno caldo» del 1969, che portò a fondamentali conquiste salariali e contrattuali fino all’approvazione della legge 300 del 1970, meglio nota come Statuto dei diritti dei lavoratori, ebbe inizio la strategia della tensione e venne alla luce il tentativo di colpo di Stato organizzato dal fascista Junio Valerio Borghese, già capo della X Mas e presidente del Msi. A conclusione della stagione che aveva portato al superamento delle “gabbie salariali”, all’istituzione delle Regioni e alla legge sul divorzio fece poi seguito nel 1972 il governo di centro-destra Andreotti-Malagodi.
Anche sul fronte internazionale il tornante tra gli anni 60 e 70 si caratterizzò per cambiamenti di grande rilievo. Del resto nella politica del Pci il nesso tra la dimensione nazionale e quella internazionale è sempre stato assai stretto, seppure non sempre lineare. Nel 68 l’intervento armato sovietico stroncò la Primavera di Praga, mettendo in discussione, come disse Berlinguer, «questioni di principio» riguardanti la sovranità e l’indipendenza di ogni Paese e di ogni partito comunista, e anche quelle riguardanti la democrazia socialista e la libertà della cultura. Per quanto riguarda l’Italia, aggiungeva, «pensiamo che si possa non solo avanzare al socialismo, ma anche costruire la società socialista con il contributo di forze politiche, di organizzazioni, di partiti diversi». In sostanza, un nuovo socialismo, «diverso da ogni modello esistente».
Nello scenario internazionale in continuo movimento si venivano precisando la strategia e la tattica del Pci. Alla svalutazione del dollaro nel 1971 fecero seguito nel 1973 la crisi petrolifera mondiale e il golpe orchestrato in Cile dai generali con la copertura degli Stati Uniti, che pose fine al governo di socialisti e comunisti democraticamente eletto. Mentre nel piccolo Vietnam, qualche anno dopo, l’imperialismo americano doveva ritirarsi sconfitto dai combattenti guidati da Ho Chi Minh. Un segnale emblematico del processo di liberazione dei Paesi del terzo mondo.
Sono gli anni in cui il segretario del Pci parla di una crisi «di tipo nuovo», dalla quale non si può uscire se non si tiene conto della aspirazione alla pace, alla libertà e all’indipendenza dei popoli e dei Paesi sottosviluppati e in via di sviluppo. Una condizione che comportava una visione più ampia e dinamica dell’internazionalismo. In tale contesto Berlinguer sostiene che in Italia, per uscire dalla crisi, serve «una nuova tappa della rivoluzione democratica e antifascista» che introduca «nell’assetto e nel funzionamento della società alcuni elementi propri del socialismo».
La formula del compromesso storico, molto discussa e controversa, lanciata subito dopo il golpe cileno, da non confondere comunque con il governo di unità nazionale o della “non sfiducia”, sta tutta dentro la visione di un nuovo socialismo che il segretario del Pci non abbandona mai. Nel famoso saggio pubblicato in tre puntate su Rinascita dal 28 settembre al 12 ottobre 1974 la questione di principio e di estrema attualità posta in quel momento è quella di come si possano garantire la piena libertà politica, l’indipendenza e la democrazia repubblicana: respingendo ogni forma di ingerenza esterna da qualunque parte provenga e comunque mascherata, isolando in pari tempo le violenze e le forze fasciste, reazionarie ed eversive dell’ordine democratico.
Mentre conferma la necessità di profonde trasformazioni sociali e ribadisce che «la via democratica al socialismo è una trasformazione progressiva – che in Italia si può realizzare nell’ambito della Costituzione antifascista – dell’intera struttura economica e sociale, dei valori e delle idee guida della nazione», Berlinguer risponde che la garanzia del cambiamento sta nel cementare l’unità delle masse popolari e dei partiti democratici, garantendo il pluralismo senza discriminazioni, attraverso «un nuovo grande compromesso storico», della stessa levatura di quello che ha dato vita alla Costituzione. Nel reciproco riconoscimento dei valori costituzionali e al di là delle formule di governo, chiamate comunque a garantire un’alternativa democratica.
Fino alla metà degli anni 70 il Pci aveva svolto la sua funzione di opposizione, a Roma e nel Paese, mantenendosi sempre sul terreno dello sviluppo della democrazia e non derogando mai dai principi costituzionali. Ma quando, dopo i risultati elettorali del 1975 e del 1976, il tema del governo di Roma e del Paese, e del cambiamento del modello di sviluppo, si pose in termini concreti, la controffensiva si dispiegò in pieno in tutti i campi: sociale, politico, culturale. Nonché sul terreno del terrorismo e della «strategia della tensione».
