Partito nuovo e blocco storico | Piero di Siena

(dalla Introduzione del volume Nel Pci del Mezzogiorno, Frammenti di storia sul filo della memoria, di Piero di Siena, Calice editore, presentato con successo a Roma venerdì 19 giugno presso l’Archivio audiovisivo del Movimento operaio e democratico da Piero Bevilacqua, Paolo Ciofi, Cecilia d’Elia, Aldo Tortorella)

Le testimonianze su protagonisti e su particolari passaggi della storia del Pci nel Mezzogiorno che ho raccolto in questo volume possono anche contribuire alla ricostruzione di quello che è stato nelle pieghe della vita del Paese il “partito nuovo” voluto da Togliatti all’indomani della caduta del fascismo. Si tratta cioè di indagare su come esso si sia concretamente sviluppato a contatto con i caratteri ineguali che andavano assumendo le trasformazioni che hanno investito l’Italia dal secondo dopoguerra sino alle soglie degli anni Ottanta. Una “giraffa” l’aveva definito Togliatti, con lo sguardo collocato in alto e quindi capace di vedere lontano e un corpo pesante e con piedi ben piantati nella realtà in cui operava.
Nella ricostruzione che ne hanno fatto anche alcuni dei suoi protagonisti si tende a sottolineare il carattere popolare e nazionale che quella inedita formazione politica, senza egualiLa presidenza nell’esperienza storica del comunismo europeo e mondiale del Novecento, ha via via assunto nel corso del suo sviluppo, quasi una forza interclassista, un fenomeno speculare – identico sebbene rovesciato – al coevo sviluppo di un partito come la Democrazia cristiana.
E’ mia opinione invece – e le esperienze di cui dò conto lo confermano – che il partito nuovo nello sviluppo dei suoi caratteri di massa costituisce un’originale evoluzione del partito di classe, nel senso che esso si costituisce entro un esplicito rapporto tra classi sociali diverse attraverso l’esercizio di una funzione egemonica di una classe sulle altre. E’ insomma la forma politica organizzata attraverso cui si realizza la costituzione di quel “blocco storico” di cui parlava Gramsci. E ciò avviene non nel quadro di un’astratta gerarchia determinata dall’ideologia del primato del proletariato industriale ma nel vivo dell’assetto concreto assunto dalla società e della sua composizione demografica che cambia da parte a parte del Paese. Se non c’è dubbio che la classe operaia costituisce la forza egemonica intorno a cui un blocco sociale alternativo si fa partito nei grandi centri urbani del triangolo industriale, la partita per il Pci da questo punto di vista appare subito sostanzialmente persa nella provincia lombarda o nel Veneto dove la rete capillare della presenza cattolica diventa il punto di riferimento dei contadini e in molti casi della maggioranza della stessa classe operaia. Mentre in forma del tutto originale diventa blocco maggioritario nelle regioni dell’Italia centrale.
Nel Mezzogiorno, com’è noto, la formazione del partito nuovo è segnata dal processo attraverso cui avviene il riscatto di immense masse contadine. Ma anche qui, come testimonia l’eccezionale esperienza di costruttore politico svolta da Michele Mancino, ciò avviene a macchia di leopardo e più in relazione al successo più o meno ampio dell’applicazione dei decreti Gullo di riforma dei patti agrari che per effetto della lotta contro il latifondo che ebbe nella società del tempo sicuramente una più vasta eco politica. E vi sono anche realtà dove (come mi è capitato di scrivere per Avigliano ricostruendo la genealogia della cultura politica di Laguardia, primo lavoratore licenziato dalla Fiat di Melfi) il Pci risulta essere più l’erede della tradizione giacobina dei ceti medi che espressione delle masse popolari.
La costruzione del partito nuovo, vista in questa luce, segue quindi l’andamento ineguale che caratterizza lo sviluppo della società italiana, in tutta la sua storia e in particolare nel secondo dopoguerra. Le concrete relazioni sociali che si costituiscono attorno alla formazione del Pci come partito di massa sono spesso anche lo specchio della realtà locale in cui questo processo si realizza, oltre che frutto della sua funzione nazionale. In qualche caso le condizioni locali costituiscono il contesto per il quale il progetto stesso del partito nuovo non decolla, nel senso che vi sono, ad esempio, realtà del Mezzogiorno interno, oppure alcune città medie meridionali, nelle quali il Pci partito di massa non lo diventa mai, sino alla sua fine. Questo vuol dire che nel ricostruire l’esperienza storica del Pci e il complesso nesso nazionale/internazionale che segna l’intera parabola della sua esistenza, non possiamo prescindere dal rapporto tra le classi che in esso si realizza, spesso diverso da luogo a luogo, e che la sua crisi è certo esaurimento di una funzione nazionale ma avviene anche in ragione della dissoluzione del blocco storico realizzatosi al suo interno e attorno ad esso. E’ evidente, quindi, che tra i due livelli (funzione nazionale e radicamento popolare) vi è una correlazione biunivoca che non dovrebbe, sul piano della ricostruzione storica, mai essere smarrita.
Tali valutazioni ci portano inoltre, su un altro versante, a prendere in considerazione esplicitamente – almeno a partire dalla seconda metà degli anni Settanta e dal fallimento della strategia del compromesso storico – di ricostruire la storia dal Pci alla luce delle ragioni che hanno in modo differenziato concorso prima alla sua crisi e poi alla sua fine. E’ un mutamento di prospettiva in quel rapporto tra passato e presente su cui si fonda in generale la ricerca storica (ciò che ne fa ineluttabilmente una disciplina “militante”) ormai maturo e ricco di potenziali sviluppi per cominciare a capire il senso del percorso imboccato dal Paese nell’ultimo ventennio e la sua crisi.