Pietro Ingrao, realista eretico del Novecento, di Gianpasquale Santomassimo

Recensione dei volumi della collana Carte Ingrao di Gianpasquale Santomassimo da Il Manifesto dell’11/12/2013

Ingrao, Rodotà

Pietro Ingrao. Uomo delle istituzioni, costruttore di democrazia, uomo di partito, utopista. Sono alcune delle definizioni che hanno accompagnato la sua lunga militanza comunista e intellettuale. Due volumi che ripercorrono le tappe. Il primo raccoglie cinque contributi su un «capocorrente riluttante» che ha avuto un ruolo rilevante nella sinistra italiana. Il secondo libro, invece, presenta i suoi scritti sul lavoro, dove dialoga alla pari con uomini e donne considerati i pilastri della Costituzione

«Pochi sono, nella sto­ria, i pro­ta­go­ni­sti reni­tenti ad essere tali», era l’esordio memo­ra­bile del pro­filo di Mar­tin Lutero scritto da Delio Can­ti­mori nel 1966. Si sta par­lando di ere­sia, e forse, si parva licet, non è del tutto fuori luogo acco­stare Pie­tro Ingrao alla figura di un pro­ta­go­ni­sta rilut­tante sul ter­reno dell’eresia. Con la dif­fe­renza, però, che nel caso di Ingrao la reni­tenza non venne abban­do­nata, se non troppo tardi, a gio­chi ormai fatti, e in chiave retro­spet­tiva. In qual­che misura si potrebbe addi­rit­tura rie­su­mare l’«actus, non agens» per un pro­ta­go­ni­sta che affermò sem­pre la sua volontà di venir preso nel «gorgo» della sto­ria, ma sarebbe for­zare troppo l’analogia.

Ingrao fu «capo-corrente» rilut­tante ad esserlo, più per­ce­pito e iden­ti­fi­cato come tale che eser­ci­tante una effet­tiva volontà di agire in quel senso. Attorno a Ingrao si era costi­tuita nei primi anni Ses­santa qual­cosa che somi­gliava molto a una cor­rente (fra­zione la defi­nirà poi lui stesso in Volevo la luna). Non si vuol dire a sua insa­puta, il che sarebbe offen­sivo, ma certo senza il suo patro­ci­nio e senza la sua dire­zione attiva. E la cosa anzi gli è stata rim­pro­ve­rata più volte.

Il matu­rare di un dub­bio, sin­tesi ine­vi­ta­bil­mente sem­pli­fi­cata di molti dubbi (e sulla cate­go­ria del dub­bio e sulla sua decli­na­zione in Ingrao si vedano le pagine molto belle di Andrea Camil­leri), che alla metà degli anni Ses­santa diviene dis­senso espli­cito e riven­di­cato come tale (e, soprat­tutto, riven­di­cato come diritto nel modo di esi­stere dell’organismo poli­tico), lo porta a venire iden­ti­fi­cato allora e in seguito come lea­der di una tendenza.

Torti e ragioni

I ter­mini del con­ten­dere tra Ingrao e Gior­gio Amen­dola (che venne iden­ti­fi­cato come il suo anta­go­ni­sta) sono molto lon­tani nel tempo, tal­mente lon­tani che Ingrao vi dedica pochi cenni nella sua auto­bio­gra­fia. All’inizio degli anni Ses­santa, men­tre si pro­fi­lava la svolta del cen­tro­si­ni­stra, ten­sioni e intel­li­genze inquiete tanto nel par­tito quanto nel sin­da­cato comin­cia­rono a inter­ro­garsi sulle novità che inter­ve­ni­vano nella società e nella poli­tica in Ita­lia. Sulla pro­po­sta pos­si­bile di un nuovo modello di svi­luppo dell’economia ita­liana, men­tre il «mira­colo eco­no­mico» si affie­vo­liva, lasciando die­tro di sé una rivo­lu­zione epo­cale che aveva infranto quello che a distanza di tempo venne defi­nito il «blocco di quin­dici secoli» di una Ita­lia con­ta­dina, quasi immu­ta­bile nei suoi fon­da­men­tali, e con tutti i traumi e gli squi­li­bri che una tra­sfor­ma­zione di que­sta por­tata met­teva dram­ma­ti­ca­mente in luce. Si impo­ne­vano tanto una ana­lisi del «neo­ca­pi­ta­li­smo» ita­liano che sem­brava trion­fare, quanto delle impli­ca­zioni imme­diate e di pro­spet­tiva che la rot­tura dell’unità del movi­mento ope­raio com­por­tava con l’ingresso dei socia­li­sti nell’area di governo.

Retro­spet­ti­va­mente, lon­tani come siamo da quella con­tesa, potremmo dire che torti e ragioni erano fram­mi­sti in entrambe le let­ture con­trap­po­ste della società ita­liana che sot­tin­ten­de­vano: c’era dav­vero un neo­ca­pi­ta­li­smo dina­mico, e al tempo stesso il capi­ta­li­smo ita­liano con­ser­vava carat­te­ri­sti­che di arre­tra­tezza e arcai­cità che sareb­bero tor­nate ad emer­gere; il cen­tro­si­ni­stra rap­pre­sen­tava una svolta, ma non l’«integrazione» della classe ope­raia nelle logi­che di un sistema, come le lotte alla fine del decen­nio avreb­bero evidenziato.