Che il nostro fosse un Paese a sovranità limitata fu dimostrato chiaramente dal veto posto dagli Stati Uniti all’ingresso del Pci nel governo minacciando pesanti ritorsioni economiche. Era il 1976, e nel vertice di Porto Rico si allinearono prontamente i governanti europei con in testa il socialdemocratico tedesco Helmut Schmidt. D’altra parte, sul versante interno, dove pullulavano diverse sigle fasciste e anticomuniste, si moltiplicavano le manifestazioni distruttive e le violenze degli autonomi, le aggressioni e gli attentati del terrorismo nero, i sequestri e gli omicidi delle Brigate rosse. L’obiettivo, di fatto, era travolgere la linea di lotta democratica e di massa del Pci, estirpando le sue radici sociali ed espellendolo dalla sua base operaia e popolare.
La controffensiva reazionaria ed eversiva. L’omicidio Moro e la lotta dei comunisti romani per la difesa della democrazia

Il quadro che emerge dal Dossier sulla violenza eversiva a Roma pubblicato dalla Federazione comunista, che ho qui con me, è davvero impressionante. Dalla metà del 76 a tutto il 77 si contano a Roma 254 attentati terroristici e 261 atti di squadrismo e di violenza organizzata, che colpiscono le persone, le sedi dei partiti e delle circoscrizioni, le scuole e l’Università, i negozi, le chiese, le associazioni, le strutture civili e militari. Siamo nel pieno degli anni di piombo. Una sequenza di atti distruttivi e di continua violenza in cui la vita umana conta poco.
Ricordo il giudice Vittorio Occorsio, ucciso dal fascista Concutelli di Ordine nuovo nel luglio 76. Poi nel 77 Settimio Passamonti, di 23 anni, agente di Pubblica Sicurezza, colpito da provocatori armati all’esterno dell’Università. Giuliana Masi, caduta per i colpi d’arma da fuoco sparati dalla polizia a ponte Garibaldi dopo ore di scontri e di incidenti. Walter Rossi, giovane militante di Lotta continua, colpito alla nuca dai proiettili sparati da un fascista alla Balduina sotto gli occhi della polizia, che non interviene.
Le Brigate rosse operavano soprattutto sul terreno politico, nel tentativo di spostare a destra la Dc, mettendola in crisi e destabilizzando l’intero sistema politico. Il 2 novembre 77 fu ferito in un attentato da loro rivendicato Publio Fiori, allora esponente della Democrazia cristiana. La stessa sorte toccò a Girolamo Mechelli, capogruppo della Dc alla Regione Lazio, il 26 aprile 1978 poco prima dell’omicidio di Aldo Moro.
Numerosi sono stati gli attentati alle nostre sedi e a nostri compagni. L’episodio forse più grave si verificò a Sezze Romano il 28 maggio 1976, quando il fascista Sandro Saccucci, deputato del Msi che aveva partecipato al golpe Borghese, aprì il fuoco e uccise il giovane compagno militante della Fgci Luigi De Rosa. Ricordo i funerali e la grande manifestazione che organizzammo in quella roccaforte rossa con Pietro Ingrao e Gianni Borgna.
A Roma uno degli epicentri privilegiati degli scontri e delle violenze era l’Università, dove si fronteggiavano estremismi di destra e di sinistra nella frattura che si andava manifestando tra le nuove generazioni e il quadro politico-istituzionale, non all’altezza di risposte efficaci di fronte alla crisi dell’occupazione, del sistema universitario e della scuola. L’idea che si potesse riportare alla normalità democratica una situazione nella quale agivano motivazioni diverse e scontri continui con un «atto giacobino» del movimento operaio, come si sosteneva in ambienti dell’intellettualità comunista, non faceva i conti con la realtà e infatti si dimostrò sbagliata. La prova provata fu l’aggressione al comizio di Luciano Lama promosso dalla Federazione sindacale unitaria Cgil, Cisl, Uil il 17 febbraio del 77.
Nella città universitaria si erano già verificati gravi incidenti all’inizio del mese, prima e dopo una grande manifestazione antifascista unitaria organizzata in risposta al grave ferimento dello studente Giulio Bellachioma da parte del Fuan. Il clima era dunque surriscaldato e indire in quelle condizioni nell’Università occupata il comizio del segretario della Cgil fu un errore. Dei sindacati, e anche nostro: perché non teneva conto di due fattori che non eravamo stati in condizione di valutare e di contrastare. Da una parte, lo stato reale dell’Università e il malessere diffuso tra gli studenti, che si esprimeva confusamente in quello che è stato chiamato il movimento del 77. Dall’altra, la presenza organizzata di gruppi armati di provocatoti e di teppisti, che distrussero il palco alla fine del comizio, aggredirono studenti e lavoratori, e usarono armi da fuoco prima dello sgombro dell’Università.
La situazione era di estrema gravità. Anche sul terreno culturale-politico ogni sforzo veniva compiuto per isolare nell’opinione pubblica il Pci, additato soprattutto ai giovani come il pilastro di un regime oppressivo e soffocante. Indicativo del clima di quei giorni è il rifiuto di Cisl e Uil, nonostante il comizio fosse unitario, di esprimere solidarietà a Lama e di sottoscrivere un documento comune di condanna dell’aggressione. L’episodio è ricordato in un libro di Santino Picchetti, all’epoca segretario della Camera del lavoro.
