Care compagne, cari compagni. Tredici storie di militanza nel P.C.I.

Nino

Concetto Vecchio da Repubblica del 10 novembre 2020

Cos’è stato il Pci, di cui a gennaio ricorrono i cento anni? Un partito di massa, popolare, nel quale militavano gli operai e gli intellettuali, i giovani e la generazione che aveva fatto la Resistenza. C’è stato un momento, a metà degli anni Settanta, nel quale un italiano su tre votava comunista. Un unicum in Europa. Le città più ricche, da Torino a Roma, da Bologna a Firenze, erano governate da sindaci rossi. Un libro ora racconta le vicende di tredici comunisti italiani, uomini e donne in carne e ossa, per provare a dare conto di questo mondo grande: Care compagne e cari compagni , edito da Strisciarossa, con le vignette di Ellekappa e Staino.

Lo hanno composto dodici autori: Bruno Ugolini, Paolo Soldini, Ella Baffoni, Pietro Spataro, Vittorio Ragone, Onide Donati, Vincenzo Vasile, Guido Sannino, Oreste Pivetta, Maurizio Boldrini, Jolanda Bufalini, Pietro Greco. Tutti, salvo Sannino, sono ex firme dell’Unità.
Ne viene fuori un caleidoscopio esistenziale di grande ricchezza. Un pezzo della nostra biografia culturale e politica. Appartenere al Pci significava non soltanto spendere un’adesione ideale, no, implicava anche di stare dentro una cerchia, connessi in una rete di relazioni umane. “Come in una grande famiglia il partito provvedeva a tutto. I dirigenti e i funzionari delle Botteghe Oscure abitavano nelle case del partito, arredate con i mobili del partito, sempre più o meno uguali. Persino gli operai che entravano in queste case, muratori, idraulici o elettricisti, erano iscritti al partito. I comunisti delle Botteghe oscure per vestirsi andavano tutti nel negozio del compagno Vittadello, in piazza Risorgimento, di cui ci si poteva fidare e che faceva anche ottimi sconti”, ha raccontato Miriam Mafai (1926-2012) in Botteghe oscure addio (Mondadori, 1996).
Infatti scrive l’ex ministro Livia Turco nella prefazione: “Il popolo comunista era una comunità, perché animato dalla forza del progetto politico, che implicava un’idea di società”.
Molti divennero comunisti quando si dovettero confrontare con il lavoro in fabbrica, inurbati dalle campagne nell’Italia del boom economico. Bruno Ugolini ha raccolto, a questo proposito, la storia di Antonio Giallara, leader operaio alla Carrozzeria di Mirafiori, giunto a Torino dalla Sardegna nel 1969, l’anno dell’autunno caldo. La fabbrica era una città, e il partito aveva nuclei in ogni reparto. Giallara si politicizzò e divenne in breve tempo segretario della cellula alla Carrozzeria. In quella Torino i meridionali spesso venivano accolti con i famosi cartelli: “Non si affitta ai meridionali”. A Rivalta molti dormivano nelle baracche, dove i posti letto ruotavano a secondo dei turni alla Fiat. “Allora si parlava di noi”, rammenta però con orgoglio di classe Giallara. E infatti, a forza di scioperi e rivendicazioni, la classe operaia spuntò condizioni di lavori più salubri e salari più dignitosi. Ed è una grande lezione per tutti gli ultimi di sempre, anche nel mondo attuale.
Giallara incrociò il leader del Pci Enrico Berlinguer, un rapporto che si rafforzò durante la vertenza dell’autunno 1980, che poi portò alla marcia dei 40mila. Berlinguer gli chiedeva sempre: “Quanti sardi ci sono in Fiat? E quanti di questi fanno sciopero? E quanti sono iscritti al partito”. E’ interessante notare che queste erano le domande che fece Palmiro Togliatti a Maurizio Valenzi, quando sbarco a Napoli nel 1944: “Quanti sono i compagni napoletani iscritti? “Dodicimila” “Non sembra entusiasta della cifra, ma non replica”, scrive Valenzi in C’è Togliatti (Sellerio).
A Roma, che non aveva fabbriche, la formazione di un comunista, come ha raccontato Loredana Mozzilli a Ella Baffoni, passava attraverso le lotte per gli edili e per le case popolari ai baraccati delle periferie. E bisognava studiare. Per quello c’era la scuola di partito, le Frattocchie, un luogo dove potevi ritrovarti con Nilde Iotti e Rossana Rossanda come docente, ma che, ricorda Mozzilli, “sembrava di stare in un collegio”. La politica era comunque sempre intrecciata alla cultura. Lo dimostra anche la storia di Corrado Angione, che da Bari emigra a Milano, nel quartiere Baggio, nella testimonianza rilasciata a Oreste Pivetta. Dice: “Leggevo l’Unità ogni giorno, tutte le settimane Rinascita, e poi comincia a leggere il Manifesto di Marx, e i libri di storia, da Dennis Mack Smith a Storia degli italiani, di Giuliano Procacci”. Del resto non erano le sezioni spesso gli unici luoghi dove i militanti potevano trovare dei libri, e confrontarsi sui destini del mondo?
È vivida anche la vicenda di Carlo Ricchini, storico caporedattore centrale dell’Unità. A Pietro Spataro ha confessato di sognare ancora un giornale che raccolga l’eredità dello storico organo fondato da Gramsci. L’Unità, negli anni d’oro, la domenica diffondeva anche un milione di copie. Gli stipendi tuttavia erano magri. Ricchini guadagnerà da pensionato il doppio di quello che prendeva da assunto. E i giornalisti lavoravano fino a notte fonda: Ricchini stava scrivendo un articolo su un delitto avvenuto sulla Cassia quando la moglie lo avvertì che erano entrati i ladri in casa. “Ma non potevo lasciare quel pezzo nella macchina da scrivere, e così a casa ci andò Franco Magagnini”, che poi, anni dopo, sarebbe diventato caporedattore a Repubblica. “Mia moglie Elsa non me l’ha mai perdonato”. Ricchini ha visto passare tanti direttori. Il migliore fu Emanuele Macaluso, che inizialmente venne accolto con diffidenza perché esponente dell’ala migliorista, la destra del partito.
Il libro aiuta a capire tante cose di un passato irripetibile, ma non è un’operazione nostalgia. Del resto quel mondo è tramontato per sempre e le ricette di allora oggi forse non funzionerebbero nemmeno più. La sinistra, se vuole ancora parlare al cuore dei ceti più in difficoltà, deve aggiornare i suoi ferri con umanità e generosità.
Dice con saggezza Nino Ferraiuolo, intervistato da Guido Sannino, nella sua casa piena di libri a Napoli: “Da un lato occorrerebbe un’analisi critica della storia del movimento operaio italiano e, più specificamente, del Partito comunista italiano, che non è mai stata fatta. Servirebbe proprio una lettura critica, ma di massa, da parte della intelligencija di sinistra, anche perché la stragrande maggioranza di quelli che hanno appartenuto al Pci non ha fatto, dopo la Bolognina, un bilancio obiettivo e critico di ciò che era ancora valido e attuale e di ciò che invece avrebbe dovuto essere abbandonato. Si è preferito mettere tutto nel dimenticatoio. Dall’altro lato, invece, occorrerebbe un’analisi seria della società attuale, di che cos’è questo nostro Paese oggi, cioè quello che ha sempre cercato di fare il Pci durante tutta la sua storia, anche se non sempre lo ha fatto nella maniera più efficace e aderente alla realtà”.

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