Quasi dimen­ti­cato nel tempo è invece l’avvio di quella con­tesa, che si può far risa­lire al dicem­bre 1964, nella scelta del gruppo par­la­men­tare comu­ni­sta diviso tra le can­di­da­ture di Sara­gat e di Fan­fani alla Pre­si­denza della Repub­blica, con ciò che sot­tin­ten­de­vano in ter­mini di alleanze da pri­vi­le­giare, tra blocco laico o pro­gres­si­smo cat­to­lico. Qui Ingrao scon­fitto vide pre­va­lere nel tempo lungo la sua opzione, ma in cir­co­stanze diverse da quelle imma­gi­nate e dopo il dis­sol­vi­mento della nebu­losa che attorno a lui si era creata.

Ma ci sono alcune par­ti­co­la­rità nel per­corso di Ingrao su cui è oppor­tuno sug­ge­rire una rifles­sione futura. La sua vita poli­tica molto intensa lo ha visto impe­gnato soprat­tutto nel gior­nale di par­tito e nel Par­la­mento, assai poco nelle strut­ture del par­tito vero e pro­prio, dove non ha mai rico­perto inca­ri­chi diret­tivi, salvo una breve per­ma­nenza nella Segreteria.

Pie­tro Ingrao è stato cer­ta­mente «uomo di par­tito» e tra i più rap­pre­sen­ta­tivi del comu­ni­smo ita­liano, diri­gente amato dal popolo comu­ni­sta, pur senza esser mai né popu­li­sta né «capo­polo». Ma fu soprat­tutto «uomo delle isti­tu­zioni», da gestire e da rifor­mare. Capo­gruppo alla Camera dei depu­tati, suc­ce­duto nel ruolo a Togliatti e per­ciò indi­cato da taluni come «del­fino», rico­prì poi il ruolo di Pre­si­dente della Camera tra il 1976 e il 1979.

Fu allora uomo della «cen­tra­lità del par­la­mento», come ricorda giu­sta­mente Mario Tron­ti­nella sua Lezione del 2010 su Per­sona e poli­tica. Cosa si vuol dire? Va ricor­data la par­ti­co­la­rità della breve legi­sla­tura della Pre­si­denza Ingrao. C’era un governo di mino­ranza, che si reg­geva su asten­sioni con­cor­date, e c’era, soprat­tutto, un Par­la­mento che legi­fe­rava libe­ra­mente senza schie­ra­menti pre­co­sti­tuiti, e che approvò leggi impor­tanti e fon­da­men­tali tanto sul piano civile che sul piano sociale. Anche su que­sto ter­reno, l’ultimo Ingrao è molto sbri­ga­tivo e nell’autobiografia parla pres­so­ché esclu­si­va­mente del «rovello» legato alla man­cata libe­ra­zione di Moro (fu tra i desti­na­tari delle sue let­tere). Ma i ter­mini più pro­pri e spe­ci­fici dell’impegno poli­tico di Ingrao in que­gli anni furono quelli legati alla costru­zione di una demo­cra­zia, alla «nuova rela­zione fra Stato e popolo» che emer­geva dalla Costi­tu­zione, alla neces­sa­ria riforma di quel rap­porto attra­verso una rela­zione più ricca tra Par­la­mento e «trama delle assem­blee elet­tive locali», che diverrà nel tempo vero e pro­prio pro­getto di riforma com­ples­siva delle isti­tu­zioni, l’ultimo pro­getto, se pure inde­fi­nito nelle sue arti­co­la­zioni, di riforma isti­tu­zio­nale nel qua­dro della fedeltà ai prin­cipi costi­tu­zio­nali e in clima di mas­sima soli­dità ed espan­sione di un «sistema dei par­titi» del quale pochi comin­cia­vano ad avver­tire le prime crêpe.

Quale fosse lo spi­rito che ani­mava la sua pre­si­denza si può cogliere benis­simo nel discorso alle accia­ie­rie di Terni del 10 feb­braio 1978, dove Ingrao non parla da ospite o da auto­rità in visita isti­tu­zio­nale, ma si pone alla pari con gli inter­lo­cu­tori. Non parlo ad estra­nei — dice rivol­gen­dosi agli ope­rai — «parlo a gente che sta alla radice delle norme solenni scritte in quella carta: parlo a “fon­da­tori”, a “costi­tuenti”». Chie­deva loro di entrare nelle isti­tu­zioni recando con sé tutti i pro­blemi e la sapienza che il loro vis­suto faceva emer­gere, per arric­chire un patto costi­tu­zio­nale da ren­dere con­creto e operante.

1804-4 Lezioni per Pietro Ingrao_cop_14-21Un curiosità interrogante

Finita per sua volontà quella espe­rienza, Ingrao scelse di dedi­carsi attra­verso il Cen­tro per la Riforma dello Stato alla que­stione dello Stato da ripen­sare, al rap­porti tra demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva e demo­cra­zia dif­fusa, tra isti­tu­zioni e società come asse di ricerca per una pos­si­bile tran­si­zione al socia­li­smo, con quella «curio­sità inter­ro­gante» che ha carat­te­riz­zato negli anni l’atteggiamento del per­so­nag­gio di fronte ai suoi tempi.

Ci sono però tre ordini di pro­blemi da distin­guere nettamente:

1) c’è l’Ingrao sto­rico, che dovrà essere pazien­te­mente rico­struito attra­verso le sue Carte, che qui ini­ziano a vedere la luce, docu­menti che soli potranno con­sen­tire la rico­stru­zione del suo agire poli­tico nel tempo e della dimen­sione cul­tu­rale (e let­te­ra­ria) che fu sem­pre stret­ta­mente con­nessa alla sua azione.