Una situazione resa più difficile dal comportamento contraddittorio del governo, che mentre con provvedimenti del ministro degli Interni Cossiga vietava le piazze al nostro e agli altri partiti democratici, lasciava così campo libero alle manifestazioni non autorizzate degli autonomi e di gruppi eversivi di vario segno, che di solito nella giornata di sabato trasformavano il centro di Roma in un campo di battaglia. Il 25 aprile 77 volevamo celebrare l’anniversario della Liberazione con una grande manifestazione di popolo. Avanzammo la richiesta ad Andreotti, che ci ricevette immediatamente dopo aver cercato invano il ministro competente, ma il suo diniego fu irremovibile. Lo ricorda egli stesso così nei suoi diari. «Comunisti e socialisti protestano per il divieto di tenere domani – festa della Liberazione- comizi all’aperto». «Cerco di spiegarlo a Vetere, Ciofi e Mancini».
C’è da dire che anche i comportamenti di poliziotti e carabinieri, talora improntati da orientamenti anticomunisti, non sempre erano coerenti con le regole democratiche, trasparenti ed efficaci. L’impreparazione ad affrontare una situazione inedita e complessa appariva piuttosto evidente. Lo sperimentai personalmente quando il questore, mettendo il Pci e i terroristi nello stesso sacco, mi chiamò intimandomi di far cessare il tiro al bersaglio contro i suoi uomini. E anche quando, dopo avermi messo sotto scorta per le minacce ricevute, dovevo spiegare io alla scorta come comportarsi: e non sempre ci riuscivo. Un covo delle Br, insediato nel palazzo accanto, ha potuto per diverso tempo osservare e tenere sotto controllo i movimenti della Federazione comunista. Un fatto inquietante rimasto senza spiegazioni.
Episodi di una fase a mio parere ancora non esplorata a fondo dagli storici. Di cui il punto più oscuro e più difficile per la tenuta democratica dell’Italia e della sua capitale fu indubbiamente quello del rapimento di Aldo Moro e dello stermino della sua scorta; della detenzione e infine dell’omicidio, premeditato e cinicamente eseguito, del leader democristiano. Una crisi senza uguali nell’intero dopoguerra, 55 giorni dal 16 marzo al 9 maggio 78 di incertezza e di paura durante i quali i comunisti romani si trovarono esposti in prima linea sul fronte della difesa della Repubblica, del consolidamento del governo della capitale, della vigilanza democratica.
Non siamo in grado di dire se Aldo Moro, rimasto in vita, sarebbe stato in grado di aprire quella che definiva la terza fase della democrazia italiana, in cui avrebbero potuto coesistere senza discriminazioni una Dc aperta al nuovo e un Pci promotore di un nuovo socialismo. Certo è che con la sua morte il partito democristiano si è andato spostando progressivamente su posizioni conservatrici. Fino a innalzare, con il cosiddetto preambolo Forlani del 1980 e con la complicità di Craxi, una discriminazione organica nei confronti del partito comunista.
Berlinguer, il quale aveva deciso di porre fine al «governo della non sfiducia» prima del rapimento di Moro, osserverà poi, nella famosa intervista a Scalfari sulla questione morale del 1981, che fu un errore avere puntato «sulla possibilità che la Dc potesse rinnovarsi e modificarsi, cambiare metodi e politica». Aggiungendo che da parte del Pci erano stati commessi «errori di verticismo, di burocratismo e di opportunismo che hanno indebolito il nostro rapporto con le masse». Per concludere che «un’esperienza del genere non la ripeteremo mai più».
Nei giorni del rapimento di Moro, prima e dopo quel passaggio assai stretto, Roma riuscì a tenere sul terreno democratico proprio perché, nel confronto con i movimenti estremistici e violenti, il Pci e i partiti dello schieramento antifascista, sia pure con difficoltà, furono vincenti. Un momento molto rilevante della mobilitazione democratica fu lo sciopero generale unitario del 23 marzo 77 per l’occupazione e contro la violenza, con corteo e manifestazione a piazza San Giovanni, che si svolse senza incidenti.
Il lavoro dei comunisti romani fu molto intenso e senza risparmio. Migliaia furono le compagne e i compagni impegnati ovunque. Iscritti al partito e alla Fgci e anche solo simpatizzanti. Nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole, nei mercati. Nelle borgate, nelle periferie come nel centro storico. Tra le donne e i giovani. Tra gli operai e gli impiegati, ma anche tra i commercianti e i professionisti. Gli studenti, i professori, gli intellettuali. Il partito romano era negli anni 70 una libera associazione molto articolata e complessa, che all’origine si era sviluppata nella metropoli dalla base popolare e plebea con l’apporto di grandi intellettuali. Contavamo allora circa 70 mila iscritti, di cui il 40% definiti operai. Con organizzazioni di fabbrica combattive al Poligrafico dello Stato, alla Fatme, alla Voxson, all’Autovox, e in altre aziende industriali che tuttavia non erano la spina dorsale di un agglomerato urbano prevalentemente impiegatizio e mercantile.
