Convegno “Il 1956, il Pci e il progetto di una nuova società. La via italiana al socialismo”

Si è svolto con successo, testimoniato dalla numerosa partecipazione e dalla qualità del dibattito, il convegno su “Il 1956, il Pci e il progetto di una nuova società. La via italiana al socialismo”, di cui pubblichiamo la videoregistrazione. All’intensa giornata di approfondimento e di discussione, aperta dalla relazione di Aldo Tortorella e conclusa con l’intevento di Paolo Ciofi, hanno recato il loro contributo Raffaele D’Agata, Piero Di Siena, Alexander Hobel, Gennaro Lopez, Dino Greco, Michele Prospero, Gianni Ferrara, Guido Liguori, Maria Luisa Boccia, Alfonso Gianni, Vincenzo Vita.

LOCANDINA-1956-CORRETTA-DEFINTIVA-1

La lotta di liberazione e la costruzione della democrazia. Centralità dei partiti e ruolo del PCI

In occasione del 70° anniversario della Liberazione, l’associazione Futura Umanità, in collaborazione con l’Aamod e col Museo storico della Liberazione, ha promosso un convegno nazionale, che si terrà a Roma, nella sala della Protomoteca in Campidoglio, il prossimo 23 ottobre dalle 9,30 alle 18, col patrocinio di Roma Capitale.

Il convegno, intitolato “La lotta di Liberazione e la costruzione della democrazia. Centralità dei partiti e ruolo del Pci”, intende approfondire temi che, tralasciando impostazioni di tipo celebrativo e ricostruzioni prettamente militari della Resistenza, gettano luce sui fondamenti dell’Italia democratica e repubblicana, rintracciabili nelle vicende del biennio 1943-’45. In particolare, si analizzerà il modo in cui un partito come il Pci seppe gestire i diversi aspetti – politici, sociali e militari – della Lotta di Liberazione, dando vita a elaborazioni come quella della “democrazia progressiva” e partecipando attivamente a concrete sperimentazioni sul campo, come le “repubbliche partigiane” o i “consigli di gestione” nei luoghi di lavoro.

I lavori, che vedranno la partecipazione di numerosi e qualificati studiosi, saranno aperti da una relazione dello storico Aldo Agosti (La Resistenza italiana e il Pci nel contesto internazionale) e conclusi da un intervento di Paolo Ciofi, presidente dell’associazione Futura Umanità. L’Aamod curerà la proiezione del film documentario Io mi ricordo quel giorno di aprile di Tiziana Vasta (di particolare interesse per le testimonianze di protagonisti della Resistenza in esso contenute e per l’efficace articolazione tematica dei materiali visivi). Interverranno tra gli altri, Vincenzo Vita, e Carlo Felice Casula con una comunicazione su  I rapporti politici tra le forze antifasciste.

La Resistenza italiana e il Pci nel contesto internazionale – Introduzione di Aldo Agosti

Presenza e ruolo del Pci nella lotta di Liberazione – Andrea Sonaglioni

La lotta di Liberazione e la costruzione della democrazia – Vincenzo Vita

I rapporti politici tra le forze antifasciste – Carlo Felice Casula

Il Pci tra grande alleanza anti-hitleriana e Resistenza italiana – Raffaele D’Agata

La lotta di Liberazione e la costruzione della democrazia – Ernesto Nassi

La lotta di Liberazione e la costruzione della Democrazia – Tina Costa

Il rapporto tra Pci e intellettuali nella Resistenza – Gennaro Lopez

I Gap a Roma: mistificazioni, accuse, revisionismi – Michela Ponzani

Pci, classe operaia e forze sociali nella Resistenza – Alexander Hobel

La lotta di Liberazione e la costruzione della democrazia – Antonio Pizzinato

Conclusioni di Paolo Ciofi

 

Locandina-Convegno

Il Parlamento specchio del Paese

Palmiro Togliattidal discorso pronunciato alla Camera l’8 12 1952 contro la legge elettorale presentata dal ministro degli Interni Mario Scelba

Svolgendo la sua pregiudiziale di incostituzionalità, Togliatti con questo discorso traccia le coordinate storico-giuridiche nelle quali si inserisce l’intransigente, dura battaglia dell’opposizione contro quella che, proprio a partire da questo discorso, sarà definita «legge truffa».