2) c’è l’Ingrao che ognuno si è costruito (come nota Ste­fano Rodotà) attra­verso il pro­prio par­ti­co­lare, più o meno inteso «ingrai­smo», o attra­verso una valu­ta­zione comun­que par­te­cipe pur se distante. Pro­prio le carat­te­ri­sti­che di lea­der «rilut­tante» che abbiamo ricor­dato hanno fatto sì che Ingrao dive­nisse sim­bolo di qual­cosa dif­fi­cile da defi­nire in ter­mini uni­voci, ma comun­que lie­vito e sti­molo per tanti.

3) e infine a com­pli­care le cose c’è anche l’Ingrao di Ingrao mede­simo. C’è in par­ti­co­lare l’ultimo periodo di rica­pi­to­la­zioni auto­bio­gra­fi­che (non solo il Volevo la luna, ma anche gli arti­coli sulla Rivi­sta del mani­fe­sto, le molte inter­vi­ste e i libri che ne sono a volte sca­tu­riti) che suscita molte per­ples­sità. Per­ché Ingrao si è dedi­cato ad auto­cri­ti­che che anda­vano spesso al di là del dovuto e del logico per diven­tare auto­fla­gel­la­zioni. E soprat­tutto per­ché l’ultimo Ingrao sem­bra in qual­che misura avere inte­rio­riz­zato e fatto pro­prie raf­fi­gu­ra­zioni dif­fuse e ridut­tive che sono a lungo cir­co­late sulla sua opera com­ples­siva. Accenno sol­tanto alla riven­di­ca­zione ricor­rente e quasi pre­do­mi­nante della forza dell’utopia, e addi­rit­tura l’autodefinirsi acchiap­pa­nu­vole (e senza vir­go­lette) per raf­for­zare que­sta immagine.

Credo che sia neces­sa­rio però uscire dalle neb­bie dell’«ingraismo», pur senza tra­scu­rare ovvia­mente la forza di miti che vivono di vita pro­pria e assu­mono forza di suggestione.

Biso­gne­rebbe invece ripar­tire da un’affermazione molto impor­tante di Ste­fano Rodotà nella sua bella intro­du­zione agli scritti di Ingrao sulla con­di­zione ope­raia, e che rove­scia il senso delle imma­gini ricor­renti. A ben vedere non è para­dos­sale affer­mare che su que­sto ter­reno l’Ingrao poli­tico fu «il più rea­li­sta di tutti». Nell’Ingrao che si occupa del lavoro c’è supe­ra­mento dell’economicismo, pro­prio di tanta parte dell’approccio poli­tico e sin­da­cale. C’è la per­ce­zione evi­dente dell’attacco al lavoro, e ai lavo­ra­tori in carne ed ossa, con tutta la disu­ma­nità e l’alienazione che que­sta com­porta. Non è un caso che ricorra tante volte nelle memo­rie di Ingrao il Cha­plin di Tempi moderni, che sem­bra avere influen­zato in forma dura­tura la sua per­ce­zione della moder­nità. Nell’articolo su La Tipo e la notte da cui prende titolo il volume (sul mani­fe­sto del feb­braio 1993) si parla dell’introduzione del lavoro not­turno come norma nella Fiat di Melfi, con lo scon­vol­gi­mento dei ritmi di vita, di affetti, dei rumori e dei silenzi che que­sto com­porta. C’era in que­sti scritti la capa­cità di cogliere il senso della pre­ca­rietà prima ancora che essa venisse rico­no­sciuta come com­po­nente essen­ziale della nuova con­di­zione lavo­ra­tiva e delle impli­ca­zioni reali di una «fles­si­bi­lità» che comin­ciava a imporsi come modello obbli­gato e indi­scusso. Ma soprat­tutto – in que­sto credo risieda il vero «rea­li­smo» di Ingrao – c’era la con­sa­pe­vo­lezza di par­lare sem­pre di per­sone reali, non di modelli socio­lo­gici ed eco­no­mici, con tutto il rispetto che alle per­sone è dovuto.

Gli uomini volano

A pro­po­sito di ere­sie, dopo aver citato Can­ti­mori, mi viene in mente anche un’autodefinizione di Euge­nio Garin, che si definì spesso «un ere­tico». Ma con una pre­ci­sa­zione sin­go­lare e impor­tante, scritta nel 1960: «l’eresia è feconda in quanto non si este­nua in una pro­te­sta anar­chica, ma è ere­sia den­tro un’ortodossia». Que­sta con­ce­zione dell’«eretico all’interno di una orto­dos­sia», è meno stra­va­gante di quanto possa sem­brare a prima vista, in quanto i due ter­mini si sosten­gono a vicenda e sono entrambi neces­sari. L’eresia ha un senso solo se nasce all’interno di un grande pro­getto, e l’eretico è tale solo se è parte di una comu­nità, di cui con­di­vide gli obiet­tivi di fondo.

C’è un rac­conto molto sug­ge­stivo nel Sarto di Ulm di Lucio Magri, per citare un altro grande poli­tico e intel­let­tuale che fu vicino alle sug­ge­stioni di Ingrao. Nella prima pagina del libro Magri scri­veva che l’idea del titolo gli era venuta ricor­dando un’affollata assem­blea in cui Ingrao, dopo la Bolo­gnina e in pole­mica con Occhetto, aveva citato scher­zo­sa­mente la poe­sia di Bre­cht sul sarto che voleva volare. E pro­se­guiva: «Tut­ta­via, com­menta Bre­cht – alcuni secoli dopo gli uomini riu­sci­rono effet­ti­va­mente a volare».