La vita di partito era molto vivace nelle sezioni territoriali, il cuore pulsante dell’intera organizzazione. Grandi discussioni e riunioni spesso interminabili. Grandi slanci e talora anche improvvise depressioni, che rispecchiavano l’assetto e gli umori della città in un partito ampiamente diffuso nel territorio. Un partito tuttavia molto generoso e sensibile, anche sui temi della solidarietà internazionale e della lotta per la distensione e per la pace. Con una caratteristica tipica dei romani, che dietro un apparente disinteresse e menefreghismo nascondono un modo naturale e diretto di fare le cose senza farlo pesare, e senza la presuntuosa retorica del “ghe pensi mi” e “faso tuto mi”. Con una capacità di verifica e di critica al tempo stesso, che costringeva i dirigenti a rendere conto delle loro decisioni e a verificarne l’applicazione. Una sorta di controllo dal basso che arricchiva la vita democratica, e facilitava anche le nostre relazioni con gli altri partiti.
Non vorrei presentare un quadro idilliaco, perché in realtà non lo era. Avevamo anche tanti difetti, non solo personali. Voglio dire che però l’interazione continua con la base del partito, e quindi con la vita reale delle persone, ci rendeva più forti contro il consolidato sistema di potere della Dc che tentava di condizionarci. E anche nelle relazioni con il centro del partito non sempre facili, specialmente in una fase di mutamenti continui che non era semplice cogliere con tempestività.
Al riguardo, una divergenza di non poco conto si manifestò subito dopo le elezioni del 75. Quando, di fronte alla possibilità di formare la giunta di sinistra nel Lazio, il compagno Chiaromonte, coordinatore della segreteria nazionale del partito, riteneva quella una mossa azzardata che avrebbe potuto pregiudicare la politica di solidarietà nazionale. Noi non fummo d’accordo, andammo avanti e i fatti l’anno successivo ci dettero ragione.
Non ho la possibilità oggi di ricordare le compagne e i compagni, molto numerosi, con i quali ho avuto modo di collaborare negli anni della direzione della Federazione romana, quando mi impegnai nella costruzione di un nuovo gruppo dirigente, rinnovato e più giovane negli anni e nell’esperienza. Un’operazione indispensabile, poiché avevamo bisogno di far crescere forze in grado di combattere sia sul fronte della lotta politica-culturale e sociale, sia su quello del governo delle istituzioni e della cosa pubblica. C’era bisogno di una nuova leva di specialisti e politici, secondo la formula di Gramsci. Senza i quali una partito di massa si disfa in una congerie di lobby, di corporazioni, di gruppi di potere.
Permettetemi però di ricordare e di ringraziare in questa circostanza i miei collaboratori più stretti di allora, i componenti della segreteria della Federazione con i quali dividevo molte ore ogni giorno. Due compagni più avanti negli anni, allora già sperimentati, che non ci sono più: Siro Trezzini e Romano Vitale. E poi Sandro Morelli, Pasqualina Napoletano, Angelo Fredda e Franco Cervi.
Da Roma spolpata alle giunte rosse. Una nuova idea della città metropolitana

Il governo della capitale, che ci impegnò insieme alle compagne e ai compagni del gruppo capitolino e della giunta, ci poneva di fronte a una scelta di fondo. Considerare Roma non più una risorsa da sfruttare per incrementare rendite e profitti a vantaggio di pochi detentori della ricchezza, ma una risorsa da valorizzare per accrescere il livello di vita e il benessere dei romani, il progresso sociale e civile degli italiani e l’efficienza della nazione. Una scelta radicale che veniva da lontano, imposta dal carattere di Roma come grande metropoli in quanto capitale dello Stato.
Spolpare Roma era stata una scelta storica delle classi dirigenti, come aveva visto con chiarezza Argan quando affermò che «se la “classe dirigente”, dopo l’unità d’Italia, avesse saputo definire il nuovo ruolo di capitale che Roma era destinata a svolgere e l’avesse messa in condizione di adempiere a quella funzione, Roma non sarebbe al punto in cui è: è a questo punto perché la “classe dirigente” ha proferito considerarla un patrimonio da sfruttare e l’ha costantemente e indegnamente sfruttata”.
Si è determinato così quello che potremmo definire un paradosso storico: per cui le classi dirigenti, per più di un secolo, dopo avere trasferito la capitale a Roma, non hanno mai investito il Parlamento il Paese di una discussione e di una decisione sulle funzioni e il ruolo dello Stato nella città capitale dello Stato. Accentramento burocratico dei ministeri e degli apparati statali da una parte, municipalismo miope ed esasperato dall’altra. Queste le direttrici delle classi dirigenti. E mano libera al capitale, alla speculazione e alla rendita.
Un fenomeno diventato dirompente negli anni 50, in rapporto alla modernizzazione capitalistica che spogliava le campagne e spingeva l’immigrazione di massa. Roma aumentava di 15 volte dal momento dell’unità nazionale. In un territorio dove troverebbero posto le 7 principali città del Paese. Masse di diseredati premevano nelle periferie, organizzati dall’Unione borgate per ottenere un alloggio e vedere riconosciuti i loro diritti di cittadini. Mentre la società Immobiliare detenuta dalla Santa Sede, dalla Fiat e dall’Italcementi, in combutta con i principi romani proprietari dei terreni, di fatto costruiva senza controlli una nuova città distruggendo il territorio.