1961togliattiXXIIcongressopcus_jpg[1]

(…) La Costituzione sancisce che l’Italia è una Repubblica democratica, e dal concetto che fa risiedere nel popolo la sovranità deriva il carattere rappresentativo di tutto il nostro ordinamento, al centro del quale stanno le grandi Assemblee legislative, la Camera e il Senato della Repubblica, a cui tutti i poteri sono coordinati e da cui tutti i poteri derivano.

Ma vi è di più. Questo ordinamento costituzionale democratico e rappresentativo ha una natura particolare, che nessuno può negare, perché la Costituzione non soltanto dice che l’Italia è una Repubblica democratica ma che essa è una Repubblica fondata sul lavoro. E di qui derivano molte cose. Di qui derivano tutti i diritti economici e sociali, deriva la previsione di quelle riforme delle strutture economiche, che volemmo fosse nella Costituzione come indicazione di una strada per l’avvenire (…).

Da questa definizione particolare del nostro ordinamento democratico non possono non derivare, però, particolari conseguenze per quanto si riferisce al diritto politico e ai rapporti fra lo Stato e i cittadini.

Quando si asserisce che la Repubblica è fondata sul lavoro, quando si dice che i cittadini hanno eguaglianza di diritti, pari dignità sociale, e quando si aggiunge che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica dello Stato, non si può non riconoscere che il fatto che noi abbiamo definito la Repubblica italiana come Repubblica fondata sul lavoro ha particolari conseguenze per il diritto politico, per la definizione esatta, cioè, dell’ordinamento costituzionale dello Stato.

Infine, vi è una organizzazione storicamente determinata, quella dei partiti politici, che la Costituzione stessa richiama in quel suo articolo 49 dove dice che i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico (cioè in eguaglianza) a determinare la politica nazionale.

Questo è il nostro ordinamento costituzionale, questo e non altro. È evidente che in siffatto ordinamento l’elemento che si può considerare prevalente e che certamente è essenziale è la rappresentatività. È un elemento essenziale per ciò che si riferisce ai rapporti tra i cittadini e le assemblee supreme dello Stato. Ma che vuol dire che un ordinamento costituzionale sia rappresentativo? (…).

Se guardiamo (…) alla storia, incontriamo all’inizio e partiamo da una visione della rappresentanza come istituto di diritto privato, nel senso che essa riguarda la tutela, attraverso un delegato o mandatario, di determinati interessi di gruppi precostituiti. (…) Alludo alle assemblee rappresentative elette secondo il principio della curia, applicando i quale si ha in partenza una schiacciante maggioranza di “deputati” delle classi possidenti e una minima rappresentanza di operai, di contadini, di lavoratori. Ho voluto ricordare questa bizzarra forma di degenerazione di una istituzione che dovrebbe essere rappresentativa, perché è quella che maggiormente rassomiglia al sistema che viene proposto qui dall’onorevole Scelba. Non vi è dubbio, infatti, che la camera-deputativisione che traspare dalla legge in discussione ci prospetta un Parlamento diviso in curie, non più secondo un criterio economico o sociale, ma secondo un criterio politico. Precede alla elezione del Parlamento un’azione del governo per riuscire, partendo dai dati delle precedenti consultazioni, a raccoglier determinate forze politiche a proprio appoggio. A questo gruppo è quindi già assegnato, prima che si sia proceduto alle elezioni, un numero fisso di mandati, e un numero fisso e ridotto di mandati è assegnato, in modo precostituito, agli oppositori del governo. A questo ci vorrebbe riportare l’onorevole Scelba: al Parlamento eletto per curie. Ed è peggio, direi, il Parlamento per curie ordinate secondo un criterio politico che non secondo un criterio economico, perché scompare qualsiasi base oggettiva della differenziazione. Unica base rimane la volontà sovrana del potere esecutivo.(…).