Que­sta cosa però non esi­ste in Bre­cht, era un’aggiunta otti­mi­stica di Ingrao. Il sarto si spiac­cica al suolo, e il vescovo con­ferma che l’uomo non può volare, e Bre­cht qui si ferma. Ma quell’aggiunta ci fa capire la dispo­si­zione men­tale di Ingrao: volare dav­vero, arri­vare alla luna, non solo volerla, assieme a milioni di altre per­sone che sognano la stessa conquista.

Scritti su Gramsci. Palmiro Togliatti a cura di Guido Liguori. Editori Riuniti 2013

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Gli Editori Riuniti hanno ripubblicato la raccolta di interventi di Togliatti su Gramsci intitolata “Scritti su Gramsci”, curata nel 2001 da Guido Liguori.

[…] Non riesco a trovare, nella storia dell’ultimo secolo del nostro paese, una figura che gli stia a pari, dopo la scomparsa dei grandi del Risorgimento. […] Nella sua vita la dialettica della lotta tra la volontà e la ragione e le spinte oggettive naturali e sociali assume però le note del dramma, che non tanto prelude, quanto è già un atto vissuto della ricerca morale dei tempi nostri. […] Così ci appare egli oggi, nella unità inscindibile della lotta politica da lui condotta e della riflessione quieta (ma non sempre…) dei Quaderni del carcere. Antonio Gramsci è la coscienza critica di un secolo di storia del nostro paese. […] Conta più di tutto quel nodo, sia di pensiero, sia d’azione, nel quale tutti i problemi del tempo nostro sono presenti e si intrecciano. È anche un nodo di contraddizioni, lo so; ma sono contraddizioni che trovano la loro soluzione non in un pacifico giuoco di formule scolastiche, ma nell’affermazione di una ragione inesorabilmente logica, di una verità spietata e della costruzione operosa di una nuova personalità umana, in lotta non solo per comprendere, ma per trasformare il mondo. Palmiro Togliatti (da Gramsci un uomo, 1964)

[…] Andando al di là di alcuni elementi indubbiamente datati e anche fuorvianti, facilmente individuabili, dovuti al contesto storico in cui questi interventi furono composti […] gli scritti e i discorsi di Togliatti su Gramsci offrono elementi e spunti di rilievo, molti dei quali sono stati a lungo ignorati o non adeguatamente valorizzati. Togliatti per primo, e con migliore conoscenza di chiunque altro, ha indicato elementi importanti per comprendere il percorso del suo antico compagno di studi prima e di militanza e di lotta politica poi. Basti per tutti ricordare l’affermazione […] per cui gli scritti gramsciani potranno essere compresi pienamente solo da chi avrà conquistato una conoscenza approfondita dell’attività politica di Gramsci: indicazione, questa, che è stata raccolta fin dagli anni Sessanta-Settanta per quel che concerne gli scritti precarcerari, ma che solo negli ultimi anni è stata seguita facendo registrare consistenti progressi anche per quel che riguarda gli anni del carcere. […] (Dalla prefazione alla presente edizione)

Guido Liguori, è docente di Storia del pensiero politico contemporaneo presso l’Università della Calabria, presidente della International Gramsci Society Italia e caporedattore della rivista di cultura politica «Critica marxista». È autore tra l’altro dei seguenti libri: Gramsci. Guida alla lettura (con Chiara Meta, 2005); Sentieri gramsciani (2006, vincitore del Premio Sormani, tradotto in Brasile); La morte del Pci (2009, pubblicato anche in Francia). Ha curato nel 2009 con Pasquale Voza il Dizionario gramsciano 1926-1937, contenente oltre 600 voci scritte da 60 specialisti di diversi paesi.

GUIDO LIGUORI

INDICE

7 Prefazione alla nuova edizione

9 Introduzione di Guido Liguori

40 Nota ai testi Scritti su Gramsci

47 Antonio Gramsci un capo della classe operaia

52 In memoria di Antonio Gramsci

65 Antonio Gramsci capo della classe operaia italiana

99 La politica di Gramsci

102 L’eredità letteraria di Gramsci

104 Lezione di marxismo

107 L’insegnamento di Antonio Gramsci

115 Discorso su Gramsci nei giorni della Liberazione

126 Gramsci, la Sardegna, l’Italia

138 Antonio Gramsci e don Benedetto

140 Pensatore e uomo di azione

160 Gramsci sardo 166

L’antifascismo di Antonio Gramsci

193 Storia come pensiero e come azione

203 Attualità del pensiero e dell’azione di Gramsci

224 Il leninismo nel pensiero e nell’azione di A. Gramsci (Appunti)

247 Gramsci e il leninismo

276 La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-24

302 Gramsci e la legge contro la massoneria

309 Rileggendo «L’Ordine Nuovo» 320 Gramsci, un uomo

324 Indice dei nomi

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Partito nuovo e blocco storico | Piero di Siena

(dalla Introduzione del volume Nel Pci del Mezzogiorno, Frammenti di storia sul filo della memoria, di Piero di Siena, Calice editore, presentato con successo a Roma venerdì 19 giugno presso l’Archivio audiovisivo del Movimento operaio e democratico da Piero Bevilacqua, Paolo Ciofi, Cecilia d’Elia, Aldo Tortorella)