Era il tempo del sindaco Rebecchini, che secondo il detto popolare «se magnava er Campidojo co’ tutti li scalini». Si trattava quindi di ricomporre in una visione unitaria la metropoli, spaccata da profonde fratture territoriali, che erano la conseguenza di accentuate disuguaglianze sociali e di classe. Nello stesso tempo di cambiare radicalmente lo stile burocratico e accentratore del governo, locale e nazionale.
Una situazione che negli anni 70 a Roma era persino peggiorata, con una mortalità infantile del 26 per 100 uguale a quella del Marocco, e le periferie piene di baracche, di immigrati e di giovani senza lavoro. Al punto tale da indurre il vicario di Roma, monsignor Poletti novarese amico di Scalfaro, a organizzare nel 1974 pur tra molte resistenze il «convegno sui mali di Roma».
Giovanni Berlinguer con Piero Della Seta e successivamente Franco Ferrarotti avevano già scritto sulle borgate e sul degrado della capitale. Senza contare i romanzi di Pasolini, che nel Pci avevano suscitato una polemica tra Montagnana e D’Onofrio. Ma quel convegno lasciò il segno perché denunciava una situazione drammatica e di fatto rappresentava una critica forte e argomentata all’operato della Dc. Poletti era una persona semplice, che andava in giro da solo con una vecchia macchina e parlava con tutti. Volle incontrare anche me riservatamente perché temeva che i comunisti vietassero la costruzione delle chiese in periferia.
Le parole di Luigi Petroselli, al momento della sua elezione a sindaco nel 79 dopo Argan, sembrano rispondere alla denuncia del Vicario di Roma: «La città è una sola. Solo se i mali di Roma saranno affrontati, solo se la parte più oppressa della società, dai poveri e dagli emarginati agli anziani, dalle borgate ai ghetti della periferia avranno un peso nuovo su tutta la città, essa potrà essere rinnovata e risanata. Solo se sarà più giusta e più umana, potrà essere ordinata, potrà essere una città capace di custodire il suo passato e di preparare un futuro». Una impostazione che richiede un progetto per la metropoli e per la capitale, una continua ricerca culturale e ambientale, un blocco sociale e un sistema di alleanze politiche capaci di sostenerla.
L’esperienza delle giunte rosse l’ho esaminata nel libro Del governo della città. Ad esso quindi rimando, limitandomi qui all’essenziale. Per ricordare, anzitutto, che già Argan aveva avviato un rilevante cambiamento dell’assetto urbano con la conferenza urbanistica del luglio 77. Dove si gettano le basi per il risanamento delle borgate, la salvaguardia dei beni archeologici e monumentali, la riqualificazione del patrimonio edilizio e l’edilizia economica e popolare. La legge urbanistica proposta da Fiorentino Sullo era stata bocciata per le resistenze del suo stesso partito, la Dc. Quindi si operava sulla base della legge Bucalossi del 77, secondo cui il diritto di costruire comunque non è connesso alla proprietà del suolo, ma spetta all’amministrazione pubblica che rilascia la concessione.
Con Petroselli sindaco in due anni l’attività della giunta comunale si arricchisce e produce risultati di rilievo. Si definisce il parco storico-ambientale Colosseo Appia Antica; si porta a conclusione la variante del piano regolatore per il risanamento delle borgate; si mettono a punto i piani particolareggiati per gli insediamenti produttivi; si dà attuazione al piano per l’edilizia economica e popolare; si approva lo Sdo. Il sistema direzionale orientale, dove si sarebbero dovuti concentrare i ministeri e le attività amministrative, che avrebbe potuto rovesciare il disegno urbanistico di Roma arrestando lo scivolamento verso il mare, e cambiare il volto e la funzione della capitale.
L’attività del sindaco e della giunta era rivolta anche a fare del Comune il centro d’iniziativa per la tenuta democratica della città. Molteplici e febbrili le attività volte ad assicurare i diritti sociali e civili, ad elevare la qualità della vita, il livello culturale e civico nel territorio urbano. Dotandolo di scuole, asili, centri per gli anziani, di servizi più efficienti nel campo dei trasporti, della pulizia delle strade e delle piazze. La linea A della metropolitana viene inaugurata nel 1980. L’estate romana, inventata da Renato Nicolini, ha tenuto banco per anni: il cosiddetto effimero, rivelatosi un importante fattore di coesione tra centro e periferia, di partecipazione collettiva contro la paura e il ripiegamento individuale, egoistico e violento.