Ed ecco subito un altro concetto non facile a districare, quello che definisce la natura nostra, di deputati in quanto rappresentanti. Noi siamo, si, rappresentanti dei nostri elettori. Nessuno lo può negare: essi si rivolgono a noi, ci inviano lettere, ci sottopongono quesiti; ad essi parliamo, con essi esiste un legame particolare. Ciascuno di noi però – e la Costituzione lo afferma – rappresenta tutto il paese. Nel dibattito intorno a questo concetto, l’estensore della relazione a questo disegno di legge fa naufragio. Mi rincresce doverglielo dire e sottolineare: fa naufragio.

La realtà è che nello sviluppo della scienza del diritto pubblico il fascismo ci ha spinti molto all’indietro. Quando noi oggi andiamo a rivedere i testi e i trattati di diritto costituzionale che andarono per la maggiore durante il fascismo, siamo costretti a inorridire. Ci troviamo di fronte a tale mostruosa contorsione di concetti, a tali bizzarri travestimenti di idee un tempo chiare, per cui comprendiamo come oggi chi allora appartenne a quella schiera non possa comprendere nulla. (…)

Lei ha peccato contro lo spirito, onorevole Tesauro, e questo peccato non è remissibile. Lei lo sa!

La difficoltà da cui Ella non è riuscito a districarsi è di comprendere come mai il deputato, eletto da un gruppo di cittadini, sia rappresentante di tutto il paese. Sono nato a Genova, mi hanno eletto a Roma, rappresento tutta l’Italia. Come mai? Perché? Questo non si comprende, se non si guarda a tutto lo sviluppo del sistema. La cosa – dice (…) Vittorio Emanuele Orlando -, cioè la rappresentanza come tale, è una nozione che non presenta difficoltà se si riconduce a un «fatto esterno e visivo». Qui affiora, attraverso questa ardita semplificazione, il concetto giusto, che è in pari tempo, vedremo subito, il concetto nuovo della rappresentanza politica e, quindi, dell’ordinamento costituzionale rappresentativo.1953pcileggetruffa_jpg[1]

Curioso! Questo concetto nuovo venne formulato la prima volta più di 150 anni fa, nell’Assemblea nazionale francese, nel 1789, dal conte di Mirabeau. «Le assemblee rappresentative – diceva – possono essere paragonate a carte geografiche, che debbono riprodurre tutti gli ambienti del paese con le loro proporzioni, senza che gli elementi più considerevoli facciano scomparire i minori». Ecco il concetto nuovo, per cui la rappresentanza viene ridotta quasi a un elemento visivo, e quindi immediatamente compresa nel suo valore sostanziale (…).

II 1848 è l’anno in cui appare sulla scena per la prima volta in modo autonomo una nuova classe, la classe operaia, che rivendica non soltanto una rappresentanza e quindi una parte del potere, ma collega questa rivendicazione al proprio programma di trasformazione sociale. Nel 1871 la classe operaia va assai più in là della rivendicazione di una parte del potere per se stessa. Essa afferma la propria capacità di costruire un nuovo Stato.

