Di Michele Ciliberto
Il seguente articolo di Michele Ciliberto sulla scomparsa dello storico dirigente del Pci Aldo Tortorella è già stato pubblicato sul sito Strisca Rossa il 12 febbraio scorso.

Nei giorni scorsi si è parlato molto di Aldo Tortorella e lo si è fatto al presente, non al passato, giustamente. Aldo infatti è rimasto, come si dice, sulla breccia, fino all’ultimo momento ed anche in ospedale ha continuato a lavorare.
Se si riflette non è un comportamento eccezionale, ma un tratto tipico della generazione di dirigenti comunisti alla quale Aldo apparteneva: Napolitano, Chiaromonte, Reichlin, Macaluso, naturalmente Berlinguer: tutti nati negli anni ’20 del secolo scorso e tutti protagonisti della stessa “scelta di vita”, prima con l’attività antifascista, poi come militanti e dirigenti del Partito comunista italiano.
Come si sa, le generazioni contano, come una volta spiegò Togliatti, non sono un fatto cronologico ma qualcosa di più essenziale, profondamente innestato nelle trasformazioni dei processi storici.
La sua ricerca lontana dallo storicismo di Togliatti
Nella vicenda del Partito comunista italiano, mi azzardo a dire, non c’è più stata una generazione comparabile a quella delle personalità ora citate. Ognuno di loro avrebbe potuto avere una diversa sorte ma scelsero tutti, e qui è stata certo una grandezza del partito nuovo di Togliatti, la politica, intesa come il centro della propria esistenza. Tortorella però, pur apprezzando Togliatti era per molti aspetti lontano dalle sue posizioni teoriche, dal suo “storicismo” e anche dal rapporto complesso, ma certo profondo, con Benedetto Croce: si era formato a Milano con Antonio Banfi, laureandosi su Spinoza che rimase fino alla fine un testo essenziale di riferimento sul proprio scrittorio: anzitutto Spinoza del Trattato teologico politico e del Trattato politico.
Questa diversa inclinazione rispetto agli altri esponenti di quel gruppo dirigente del Partito comunista, gli creò non pochi problemi e suscitò anche conflitti con compagni di partito che erano invece pienamente risolti nella tradizione, per capirsi, dello storicismo: come, ad esempio, Mario Alicata con cui ebbe scontri molto acuti in occasione di un congresso della Federazione del Partito comunista di Milano.
Su questa sua diversa formazione Tortorella è tornato anche nei suoi ultimi giorni in una intervista a Repubblica concessa ad Antonio Gnoli.
Nell’ambito del gruppo dirigente del PCI Aldo ha dunque avuto un suo particolare profilo che deve essere sottolineato perché è un elemento importante di originalità della sua figura sia di uomo che di intellettuale e di politico, particolarmente interessato ai problemi della teoria. De resto, è stato lo stesso Togliatti a sottolineare che il PCI non era un partito monocefalo ma poteva contare su molte sensibilità per quanto unificate da una scelta politica comune.
È notevole però, specialmente nell’ultimo periodo della riflessione politica di Tortorella, la nettezza con cui si distacca dallo “storicismo” di Togliatti, dal suo “stalinismo”, dalle scelte che ne derivarono a cominciare dall’appoggio nel ’56 ai carri armati sovietici: una scelta che provocò una crisi profonda anche in Tortorella fino a fargli prendere in considerazione l’idea di abbandonare addirittura il PCI. Questo però non vuol dire che Tortorella si sia mai mosso nel suo partito secondo una logica di tipo minoritario; anzi, è sempre stato in modo pieno e leale un dirigente del PCI e un sostenitore della sua politica. Contrario alla nascita del PDS si allontanò definitivamente da quel partito quando D’Alema, Presidente del Consiglio – una figura dalla quale si era sempre sentito lontano – decise di bombardare Belgrado. La guerra, specialmente quando fosse sostenuta da un uomo politico che era cresciuto nel suo partito, era per Tortorella qualcosa di inaccettabile, era il punto di non ritorno. D’altronde è sul tema della pace e della guerra che si è impegnato fino ai suoi ultimi anni.

Quando mi chiese di collaborare con l’Unità
Molti della mia generazione – quella del ’68 per intenderci – hanno avuto modo di sperimentare direttamente questa ricchezza e complessità della personalità di Tortorella – uomo di partito ma sempre capace di pensare in modo autonomo, con la propria testa. Se posso introdurre un ricordo personale ho conosciuto per la prima volta Aldo in occasione di una riunione della Commissione culturale del PCI fiorentino dei primi anni ’80, che cito anche perché dimostra come interpretassero la loro funzione i dirigenti del PCI della generazione di Tortorella. Intervenni nella discussione aperta da una compagna bravissima e troppo presto scomparsa – Katia Franci – ed espressi la mia opinione in un momento complesso della vita dell’Italia e del partito. Non è però sul mio intervento che voglio fermarmi, quanto sul fatto che pochi giorni dopo venni invitato con una telefonata a collaborare all’Unità, allora diretta da Alfredo Reichlin. Nemmeno questo era però un fatto eccezionale: i dirigenti di quel partito, fra i propri compiti, ritenevano di avere anche quello di scoprire nuovi “talenti” e di offrire loro la possibilità di realizzarsi – iniziando a collaborare, nel mio caso, all’Unità – ed invitandoli costantemente ad insistere, cioè ad impegnarsi in modo costante, nel lavoro sia politico che intellettuale. Era, così mi appare oggi, una grande lezione al tempo stesso di moralità e di politica, un invito a svolgere in modo serio il lavoro al quale si era chiamati.
Tortorella era però un uomo, voglio sottolineare anche questo, capace di esprimere il proprio dissenso sia sul piano politico che su quello personale anche quando non condivideva le scelte che venivano fatte da compagni ai quali era stato pure molto legato, come avvenne durante gli anni tempestosi della fine del PCI. Del resto, la lotta politica, come diceva Machiavelli, non si fa con i “paternostri”. Ciò non toglie però che Tortorella fosse poi altrettanto capace di ristabilire rapporti, una volta che i processi si fossero compiuti e una nuova storia stesse comunque iniziando. Ha sempre saputo guardare avanti, forse questo era il tratto più forte della sua personalità; ed anche questa era una lezione al tempo stesso di politica e di moralità – moralità, non moralismo, una distinzione fondamentale che aveva imparato dal suo maestro Antonio Banfi.
Ci eravamo rivisti dopo molto tempo in occasione di un suo intervento alla Scuola Normale Superiore di Pisa e poi ci eravamo sentiti nelle ultime settimane per concordare una sua conversazione con i borsisti dell’Istituto che dirigo a Firenze.
Aveva accettato con entusiasmo ma la fortuna che regge la vita degli uomini ha deciso in modo diverso da quanto sia io che lui avremmo sperato.
Stavamo concordando il tema della sua conversazione e penso che alla fine ci saremmo accordati nel parlare della “libertà solidale” – una espressione nella quale si concentravano alcune delle sue ultime, più importanti, riflessioni. Funzione e centralità della libertà sempre e comunque, ma anche solidarietà: appunto libertà solidale. Era a mio giudizio una intuizione originale che avrebbe avuto certo bisogno di essere ulteriormente approfondita. Ma non c’è stata possibilità di discutere e di confrontarsi e questo è per me il più grande rammarico.