In pari tempo, sul versante regionale veniva impostato un progetto di programmazione, che prevedeva il potenziamento della base produttiva industriale e agricola in combinazione con la tutela della natura e il riequilibrio del territorio. In quella direzione andavano l’istituzione dei parchi naturali, il potenziamento della rete stradale e la formazione di una unica azienda di trasporto pubblico regionale, in modo di accorciare i tempi di percorrenza e di accelerare lo spostamento di persone e cose. Si puntava anche sulla informatizzazione e accelerazione della spesa, snellendo le procedure del bilancio regionale partecipato, che prevedeva la consultazione preventiva dei Comuni e delle organizzazioni sindacali.
Tuttavia, il risultato di maggior rilievo a livello regionale, che segnò una svolta, ritengo sia stato l’impianto degli ospedali pubblici in concomitanza con l’istituzione del Servizio sanitario nazionale nel 1978. Allora, nella capitale di uno Stato sovrano, oltre a qualche clinica privata, esistevano solo gli ospedali del Vaticano, che riuscimmo a trasferire alla Regione senza traumi e rotture, contenendo e controllando l’opposizione della Democrazia cristiana, e gli interessi economici non trascurabili ad essa legati. A mia memoria, un capolavoro politico.
L’esperienza di quegli anni veniva dimostrando che nella lotta per avanzare sulla via democratica al socialismo, possibile solo tenendo insieme chiarezza di prospettiva e concretezza di realizzazioni, la questione del governo di Roma e del suo rinnovamento investiva due temi di fondo: quello della riforma dello Stato e quello del cambiamento del modello di sviluppo. In altri termini il problema era: quale futuro per una grande metropoli, che al tempo stesso è capitale della Repubblica democratica?
Era infatti sempre più evidente che il ciclo indotto dalla funzione di capitale per effetto del dominio del mercato (concentrazione burocratica – immigrazione massiccia – speculazione edilizia – rendita parassitaria), unitamente alla mancata soluzione della questione meridionale, produceva conseguenze perverse. Da un lato, la devastazione della città, che alimentando l’abusivismo e consumando il territorio restringeva le basi produttive. Dall’altro, il carico sull’intero Paese di costi aggiuntivi, perché i servizi forniti dalla capitale risultavano tutt’altro che tempestivi ed efficienti.
Proprio nel 77 Enrico Berlinguer proponeva nuove indicazioni di teoria e di lotta politica, che toccavano da vicino, nella cultura e nella pratica, noi comunisti romani. La democrazia intesa non più solo come via al socialismo, bensì come valore universale, ossia come fattore costitutivo del socialismo. E l’austerità. Che non era la predicazione pauperista di un «frate zoccolante» (così apostrofavano Berlinguer) ma un progetto di trasformazione della società. Il mezzo – chiariva il segretario del Pci agli intellettuali riuniti al teatro Eliseo – per «porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo». Dunque, di fronte al consumismo e all’egoismo esasperati che distruggono la terra, anche «un’occasione per uno sviluppo economico e sociale nuovo».
Parole che ancora oggi suonano bene alle orecchie. Ma che oggi rimangono un flatus vocis appeso in aria, poiché non disponiamo degli strumenti politici e culturali adatti allo scopo. Di un partito – usiamola questa parola – capace di far avanzare concretamente, con il cervello e con le gambe di milioni di donne e di uomini, una necessità storica incombente. Allora noi lottammo per mantenere aperta la prospettiva del cambiamento e avanzare su quella via. Discutemmo anche molto su come adeguare lo strumento partito ai compiti e alle esigenze del momento.
In particolare, nel 13° congresso della Federazione, che si svolse ai primi di aprile del 77, affrontammo – anche in conseguenza della presenza delle Regioni – i temi della riforma dello Stato e di un nuovo modello di sviluppo. Preso atto che la ristrettezza della base produttiva non consentiva di assorbire la forza lavoro soprattutto femminile e giovanile, e che il vecchio Stato burocratico e accentratore era entrato in una in fase di stallo e di crisi, indicavamo un progetto alternativo per Roma capitale di un nuovo Stato e di una nuova società, fondato su due assi portanti: da una parte, il decentramento delle funzioni statali e amministrative, e la partecipazione democratica; dall’altra, la promozione della cultura e della scienza a sostegno dello sviluppo delle forze produttive, dei settori innovativi e d’avanguardia.
Un indirizzo che precisammo meglio in seguito, quando sollevammo in Parlamento la questione di Roma capitale. Prima, con una mozione presentata alla Camera a firma Enrico Berlinguer. Poi, dopo la sua morte, con una proposta di legge firmata da me, dal presidente del gruppo comunista Renato Zangheri e da tutti i deputati eletti a Roma e nel Lazio. I due testi li trovate nel mio libro già citato. Adesso, ormai a conclusione di questa esposizione, non voglio invadere il campo dei relatori dei prossimi incontri. Ma credo mi sia consentito, in quanto estensore di quei documenti, di illustrarne brevemente il contenuto, in particolare della mozione Berlinguer.