Questi grandi fatti storici si impongono all’attenzione di tutti. Agli uomini politici di più chiaro spirito liberale e democratico essi indicano la necessità di fare quel passo che separa i parlamenti liberali dai parlamenti democratici rappresentativi. Di non accontentarsi cioè di dire che la maggioranza rappresenta l’opinione generale, anche quella della minoranza, ma di costruire un organismo nel quale si rispecchi la nazione, sperando e augurando che questo consenta uno sviluppo progressivo senza scosse rivoluzionarie. La rivoluzione operaia del giugno 1848 è soffocata nel sangue. Sull’atto di nascita del regime borghese, istallatosi in Francia dopo il secondo crollo napoleonico, sta la macchia di sangue delle fucilate con le quali venne fatta strage degli eroici combattenti della Comune. È una macchia indelebile. Si spegne l’eco delle fucilate, ma resta odor di polvere nell’aria! Il movimento operaio si afferma, va avanti. Il problema è posto, bisogna progredire, bisogna tener conto delle forze nuove che si affermano. Per questo vi è chi comprende che ormai è necessario forgiare l’ordinamento dello Stato in modo che consenta questo progresso e lasci che queste forze, nello Stato stesso, si possano affermare. Per questo il sistema di rappresentanza proporzionale delle minoranze nel Parlamento, che è l’approdo tecnico del movimento, può veramente essere definito il punto più alto che sino ad ora è stato toccato dalla evoluzione dell’ordinamento rappresentativo di una società divisa in classi. Così lo hanno sentito tutti i nostri politici, e non solo quelli che ho già citato. Filippo Turati, quando propose, nel 1919, di passare alla rappresentanza proporzionale, asseriva per questo che la sua proposta aveva un valore storico. Sidney Sonnino si richiamava apertamente, nel proporre e difendere la proporzionale, al fatto storico della Comune. Si trattava di dare una impronta definitiva di democraticità, di rappresentatività e di giustizia all’ordinamento costituzionale dello Stato, nel momento in cui il movimento sociale non può più essere soppresso con la forza.

Naturalmente, il modo in cui si realizza il principio non è uniforme […]. Lo so. Non è stato trovato ancora un modo di avere la perfetta proporzionalità della rappresentanza. Rimane sempre un certo scarto tra la realtà del paese e la rappresentanza nella Camera, a seconda che si adotti un determinato sistema di conteggio dei voti e dei rappresentanti in rapporto ai voti, oppure un altro sistema. Ma questo non ha niente a che fare con l’abbandono del principio. Quello che interessa è il principio. Il principio per cui noi siamo rappresentanti di tutto il paese nella misura in cui la Camera è specchio della nazione. Dello specchio, veramente, si può dire che ogni parte, anche piccolissima, di esso, è eguale al tutto, perché egualmente rispecchia il tutto che gli sta di fronte. Qualora il principio venga abbandonato, è distrutta la base dell’ordinamento dello Stato che la nostra Costituzione afferma e sancisce.

Giù le mani da Berlinguer

                                    Enrico_berlinguer_imm1                             

Articolo postumo pubblicato da Rinascita il 16 giugno 1984  Enrico Berlinguer scriveva:

    Ormai tutti vedono che le coalizioni che prendono vita alle spalle del Parlamento, che i governi che non vogliono e non sanno governare con e attraverso il Parlamento, che sono il prodotto di questi meccanismi e di questi metodi consun­ti, e divenuti anche pericolosi, non sono coalizioni realmen­te solidali ed efficienti. I partiti delle maggioranze delimita­te che compongono quelle coalizioni stanno insieme al go­verno spalleggiandosi per poter conservare il loro potere sul­le istituzioni e sulla società, ma ciascuno è dominato dalla paura che un altro lo scavalchi.

    E allora si va alle ben note «verifiche», dopo le quali, tuttavia, quelle coalizioni restano egualmente divise, continuano a covare contrasti, dai quali possono venire o oscillazioni, incertezze e paralisi dei gover­ni, ovvero polemiche e lacerazioni: queste ultime, però, esplodono per lo più fuori del Parlamento (negli organi di partito, nei convegni, sulla stampa).

    Nel Parlamento esse o vengono artatamente coperte e dissimulate o si manifestano nella forma patologica dei «franchi tiratori». Si corre, allo­ra, ai ripari; ma, ancora una volta, i rimedi a cui si pensa vanno prevalentemente in direzione di un indebolimento dei poteri del Parlamento.

    Sicché la profonda esigenza di restituire alle istituzioni la funzionalità e il ruolo che spetta loro in una Repubblica democratica a base parlamentare viene distorta e tradita. Attraverso alcune delle «riforme» di cui si sente oggi parlare si punta a piegare le istituzioni, e perciò anche il Parlamen­to, al calcolo di assicurare una stabilità e una durata a gover­ni che non riescono a garantirsele per capacità e forza politi­ca propria.