Le testimonianze su protagonisti e su particolari passaggi della storia del Pci nel Mezzogiorno che ho raccolto in questo volume possono anche contribuire alla ricostruzione di quello che è stato nelle pieghe della vita del Paese il “partito nuovo” voluto da Togliatti all’indomani della caduta del fascismo. Si tratta cioè di indagare su come esso si sia concretamente sviluppato a contatto con i caratteri ineguali che andavano assumendo le trasformazioni che hanno investito l’Italia dal secondo dopoguerra sino alle soglie degli anni Ottanta. Una “giraffa” l’aveva definito Togliatti, con lo sguardo collocato in alto e quindi capace di vedere lontano e un corpo pesante e con piedi ben piantati nella realtà in cui operava.
Nella ricostruzione che ne hanno fatto anche alcuni dei suoi protagonisti si tende a sottolineare il carattere popolare e nazionale che quella inedita formazione politica, senza egualiLa presidenza nell’esperienza storica del comunismo europeo e mondiale del Novecento, ha via via assunto nel corso del suo sviluppo, quasi una forza interclassista, un fenomeno speculare – identico sebbene rovesciato – al coevo sviluppo di un partito come la Democrazia cristiana.
E’ mia opinione invece – e le esperienze di cui dò conto lo confermano – che il partito nuovo nello sviluppo dei suoi caratteri di massa costituisce un’originale evoluzione del partito di classe, nel senso che esso si costituisce entro un esplicito rapporto tra classi sociali diverse attraverso l’esercizio di una funzione egemonica di una classe sulle altre. E’ insomma la forma politica organizzata attraverso cui si realizza la costituzione di quel “blocco storico” di cui parlava Gramsci. E ciò avviene non nel quadro di un’astratta gerarchia determinata dall’ideologia del primato del proletariato industriale ma nel vivo dell’assetto concreto assunto dalla società e della sua composizione demografica che cambia da parte a parte del Paese. Se non c’è dubbio che la classe operaia costituisce la forza egemonica intorno a cui un blocco sociale alternativo si fa partito nei grandi centri urbani del triangolo industriale, la partita per il Pci da questo punto di vista appare subito sostanzialmente persa nella provincia lombarda o nel Veneto dove la rete capillare della presenza cattolica diventa il punto di riferimento dei contadini e in molti casi della maggioranza della stessa classe operaia. Mentre in forma del tutto originale diventa blocco maggioritario nelle regioni dell’Italia centrale.
Nel Mezzogiorno, com’è noto, la formazione del partito nuovo è segnata dal processo attraverso cui avviene il riscatto di immense masse contadine. Ma anche qui, come testimonia l’eccezionale esperienza di costruttore politico svolta da Michele Mancino, ciò avviene a macchia di leopardo e più in relazione al successo più o meno ampio dell’applicazione dei decreti Gullo di riforma dei patti agrari che per effetto della lotta contro il latifondo che ebbe nella società del tempo sicuramente una più vasta eco politica. E vi sono anche realtà dove (come mi è capitato di scrivere per Avigliano ricostruendo la genealogia della cultura politica di Laguardia, primo lavoratore licenziato dalla Fiat di Melfi) il Pci risulta essere più l’erede della tradizione giacobina dei ceti medi che espressione delle masse popolari.
La costruzione del partito nuovo, vista in questa luce, segue quindi l’andamento ineguale che caratterizza lo sviluppo della società italiana, in tutta la sua storia e in particolare nel secondo dopoguerra. Le concrete relazioni sociali che si costituiscono attorno alla formazione del Pci come partito di massa sono spesso anche lo specchio della realtà locale in cui questo processo si realizza, oltre che frutto della sua funzione nazionale. In qualche caso le condizioni locali costituiscono il contesto per il quale il progetto stesso del partito nuovo non decolla, nel senso che vi sono, ad esempio, realtà del Mezzogiorno interno, oppure alcune città medie meridionali, nelle quali il Pci partito di massa non lo diventa mai, sino alla sua fine. Questo vuol dire che nel ricostruire l’esperienza storica del Pci e il complesso nesso nazionale/internazionale che segna l’intera parabola della sua esistenza, non possiamo prescindere dal rapporto tra le classi che in esso si realizza, spesso diverso da luogo a luogo, e che la sua crisi è certo esaurimento di una funzione nazionale ma avviene anche in ragione della dissoluzione del blocco storico realizzatosi al suo interno e attorno ad esso. E’ evidente, quindi, che tra i due livelli (funzione nazionale e radicamento popolare) vi è una correlazione biunivoca che non dovrebbe, sul piano della ricostruzione storica, mai essere smarrita.
Tali valutazioni ci portano inoltre, su un altro versante, a prendere in considerazione esplicitamente – almeno a partire dalla seconda metà degli anni Settanta e dal fallimento della strategia del compromesso storico – di ricostruire la storia dal Pci alla luce delle ragioni che hanno in modo differenziato concorso prima alla sua crisi e poi alla sua fine. E’ un mutamento di prospettiva in quel rapporto tra passato e presente su cui si fonda in generale la ricerca storica (ciò che ne fa ineluttabilmente una disciplina “militante”) ormai maturo e ricco di potenziali sviluppi per cominciare a capire il senso del percorso imboccato dal Paese nell’ultimo ventennio e la sua crisi.