Riforma dello Stato per una capitale della cultura e della scienza. Berlinguer: tagliare le radici sarebbe il gesto inutile di un idiota

L’obiettivo era di dare vita a una capitale che in quanto cervello politico e istituzionale del Paese operasse in organica connessione con lo sviluppo della cultura e della scienza, allorché la rivoluzione elettronica già in atto annunciava cambiamenti profondi nel modo di produrre e di comunicare, di vivere e di pensare. E quindi di realizzare in una tra le maggiori metropoli europee, aperta verso l’Africa e il Sud del mondo, una riforma degli apparati dello Stato imperniata su criteri di decentramento e trasparenza, democratizzazione, moralizzazione ed efficacia, in modo da consentire una penetrante partecipazione dei cittadini.
Al riguardo le proposte in sintesi erano queste:
-allestimento nel centro storico, salvaguardandone rigorosamente l’ambiente monumentale e il patrimonio economico-sociale, di uno spazio per le istituzioni elettive (dal Parlamento in giù), aperto agli incontri e allo scambio di relazioni con i cittadini;
-trasferimento dei ministeri nel Sistema direzionale orientale (Sdo);
-informatizzazione di tutta la pubblica amministrazione, centrale e periferica;
-contemporanea qualificazione permanente degli addetti, anche istituendo un’alta scuola di studi.
In merito alla centralità della cultura e della scienza come forza produttiva diretta, e al ruolo internazionale di Roma capitale, le proposte riguardavano:
-la valorizzazione del patrimonio artistico e culturale accumulato mediante una diffusa innovazione scientifica e tecnologica;
-il potenziamento e il coordinamento delle università pubbliche e dei centri di ricerca:
-l’impianto di un rilevante polo della comunicazione fondato su scienza e ricerca combinando insieme cinema, televisione e rete informatica;
-il coordinamento di tutte le competenze pubbliche, in particolare delle Partecipazioni statali, e quindi anche delle banche, per la realizzazione e l’ammodernamento delle infrastrutture di portata strategica, come le telecomunicazioni, la viabilità di sistema, i trasporti ferroviari, marittimi e aerei.
Si trattava di un’impostazione che rompeva un vecchio assetto clientelare e di potere messo in piedi dalla Dc, e puntando sullo sviluppo di avanzate forze produttive contrastava la tendenza alla disoccupazione e alla disgregazione del tessuto urbano; e quindi alla diffusione della rendita e delle borgate. Un equilibrato tessuto urbano non si ha senza adeguate fonti di lavoro.
Berlinguer era stato molto chiaro: l’intervento pubblico per le funzioni della capitale dello Stato aveva solo una motivazione di interesse nazionale ed escludeva ogni forma di clientelismo, corporativismo o localismo. Quindi niente leggi speciali e interventi a pioggia, considerando Roma non la longa manus di un potere autoritario centrale, ma la capofila di un sistema di autonomie. Un contesto che consentiva di affrontare in modo corretto e trasparente anche la controversa questione dei finanziamenti.
Riflettendo ora su quella fase posso dire che dopo l’efficace azione di risanamento delle borgate, e il miglioramento delle condizioni di vita della parte più povera della città, facemmo fatica a disegnare con chiarezza il futuro di Roma e a praticare una linea conseguente. Il collegamento organico che lega Roma come metropoli alle sue funzioni di capitale lo cogliemmo con un certo ritardo.
Difficoltà che negli anni 80 venivano anche dal mutato clima culturale e politico, che risentiva della pesante offensiva liberista guidata da Thatcher e Reagan. Cominciava la stagione della «Milano da bere» (e in seguito della Roma da mangiare), con il ministro De Michelis che proponeva di spostare la capitale nella sua città Venezia. E Craxi che considerava Roma poco più di un salotto dell’«azienda Italia», dove si agitava secondo lui gente sfaticata e sprecona.
Resta il fatto che il nostro partito, a livello nazionale, subito dopo la grande avanzata del 75-76 che lo aveva portato ad essere forza di governo in gran parte del territorio nazionale avendo conquistato numerose regioni e grandi città, non riuscì a coordinare in una visione unitaria l’attività degli enti locali. E a porre quindi con forza la questione decisiva della riforma dello Stato e della pubblica amministrazione, di cui il ruolo della capitale è componente organica per rinnovare l’unità della nazione. Emblematico è stato il caso dell’Emilia Romagna, il cui presidente compagno Guido Fanti, invece di farsi parte attiva di una generale riforma, fu l’inventore della Lega del Po insieme al presidente democristiano della Lombardia. Un atto anticipatore. Da cui poi che nel tempo sono nati figli degeneri e mostruosi.
I problemi del partito a Roma, chiamato a misurarsi in una collocazione nuova sul duplice fronte della società e delle istituzioni, li esaminammo nella conferenza cittadina del 21 ottobre 78. Nella relazione osservavo che governare non è solo azione amministrativa ma anche capacità di padroneggiare i processi reali. E ciò implica una lotta nella società e nelle istituzioni, nonché sul fronte culturale e ideale. La situazione richiedeva una iniziativa capillare, una larga e diffusa campagna contro la violenza e per l’esercizio dei diritti costituzionali. Anche perché eravamo in presenza di un comportamento, oltre che inadeguato, spesso ambiguo e furbesco di taluni corpi dello Stato, rivolto a frenare la mobilitazione democratica e a mettere in difficoltà i comunisti.