    Ecco la sostanza e la rilevanza politica e istituzionale della «questione morale» che noi comunisti abbiamo posto con tanta decisione.

    Anche la irrisolta questione morale ha dato luogo non solo a quella che, con un eufemismo non privo di ipocrisia, viene chiamata la Costituzione materiale, cioè quel complesso di usi e di abusi che contraddicono la Costituzione scritta, ma ha aperto anche la strada al formarsi e al dilagare di poteri occulti eversivi (la mafia, la camorra, la P2) che hanno inquinato e condizionano tuttora i poteri costituiti e legitti­mi fino a minare concretamente l’esistenza stessa della no­stra Repubblica.

    Di fronte a questo stato di cose, di fronte a tali e tanti guasti che hanno una precisa radice politica, non si può pensare di conferire nuovo prestigio, efficienza e pienezza de­mocratica alle istituzioni con l’introduzione di congegni e di meccanismi tecnici di dubbia democraticità o con accorgi­menti che romperebbero anche formalmente l’equilibrio, la distinzione e l’autonomia (voluti e garantiti dalla Costituzione) tra Legislativo, Esecutivo e Giudiziario, e accentuerebbero il prepotere dei partiti sulle istituzioni.

    Riforme delle istituzioni volte a ridare efficienza e snellezza al loro funzionamento sono certo necessarie. Ma esse a poco servirebbero se i partiti rimangono quello che sono oggi, se seguitano ad agire e a comportarsi come agiscono e si comportano oggi, se non si risanano, se non si rigenerano, riacquistando l’autenticità e la pienezza della loro autonoma funzione verso la società e verso le istituzioni.

Luigi Longo e il Pci nella Resistenza: un ruolo di avanguardia effettivo e concreto. Di Alexander Höbel

spagna-400x258
Foto di gruppo per i garibaldini italiani volontari in Spagna. Tra loro comandanti militari e commissari politici. I due al centro sono (a sinistra con il giaccone bianco) Luigi Longo “Gallo”, poi comandante partigiano in Italia e segretario del Pci, e il dirigente comunista Ilio Barontini.

È facile prevedere che, nel 70° anniversario della Liberazione, non molti sottolineeranno il ruolo dei comunisti e ricorderanno il contributo di una personalità come Luigi Longo, che pure ebbe una funzione determinante nella Resistenza italiana. In quei 20 mesi di lotta, infatti, Longo si trovò contemporaneamente al vertice della Direzione Nord del Pci, delle Brigate Garibaldi – in questi due ruoli affiancato da Pietro Secchia – e del Corpo volontari della libertà, accanto a Ferruccio Parri e al generale Cadorna; una posizione strategica, che facilitò l’interscambio continuo che vi fu fra queste tre realtà: il Partito, le Brigate partigiane che esso promuoveva concependole aperte anche a non comunisti, e il Cvl – e il suo Comando generale – come organismo unitario di coordinamento della lotta partigiana. A Longo peraltro si deve quello che può essere considerato il “documento fondativo” della Resistenza italiana, quel Promemoria sulla necessità urgente di organizzare la difesa nazionale contro l’occupazione e la minaccia di colpi di mano da parte dei tedeschi che, redatto nella notte del 30 agosto 1943 – prima ancora, quindi, che l’armistizio con gli Alleati fosse concluso, anche se la notizia in tal senso era stata confermata da Giaime Pintor – prevedeva la rottura dell’alleanza con la Germania, l’armistizio, la preparazione della difesa del Paese, la collaborazione a tal fine fra esercito, popolo e Fronte Nazionale, l’“armamento di unità popolari”; e infine la necessità di “liquidare tutte le sopravvivenze fasciste nell’apparato dello Stato”, e di “portare ai posti di maggiore responsabilità uomini di sicura fede democratica”. Il testo, che Amendola definirà “il primo atto compiuto dal PCI per l’inizio della Resistenza”, fu sottoposto agli altri partiti di sinistra del neonato “Fronte nazionale” antifascista, che lo accolgono “nella sostanza”; viene quindi istituita una “giunta militare tripartita”, composta da Longo stesso, dal socialista Sandro Pertini e da Riccardo Bauer per il Partito d’azione[1]. Sono i comunisti dunque a fare i primi passi, ma mirando fin da subito a trascinare all’azione le altre forze: è una prima applicazione pratica di quel ruolo di avanguardia del Partito, che in quegli anni non fu certo una mera formula, ma fu anzi qualcosa di molto concreto. Il 10 settembre 1943, due giorni dopo l’annuncio dell’armistizio, Longo, che è ancora a Roma, dà a Fabrizio Onofri, diretto in Abruzzo, istruzioni per collegare le prime bande che immagina stiano sorgendo e costruire un movimento di guerriglia anti-tedesca. Fin da ora Longo ha in mente un’organizzazione strutturata in “gruppi, distaccamenti, brigate”. Ricorderà poi Secchia: quando Onofri rientrò, “si sentì chiedere da Longo: ‘C’erano poi quelle bande? E ci saranno poi le brigate?’ L’altro lo guardò sbalordito”; ‘ma guarda questo qui: mi ha mandato per prendere collegamenti con delle bande che non sapeva neppure se esistessero!’. La guerra partigiana, insomma, era “fatta di molta concretezza, ma anche di fantasia. Longo fu sempre il primo a dimostrarlo”[2].

