di Michele Prospero *Articolo scritto per “La Parola”- Cesena
E’ destino degli sconfitti essere esposti al ronzio delle chiacchiere dei nemici. E così i cent’anni del Pci sono diventati l’occasione per accanirsi sull’inoffensivo cadavere di quella temibile creatura nata in un teatro di Livorno. Gli ultimi e anche piccoli esemplari, insomma coloro che hanno avuto un qualche ruolo di guida in quello che fu il più grande partito di integrazione di massa d’occidente, sono spaesati ottuagenari e creativi avviati sulle orme di Greta o maschere della commedia inseriti nel mercato dell’opinare come telecronisti, registi, giallisti, documentaristi, romanzieri.
Che chiesa è stato il Pci, con i suoi leader investiti nella funzione quasi a vita, con il nucleo ristretto dell’aristocrazia cardinalizia ben insediata al nucleo di comando di una organizzazione gerarchizzata capace di riconoscere il merito e anche di combattere le eresie, con i mediatori della causa reclutati con la selezione di una inossidabile burocrazia territoriale, con una massa di fedeli attratta con i simboli della redenzione secolarizzata e però educata attraverso la disciplina e la lotta quotidiana. Come da quella esperienza di rinnovamento nella continuità, entro una eccezionale macchina di costruzione della soggettività, si sia sprofondati sino all’assoluto nulla di oggi costituisce un mistero per niente buffo.
E quindi, ai superstiti dell’implosione della ragione politica, tocca sorbire il predicozzo di coloro che inseriscono il Pci in una storia della “dannazione” e che per la sua redenzione suggerivano da tempo di sostituire gli ultimi frutti degli apparati con l’invenzione di immacolati papi stranieri. Letta con le lenti di allora, aveva poco senso una rottura con un nobile partito socialista che non aveva votato i crediti di guerra, che condivideva anch’esso il mito sovietico. Lo riconobbe più tardi lo stesso “sinistro” Terracini che con il suo radicalismo riusciva a far irritare persino Lenin. E anche Gramsci si interrogava sul senso drammatico di scelte compiute che rientravano in una parabola regressiva di sistema. Quando in carcere un Pertini intimorito gli si rivolse con il “lei”, Gramsci si ritrasse da questa formula distaccata, quasi a brandire le sciocchezze inaudite che accompagnano le lotte di fazione.
Il tormento del dubbio che invade il senso di una frattura consumata in un tempo della sconfitta, poco a che fare ha con la leggenda della “dannazione” che imputa a Livorno la responsabilità della marcia squadrista. A gennaio del ’21 si trattava pur sempre di una microscissione che partecipava ad un’onda generale di crisi della democrazia liberale, non l‘ha certo determinata. Non che mancasse spirito fazioso e infantilismo. L’ha scritto anche Amendola. Gli errori commessi per il più bieco minoritarismo negli anni Trenta si tramutavano in una spinta all’agire perché alimentavano una fede, una domanda di eroismo. Per un partito clandestino la follia della sfida settaria era paradossalmente un lievito prezioso. I giovani, anche quelli della borghesia che si vedevano a villa Celimontana, o i calzolai o gli operai, le sarte che non si piegavano avvertivano il fascino di una scuola di sovversione irriducibile.
Al partito combattente si affiancava il partito riflettente. Il pensiero della sconfitta ha alimentato le categorie politiche di Gramsci senza di cui, lo ha scritto Augusto del Noce, sarebbe stato inconcepibile un grande partito. E’ però Togliatti che dirige una sorta di seconda fondazione per i comunisti. Non solo costituzionalizza il partito nuovo (ha scritto di persona l’articolo 13, quello più liberale e garantista della Carta, ha suggerito a Basso l’articolo 3, quello più socialista ed egualitario). Inventa un nuovo modello di partito e, per una esplicita volontà di superare la frattura di Livorno, sin dal 1944 recupera la storia intera del socialismo italiano e apre alla strategia di una ricomposizione unitaria del movimento operaio. Finché la sintesi togliattiana ha retto, il Pci è stato un organismo influente e con le figure di Berlinguer, Ingrao, Amendola, Napolitano, Bufalini, Iotti, Rossanda, Reichlin, Tortorella, Macaluso etc. ha espresso il meglio della cultura politica repubblicana.
E’ con la generazione dei quadri del post-sessantotto che è mutato il profilo identitario e culturale, la “vocazione” della leadership politica. Americanismo e nuovismo, gazebo in luogo dei congressi, oltrismo e persino uccisione dell’idea di partito come archeologia del Novecento, hanno reciso ogni pensiero politico e quindi accompagnato verso il vuoto che spinge un ultimo togliattiano come Macaluso a decretare che in Italia oggi la politica è morta. Ne resta il ricordo. Sarà anche stata una “dannazione” quella del 21 gennaio del 1921. E’ stato però dolce essere tra i dannati che hanno edificato in Italia il Partito, guidato la guerra partigiana e disegnato la democrazia costituzionale.