Crisi dei partiti, crisi della sinistra

9788806215545
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Finale di partito. Recensione di Fabio Vander al libro di Marco Ravelli 
L’ultimo libro di Marco Revelli (Finale di partito, Torino, Einaudi, 2013, pp. 137) ha per tema un argomento non certo inedito, ma che affrontato in modo originale può riservare ancora interesse: la crisi della “democrazia dei partiti”. Fenomeno di carattere universale, che si è diffuso in tutte le democrazie occidentali particolarmente dopo il 1989, suscitando tra l’altro un’ampia messe di studi di storia e sociologia politica, di cui Revelli dà in parte conto.
Eppure a nostro avviso il libro è piuttosto un capitolo della crisi della cultura politica della sinistra italiana. E da questo riguardo intendiamo ragionarne. Il rischio è infatti che dietro un’analisi di scuola delle ragioni della crisi – la solita “società liquida” (del solito Bauman) che di necessità determinerebbe la fine di strutture pesanti e ingombranti come i partiti di massa ecc. – si nasconda un atteggiamento corrivo con la ‘logica’ dell’anti-politica e in ultima istanza dell’anti-democrazia. Dietro cioè l’approccio a tutta prima scientifico, finisce con il filtrare una malcelata soddisfazione per le difficoltà di un sistema di relazioni politiche che non si è mai riusciti davvero ad accettare.
Ma l’anti-politica non si contrasta con l’anti-politica. Discorso che del resto vale anche per la ricerca scientifica. Non basta l’analisi, occorre anche la critica. A Bauman ad esempio si potrebbe obiettare che non è che c’è la crisi della politica perché c’è la “società liquida”, semmai è perché c’è la crisi della politica (perché è finito il comunismo, perché l’Occidente non ha più bisogno di quella democrazia vera, efficiente, che era necessaria dovendo contrastare il nemico globale, ecc.) che la società si è resa “liquida”, meno strutturata, con meno partecipazione e organizzazione, alla fine meno democratica.
E invece l’impressione è che Revelli, facendosi forte di analisi quali quelle ora accennate, rimanga fermo alla ‘fotografia’ della crisi e quindi alla rigida contrapposizione di partiti e società, spontaneità e organizzazione, partecipazione e costituzione. Un atteggiamento che è un topos dell’anti-politica di sinistra e che ha importanti precedenti nel ’900 (da Sorel al partito-movimento di anni più recenti) ma con un abbrivio che arriva, a guardar bene, a Grillo.
Non a caso Revelli contrappone i referendum (maxime i recenti sull’acqua pubblica e contro il nucleare) alla democrazia rappresentativa, la “sfera pubblica” alla “sfera politica” (cfr. p. 20), insistendo con una connotazione extra-politica della “sfera pubblica” tralatizia quanto pericolosa. E invece è facile obiettare che il referendum, istituto di democrazia diretta, è presente in Costituzione, dunque è costituzionalizzato, pacificamente convivente con gli altri istituti che, tutti insieme, fanno la democrazia italiana.
Tanto più poi che a scendere sul terreno di una acritica esaltazione degli strumenti di democrazia diretta, si rischia di incorrere nell’obiezione (ovvia) che i referendum non sempre sono stati vinti, che il popolo sovrano ha spesso frustrato le aspettative dei promotori meglio intenzionati, ecc. I clamorosi tonfi, in fatto di partecipazione-validazione popolare, dei referendum sull’art. 18 del 2003 o contro la legge elettorale nazionale (del 2009), ma si potrebbero fare molti altri esempi (la gente non votò addirittura per il referendum contro i pesticidi), autorizzano forse a concludere che l’art. 18 va abolito? Aveva ragione la Fornero? Il “Porcellum” va bene così? Bisogna stare sempre attenti con la retorica della società civile. Una lezione che certa sinistra non impara mai.
Tornando allo specifico della crisi dei partiti, Revelli sembra per altro spiegarla secondo i canoni di un determinismo alquanto vetero. Sostiene infatti che essa dipende dal superamento del «modello organizzativo ‘fordista’», con le sue istituzioni politiche stabili e coese, sostituito da un sistema produttivo «leggero, aperto, diffuso, policentrico ecc.» (p. 32). E anche questa, come quella della “società fluida”, l’abbiamo già sentita.
Le due cose per altro vengono regolarmente connesse: nell’epoca della globalizzazione la società si libera dai vecchi vincoli, diviene mero flusso; “an other country” rispetto alla politica.
Anche le molte pagine che Revelli dedica a Robert Michels appaiono poco critiche (se non proprio simpatetiche). Nel senso che il teorico della “legge ferrea della oligarchia”, quella secondo la quale i partiti (e ogni forma di organizzazione umana) sono destinati a ridursi appunto all’“oligarchia”, al prepotere di una minoranza, viene apprezzato in chiave anti-partitica, senza considerare adeguatamente i rischi di questo modo di ragionare. Revelli sa che Michels dal giovanile socialismo passò al fascismo, ma cerca di tranquillizzarci dicendo che il suo non era proprio fascismo, bensì “mussolinismo”….
Il pregiudizio anti-partito porta a questi equivoci, ad accreditare la lezione di un pensatore fascista come Michels. Che insieme a tutti gli altri teorici della “dottrina delle élites”, da Mosca a Pareto, passando per lo stesso Croce della dottrina del “meta-partito”, fu parte attiva a quella crisi intellettuale e morale che fu causa determinante ed esaustiva dell’avvento del fascismo.
Dopo di che, se è giusto lamentare la crescente distanza fra istituzioni e cittadini, il problema si risolve cercando di riformulare il rapporto, trovando nuove forme di partecipazione e decisione, non semplicemente abolendo uno dei termini del rapporto. E invece Revelli a questo approda, quando conclude che il nesso fra democrazia e partiti non è affatto «indissolubile» e definisce “improbabile la prospettiva di un qualche recupero dei partiti politici al loro compito storico e alla loro natura originaria di gestori della partecipazione» (p. 103).
Revelli chiama anzi «retorica della ‘fine della democrazia’» la preoccupazione di quanti temono una democrazia senza partiti. Non realizzando che costoro temono in verità proprio quella che abbiamo chiamato retorica della società civile, che è la cifra dell’anti-politica e dell’anti-democrazia di tutti i tempi.
Né sorprende poi che un tale campione della sinistra estremista alla fine si ritrovi dalle parti di Grillo perché, se pure diffida della «viralità della Rete», la ritiene comunque l’unica possibilità di vincere la «dura resistenza dell’Organizzazione», che con la sua viscosità resiste «a lasciarsi soppiantare dalla libera e piena partecipazione» (p. 119).
Un vero compendio, questo libro, dell’anti-politica e dell’anti-democrazia, ma al tempo stesso testimonianza della profondità della crisi “intellettuale e morale”, è il caso di dire, della sinistra italiana.