Lotta all’attendismo e alla passività, spirito di iniziativa e al tempo stesso costante tensione unitaria furono dunque le caratteristiche fondamentali dell’azione dei comunisti nella Resistenza: essere pronti a fare i primi passi nella lotta, ma sempre con l’obiettivo di trascinare nella lotta le masse e le altre forze politiche. Nello stesso senso andrà l’azione del Pci nei Comitati di liberazione nazionale, che si cercherà di trasformare in organismi rappresentativi di realtà di massa. E per la stessa impostazione il gruppo dirigente del Nord non avrà alcuna difficoltà a seguire la linea unitaria lanciata da Togliatti a Salerno, trovandosi di fatto già a praticarla nel fuoco della lotta partigiana. Nel giugno 1944, scrivendo sulla Nostra lotta, Longo riprende l’“appello per l’insurrezione” lanciato da Ercoli da Roma liberata. Ormai “è questione non più di mesi ma di settimane”; “l’insurrezione […] nasce da un movimento popolare che, in forme necessariamente varie, si sviluppa […] in tutte le regioni” per sfociare “nello sciopero generale insurrezionale”. “Gallo” (pseudonimo e nome di battaglia di Longo) insiste in particolare sulla necessaria “convergenza del movimento partigiano e del movimento di massa”. Quella della lotta armata, argomenta, è ormai una scelta che devono fare i contadini per difendere case e bestiame, gli operai per impedire la distruzione delle fabbriche, i giovani per sfuggire ai bandi. Quanto agli organismi di massa, devono “portare sopra un piano […] insurrezionale la [loro] attività”, in “strettissimo collegamento” coi CLN. Questi ultimi “devono essere il centro direttivo di tutto il movimento” e articolarsi “in Comitati di rione e di fabbrica”. Essi “saranno poi […] gli organi di potere popolare che in nome del Governo democratico dovranno assumere nelle città e regioni liberate la direzione della pubblica amministrazione”[3]. partigiani4