Si trattava di decentrare decisamente l’attività del partito, facendo sempre più della sezione il pilastro dell’iniziativa politica e sociale, puntando su relazioni interattive con l’opinione pubblica ed elevando complessivamente il livello politico e culturale di quadri e militanti. Dovevamo superare a mio parere un rapporto con l’esterno talora troppo propagandistico e pedagogico. Ciò comportava non un semplice aggiornamento, ma un cambiamento dell’assetto del partito spostando i quadri dirigenti dal centro verso la base e verso la periferia. Andava in questa direzione la costituzione dei comitati politici circoscrizionali come espressione delle sezioni, per elevarne la capacità politica e unificarne le esperienze e le lotte.
Tuttavia già allora erano presenti una visione e una pratica che consideravo sbagliate e contrastavo. Secondo cui il partito, una volta conquistato il governo, di fatto si identifica con esso, e ne diventa il braccio propagandistico e operativo. Una scelta limitata e rischiosa che produce ricadute negative, perché in tal modo il partito si allontana dalla realtà sociale. Di conseguenza, attenuandosi e disperdendosi le capacità di dare espressione ai bisogni emergenti dal profondo della società sempre in movimento, perde la sua funzione di soggetto del cambiamento. E la stessa attività di governo tende a ridursi a semplice gestione dell’esistente. Un rischio ancora maggiore quando, come nel caso di Roma, la giunta comunale è formata da un’ampia coalizione di partiti diversi sulla base di un programma concordato.
Essenziale è il rapporto con le masse, sosteneva Berlinguer. Una scelta di campo, che è una bussola per orientare il cammino. Senza di che non si possono contrastare le forze dominanti del mercato. Il contrario di quanto predicava Giuliano Amato, secondo il quale l’unico modo per evitare la disgregazione della società consisteva proprio nell’adeguarsi alle tendenze del mercato. Un orientamento peraltro coerente con la visione socialdemocratica, che da tempo subordinava il partito ai gruppi parlamentari e agli organi elettivi, fino a conformarlo, nella pratica liberista di Blair in Gran Bretagna e di Schröder in Germania, sugli interessi dominanti del capitale.
L’esperienza condotta a Roma in quegli anni mi conferma in questa conclusione: un cambiamento reale è possibile, nella città come in Europa e nel Paese, a due condizioni. Che vi sia un progetto coerente di trasformazione della società; e che sia in campo un partito in grado di lottare su tutti i terreni per l’attuazione di tale progetto. Rappresentando e organizzando tutti coloro, uomini e donne, giovani e anziani, autoctoni e migranti, che sono sfruttati nelle più diverse forme del lavoro manuale e intellettuale. Insomma, tutte le vittime, in una forma o nell’altra, dello sfruttamento capitalistico e del parassitismo della rendita.
Oggi, se queste due condizioni non si creano, il rischio che corriamo è di trascinarci in una crisi sociale della metropoli senza sbocchi, e in una crisi ambientale che mette in forse l’esistenza stessa del pianeta. Non è catastrofismo. È guardare in faccia la realtà: riappropriandoci della nostra storia e imparando dai nostri stessi errori. Senza retorica, e senza dipingere un futuro farlocco, che in realtà è un ritorno al passato. Mi riferisco, per restare in tema, al tanto decantato «modello Roma», che aveva lasciato in eredità, secondo il giudizio di Rutelli quando si ricandidò senza successo per succedere a Veltroni, «una città devastata e ridotta allo stremo».
Non si cambia il modello di sviluppo con i cosiddetti grandi eventi che generano profitti per chi organizza il business, ma lasciano la città in uno stato di abbandono e di declino nelle mani della speculazione e della rendita finanziaria e immobiliare. Non si cambia il volto di Roma senza affrontare i problemi del lavoro e dell’ambiente, dei salari, dei servizi sociali e civili. In un condizione in cui cresce la povertà, la disgregazione sociale aumenta, e si diffonde la criminalità mafiosa e camorrista. Non possiamo dimenticare che dopo il Giubileo del 2000, con Veltroni sindaco e Morassut assessore all’urbanistica, viene approvato quello che Nicolini definì «il peggiore piano regolatore nella storia di Roma».
La scelta decisiva, allora, è stabilire da che parte stai. Se stai dalla parte della rendita e del profitto gli errori non li puoi correggere. E nessun reale cambiamento è possibile. Semplicemente perché, stando da quella parte, hai tagliato le tue radici e sei diventato un amministratore al servizio dei padroni di Roma. Questa è la realtà di cui occorre prendere definitivamente atto. E da cui muovere e lavorare per un nuovo inizio. Berlinguer si pronunciò in modo brusco e sferzante: «Tagliare le proprie radici nella speranza di rifiorire meglio sarebbe il gesto inutile di un idiota». Non commento, ognuno commenti con la propria coscienza. Molto tempo da allora è passato e oggi piantare nuove radici non è facile. Ma questo è il tema. E a piantare nuove radici bisogna provarci.
Paolo Ciofi
15 marzo 2019

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