Gramsci e il quaderno “fantasma”

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Recensione di Guido Liguori al libro di Franco Lo Piparo. L’enigma del quaderno. La caccia ai manoscritti dopo la morte di Gramsci, pubblicato di recente dall’editore Donzelli.

Da qualche tempo ha corso negli studi gramsciani quella che potremmo definire una «storia congetturale»: una ricostruzione dei fatti basata su deduzioni non verificabili. A ciò si è accompagnata e sovrapposta una lettura dei testi fondata sulla convinzione che in essi non si dica ciò che letteralmente si legge, ma vi siano messaggi nascosti. Il che a volte è vero: si tratta però di vedere quanto esteso possa essere il ricorso a questo tipo di lettura «esopica», come si dice ripetendo una espressione della cognata di Gramsci, Tania. Si tratta di due metodologie – storia congetturale e lettura esopica – che hanno prodotto anche esiti interessanti, ma a cui bisogna sempre accostarsi con cautela, proprio perché i loro risultati non poggiano su basi certe.
Alla ricerca di un «Gramsci sconosciuto» è tra gli altri Franco Lo Piparo, che torna in libreria con un lavoro di taglio investigativo: L’enigma del quaderno. La caccia ai manoscritti dopo la morte di Gramsci (Donzelli, pp. 161, euro 18). Se si parla di taglio investigativo non è per sminuire il libro, ma perché fin dal titolo è l’opera stessa che si propone come un «giallo» (viene anche citato E. A. Poe) ed è l’autore a creare un’atmosfera da «spy story», dipingendo alcuni dei «personaggi» (così li definisce, come in una fiction) della vicenda gramsciana come protagonisti di un romanzo di Le Carré.