Il Pci intanto ha istituito “triumvirati insurrezionali” in ogni regione dell’Italia occupata e a novembre li riunisce in una conferenza, nella quale Longo tiene il rapporto politico e Secchia quello organizzativo. Per Gallo, l’insurrezione è “un’esigenza assoluta per la salvezza del patrimonio materiale, politico e morale” del Paese; essa peraltro non va ridotta a una mitica “ora x”, ma concepita come un processo da avviare subito, intensificando “la guerriglia di ogni giorno”, quella dei partigiani in montagna e quella di Gap e Sap nelle città, in stretto collegamento con l’iniziativa della classe operaia. “Con l’estensione della guerriglia – dice Longo nel suo rapporto – dobbiamo estendere l’organizzazione militare del territorio”, dividendolo “in zone coi rispettivi comandi militari, per modo che […] tutta l’attività partigiana risulti coordinata in un piano generale”. Come già aveva fatto in Spagna, anche ora Gallo insiste sulla necessità di unificare e centralizzare lo sforzo militare, evitando competizione, rivalità e conflitti tra le diverse formazioni. Il Corpo volontari della libertà – afferma – deve essere veramente unificato non solo nei suoi comandi, ma nelle sue unità […]. Deve essere eliminato ogni spirito di concorrenza fra formazione e formazione partigiana, ogni lavoro di disgregazione […]. Questa unificazione sostanziale […] del movimento partigiano è una necessità non solo per le condizioni attuali della lotta, ma anche per i compiti futuri che si porranno.

partigiani-640Longo dunque insiste sulla impostazione unitaria della lotta, e al tempo stesso sulla sua dimensione popolare e di massa, per cui il movimento partigiano doveva sempre più coordinarsi con l’azione di comitati d’agitazione nelle fabbriche, comitati di villaggio, gruppi di difesa della donna, gruppi giovanili: tutti organismi che andavano affiancati ai CLN locali e che dovevano costituirne il lievito, in vista di quella democrazia popolare e progressiva che i comunisti ponevano come obiettivo della lotta di liberazione e prima tappa di un inedito processo di transizione al socialismo[4].

Pochi giorni dopo la conferenza, il proclama del generale Alexander invita i partigiani a cessare le azioni “su vasta scala” in vista dell’inverno. Il nuovo “capolavoro” di Gallo è allora quello di “interpretare” le direttive alleate, che già stavano provocando disorientamento nelle file partigiane, convincendo in tal senso l’intero Comando generale del CVL, che fa propria la sua lettura : si dovevano interrompere le azioni “su vasta scala”, ma questo non significava mettere la sordina alla lotta ma solo cambiarne le modalità; occorreva anzi una sua “intensificazione e l’allargamento delle formazioni partigiane”, che potevano anche in parte spostarsi in pianura, ma sempre in modo organizzato e compatto, operando magari per piccoli gruppi e portando anche lì la guerriglia. È la linea della “pianurizzazione”, che con tanto successo fu praticata soprattutto nella pianura padana, sotto la guida di Arrigo Boldrini. E ancora una volta la linea proposta dai comunisti si afferma come linea condivisa e unitaria[5].

partigiani-a-bosco-marteseQuei mesi invernali sono anche come un’occasione per il movimento partigiano di legarsi maggiormente alla popolazione, riceverne assistenza e al tempo stesso proteggerla e aiutarla, allargando ulteriormente la dimensione di massa della lotta.

Nel febbraio del ’45, sulla scorta dell’avanzata delle truppe sovietiche, ormai a poche decine di chilometri da Berlino, e dell’avvicinarsi degli Anglo-americani alle regioni occupate, il movimento di liberazione rilancia l’offensiva in grande stile. Nella Direzione allargata del Pci per l’Italia occupata dell’11-12 marzo, Longo lo dice chiaramente: “La battaglia finale è cominciata”, e richiamandosi ancora a un discorso di Togliatti aggiunge: l’insurrezione “deve essere insurrezione non di un partito o di una classe, ma di tutto il popolo per la cacciata di tedeschi e fascisti e per la creazione di un’Italia nuova”. La lotta finale dovrà basarsi sulla “trasformazione delle formazioni partigiane in regolari unità militari, aventi un solo obiettivo, una sola disciplina, una sola bandiera: quelli del CLN”. Al tempo stesso, Gallo esorta a dare “la massima attenzione all’organizzazione di massa”, alla preparazione degli scioperi che dovranno fiancheggiare e sostenere l’insurrezione, e in generale alla mobilitazione della popolazione e dei CLN[6].e3eceedfa57a4c148856b077ca9abc14-1

Il 28 marzo a Milano gli operai di oltre cento stabilimenti entrano in sciopero per il pane e il salario e contro il terrore nazifascista: è quella che Longo definirà la “prova generale” dell’insurrezione. Il giorno seguente, il CLN Alta Italia nomina un Comitato esecutivo insurrezionale composto da Longo stesso, Pertini e Leo Valiani[7].

