Di Alexander Höbel
In occasione dell’ anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, per ricordare il grande evento che diede la sua impronta a tutto il XX secolo e oltre, pubblichiamo in questi giorni alcuni articoli sui fatti del 1917 e sulla loro interpretazione.
Il seguente articolo di Alexander Höbel è già stato pubblicato in “Alternative per il socialismo”, 2024, n. 72.

Il rapporto tra il comunismo italiano e il pensiero e la prassi di Lenin è un rapporto organico, fondativo; al tempo stesso è un rapporto complesso, articolato, che si modifica nel corso del tempo. In questa sede sarà quindi possibile analizzare solo le fasi iniziali di tale dialettica e proporre alcuni elementi di riflessione che andrebbero poi ulteriormente sviluppati.
Lo scoppio della Rivoluzione russa, a partire da quella di febbraio, aveva suscitato un grande clamore e un’enorme simpatia nella classe operaia italiana. È nota la vicenda del viaggio compiuto nel nostro paese nell’agosto 1917 da una delegazione di menscevichi, che ovunque vengono accolti al grido di “Viva Lenin!”. Come scriverà Paolo Spriano, Lenin “era stato reso popolare dagli stessi giornali borghesi”, che lo dipingevano “come un pericoloso anarchico, come un uomo venduto alla Germania […]. Ma proprio l’odio che così si manifestava lo rendeva popolare alle masse”.
Astensionisti e ordonovisti
Anche per i gruppi dirigenti delle due correnti principali del Psi che andranno a costituire il Partito comunista d’Italia – quella astensionista bordighiana e quella ordinovista – l’esempio di Lenin e della Rivoluzione russa fu determinante, sia pure con due letture diverse: la rivoluzione contro “Il Capitale”, ossia contro una lettura deterministica del pensiero di Marx, secondo la quale la rivoluzione socialista sarebbe scoppiata nei punti alti dello sviluppo capitalistico, per cui Il capitale in Russia era diventato “il libro dei borghesi più che dei proletari”, secondo il giudizio di Gramsci poi criticato da Togliatti1; e il bolscevismo pianta di ogni clima, secondo la definizione di Bordiga, che rivendicava rispetto a Lenin e ai bolscevichi l’appartenenza al medesimo ceppo rivoluzionario e internazionalista del marxismo.
È significativo che entrambe le correnti, poi unificatesi nella frazione comunista alla vigilia del Congresso di Livorno, rivendicassero un legame organico con Lenin, il bolscevismo, la Rivoluzione d’Ottobre, fornendo però anche di tale legame due interpretazioni ben diverse. Per Bordiga, ciò che contava della lezione di Lenin era lo spirito di scissione, per cui “nel periodo rivoluzionario il partito […] deve lasciare ogni alleanza, ogni diplomazia […] e chiamare audacemente attorno al suo metodo il proletariato”; “con l’approssimarsi della rivoluzione – scriveva – il movimento operaio e socialista si scinde e si seleziona sempre più nella ricerca della soluzione storica del problema rivoluzionario. Il Partito Comunista ha questo compito: di precisare sempre più il campo dei suoi metodi d’azione […] sicuro di avere il consenso delle masse proletarie nell’ora decisiva”.
Per Gramsci, lo spirito di scissione era certamente importante, ma ancora più rilevanti erano altri aspetti dell’opera di Lenin e dei bolscevichi: l’aver rotto con le concezioni evoluzionistiche del marxismo, suscitando energie nuove in tutto il mondo; avere abbandonato anche ogni visione utopistica, poiché, “volendo che si realizzi il fine massimo del programma socialista, lavorano a suscitarne le condizioni necessarie di cultura organizzazione”; l’idea leniniana – e bolscevica – della conquista della maggioranza del proletariato attorno all’ipotesi rivoluzionaria. Non a caso, la mozione Per un rinnovamento del Partito, redatta da Gramsci nell’aprile 1920, con lo “sciopero delle lancette” ormai al termine, chiedeva al Partito socialista di trasformarsi in un Partito comunista e di porsi coerentemente in sintonia con quella III Internazionale a cui pure aveva preteso di aderire, diventando “da partito parlamentare piccolo-borghese, il partito del proletariato rivoluzionario” e separandosi dai riformisti prima che iniziasse una “tremenda reazione”. Fu questa, peraltro, la linea che Lenin riconobbe come la più vicina all’impostazione bolscevica, e dunque l’ipotesi che ottenne il sostegno dell’Internazionale fino alla vigilia del Congresso di Livorno, allorché invece prevalse l’intransigentismo bordighiano, per cui, anziché ottenere l’espulsione dei riformisti dal partito o comunque il distacco da loro della maggioranza del Psi, si giunse a quella scissione di minoranza che susciterà le riserve del Comintern e la successiva autocritica dello stesso Gramsci.
(Il testo completo dell’articolo è consultabile in allegato)