Un problema di etichetta
Il caso più eclatante è quello di Sraffa, ritratto da Lo Piparo come «agente segreto, di alto rango, del Comintern». È una affermazione impegnativa. Essa viene forse fatta perché negli Archivi di Mosca è stato trovato un documento che rende palese questo lato nascosto del grande economista? Niente di tutto ciò. È solo una «congettura», che scaturisce soprattutto dal fatto che essa bene si colloca nel mosaico interpretativo di Lo Piparo. È a mio avviso possibile, e forse probabile, che Sraffa fosse un «militante coperto» del Pcd’I, già incaricato di gestire i finanziamenti provenienti da Mosca. Ed erano tempi, indubbiamente, in cui un comunista di qualsiasi nazionalità si sentiva anche un militante del Comintern, di quel partito comunista mondiale non ancora del tutto russocentrico. Ma da qui a farne una «agente segreto» ce ne corre. Può anche essere, ma ci vogliono i documenti per affermarlo.
La tesi del libro è la seguente: oltre ai trentatré quaderni noti ve ne sarebbe stato un altro fatto sparire per il suo contenuto imbarazzante. Sarebbe stato scritto nella clinica Quisisana di Roma, dove Gramsci è dal 1935 al 1937, anno della morte. Da dove nasce questa tesi? In primo luogo dal fatto che sui quaderni le etichette poste da Tania per numerarli mostrano delle incongruenze e in qualche caso sono coperte da altre etichette con diversa numerazione. In secondo luogo, perché i «personaggi» della vicenda parlano o scrivono a volte di trenta, a volte di trentadue, a volte di trentaquattro quaderni. Lo Piparo respinge le ipotesi che Tania abbia pasticciato nel numerare i manoscritti e che i protagonisti della vicenda fossero stati approssimativi nell’indicare il numero dei quaderni perché in molte altre e più importanti faccende affaccendati, oltre che per il fatto che i quaderni sono a numerazione variabile, a seconda che si sommino in tutto o in parte i ventinove teorici, i quattro di sole traduzioni, i due bianchi e quello usato da Tania per un indice provvisorio. Lo Piparo cerca di seguire la storia dei manoscritti dopo la morte di Gramsci, formula molte ipotesi (interessanti) sui loro percorsi e sui loro tempi di arrivo a Mosca, a tutt’oggi non chiari. Egli ritiene che Sraffa, sapendo che un quaderno in particolare aveva contenuti pericolosi (accuse a Togliatti? critiche allo stalinismo? una riabilitazione del fascismo?), lo avrebbero fatto sparire. Non essendo in grado di portare prove, l’autore ripete più volte frasi del tipo «è poco verosimile», «non dovrebbe essere troppo azzardato congetturare», «le cose potrebbero essere andate in questo modo». È tutto un castello di congetture, dunque.
Molti sono gli episodi che Lo Piparo interpreta in un modo forzato perché convalidino la sua tesi. Un esempio: se il 7 luglio 1937 Tania scrive a Sraffa di aver «consegnato i quaderni (tutti quanti): ed anche il catalogo che avevo iniziato», il nostro autore legge la frase così: «Significa: ho eseguito l’ordine, non ho trattenuto nessun quaderno e, naturalmente, non ho potuto consegnare quelli che avete portato con voi». È una interpretazione molto esopica, troppo esopica, a mio avviso: un puro volo di fantasia. Giudichi il lettore se vi è qualche nesso tra la frase scritta da Tania e la lettura che ne dà Lo Piparo. A me sembra solo che Tania, dopo una discussione su quanti quaderni consegnare «ai compagni», tranquillizzi Sraffa di aver seguito le sue indicazioni e di non averne trattenuto alcuno.
Nell’impossibilità di accennare a tutti i passi di questo tipo, di cui il libro è pieno, dirò i motivi principali per cui l’ipotesi di Lo Piparo mi sembra da respingere.
Primo, in tutta la sua prigionia Gramsci si è dimostrato attentissimo a non scrivere niente che potesse divenire un’arma nelle mani del fascismo – è qui l’origine di alcune «scritture esopiche». Perché nella Quisisana sarebbe venuto meno a questa norma, scrivendo un quaderno «esplosivo»? La polizia poteva in ogni momento confiscare i suoi appunti. Il «linguaggio esopico» su cui insiste Lo Piparo serve soprattutto a Gramsci per non farsi portar via i quaderni, come esplicitamente Tania scrive alla sorella Giulia, il 5 maggio 1937: «è riuscito a tenerli con sé (I QUADERNI) scrivendo in linguaggio esopico». Tania si riferisce al pericolo derivante da un sequestro della polizia fascista. Dilatare il senso dell’«esopico» e affermare che tutti i quaderni sono una scrittura esoterica a me sembra fuorviante. Secondo, perché, nella sua opera di continua e faticosa riscrittura, Gramsci non avrebbe lasciato altri segnali di una svolta politica tanto clamorosa? Il quaderno scomparso sarebbe un corpo estraneo nel contesto delle duemila pagine (a stampa) degli appunti carcerari.

Una cautela postuma
Terzo, il quaderno mancante potrebbe accusare Togliatti. Si dimentica che era Gramsci a essere sospettato di trockijsmo, era stata la sua memoria a dover essere protetta e «salvata» dalla scomunica postuma. La lettera a Dimitrov che Togliatti scrive il 31 aprile 1941, affermando che i quaderni andavano curati per non essere usati contro i comunisti, indica la coscienza del fatto che il marxismo di Gramsci era molto diverso dallo stalinismo e che quindi la loro pubblicazione era un problema. Che sarà risolto con l’edizione tematica, che cercava di rendere meno dirompente la incompatibilità tra filosofia della praxis e Diamat. Eppure Togliatti avrebbe potuto rinunciare a pubblicare del tutto Gramsci, e far sparire non solo il presunto trentaquattresimo quaderno, ma anche «gli altri» trentatré. Semplicemente seppellendoli negli archivi del Comintern.
Quarto, se Togliatti sa già dal luglio 1937 che deve far sparire un quaderno, perché non lo distrugge a Parigi (dove, secondo Lo Piparo, Sraffa glielo porta dopo averlo sottratto a Tania)? Perché, tornata in Urss, Tania – che scrive anche direttamente a Stalin sulla gestione dei quaderni – non denuncia la scomparsa del quaderno scomodo? Perché Togliatti non distrugge il quaderno pericoloso almeno nel 1941, dopo la morte di Tania, quando legge e rilegge i manoscritti di Gramsci? Perché lo riporta in Italia (è l’ipotesi di Lo Piparo), decide di farlo sparire o lo fa sparire, ma continua a parlare pubblicamente di trentaquattro quaderni? La spiegazione di Lo Piparo per cui ancora nel 1948 Togliatti e Platone sbagliano il numero dei quaderni indicandone trentadue nella introduzione al primo volume dell’edizione tematica presso Einaudi («si preferisce puntare sulla disattenzione dei lettori e degli studiosi e continuare a usare il numero canonico trentadue») è francamente incredibile. Non è più ovvio pensare che sia stato un errore causato dalla ripresa letterale della relazione fatta da Platone nel ’46 per Rinascita?
Senza nuovi ritrovamenti le congetture di Lo Piparo non paiono sufficienti a ipotizzare un quaderno che non abbiamo e la spinta a «immaginarlo» sembra motivata soprattutto dal rinnovato tentativo di dimostrare che Gramsci era (diventato) liberale. Ma l’autore sardo è tanto grande da trascendere la sua stessa parte politica e nutrire anche culture diverse: lo ha scritto Togliatti già nel 1964, non vi è bisogno di inventarsi un Gramsci che non esiste per sentirsene almeno in parte eredi.

(Recensione pubblicata su il manifesto del 16 febbraio 2013).