L’8 aprile la Direzione Nord del Pci emana la direttiva n. 15, che sottolinea l’importanza dell’astensione dal lavoro dei ferrovieri e di tutti i lavoratori dei trasporti ai fini della riuscita dell’insurrezione. Due giorni dopo, con la direttiva n. 16, Longo e la Direzione Nord trasmettono le ultime istruzioni pre-insurrezionali: bisogna scatenare l’assalto definitivo. […] le formazioni partigiane devono iniziare gli attacchi in forza a presidi nazifascisti, obbligarli alla resa o sterminarli […]; devono muovere con la più grande energia alla liberazione del territorio nazionale, liberando dai nazifascisti paesi, vallate e intere regioni, favorendo, nelle zone liberate, la costituzione immediata di organi popolari di amministrazione e di governo. Al tempo stesso va avviato lo “sciopero generale insurrezionale”, concepito come “progressione accelerata di movimenti popolari, di fermate, di manifestazioni e di scioperi”. Ancora una volta, infine, i comunisti agiranno in modo unitario, ma non si faranno fermare da eventuali ripensamenti di altre forze:

Queste direttive […] devono essere portate in tutti i nostri comandi militari e in tutte le organizzazioni di massa […]; devono essere fatte accettare e realizzate da tutti. Ma la carenza, l’opposizione degli altri non deve costituire, per nessun motivo, ragione valida per giustificare, da parte dei nostri compagni, ritardi, debolezze, incertezze nell’azione insurrezionale. Dove gli altri resistono, mancano o si oppongono, dobbiamo fare noi, anche solo con le nostre forze. […]

Può darsi che questa sia l’ultima direttiva che le nostre organizzazioni potranno ricevere dal centro del partito […] ma, per tutti, deve essere ben chiara una cosa: per nessuna ragione il nostro partito, e i compagni che lo rappresentano […] devono accettare proposte […] tendenti a limitare, a evitare, a impedire l’insurrezione nazionale di tutto il popolo.

Se i nostri amici, nei CLN e nei comandi militari, intendessero dar corso a simili diposizioni […] dobbiamo fare di tutto per dissuaderli […]. Ma se […] non riuscissimo […] dobbiamo anche fare da soli, cercando di trascinare al nostro seguito quante più forze è possibile, agendo sempre, però, in nome del CLN […] e mettendo bene in chiaro che con la nostra attività non ci proponiamo affatto scopi e obiettivi di parte[8].

I comunisti, insomma, tenderanno come sempre all’unità, ma devono essere pronti ad agire anche da soli, ovviamente con l’intento di trascinare le altre forze. Ancora una volta, è l’applicazione pratica del concetto di avanguardia e dell’idea del Partito comunista come forza di avanguardia. Aver inteso e praticato correttamente questa impostazione consentì al Pci di essere la forza trainante di tutto il movimento di liberazione, riuscendo al tempo stesso a far sì che esso fosse ampio, unitario e vittorioso. Una lezione politica e teorica che vale ancora oggi.

[1] Organizzare la difesa nazionale, 30 agosto 1943, in L. Longo, Sulla via dell’insurrezione nazionale, Roma, Editori Riuniti, 1974, pp. 33-34; A. Höbel, Luigi Longo, una vita partigiana (1900-1945), Roma, Carocci, 2013, pp. 304-305.

[2] Ivi, p. 306.

[3] Avanti, per la battaglia insurrezionale!, in “La Nostra lotta”, n. 10, giugno 1944.

[4] Dopo un anno di lotte e di vittorie, schema del rapporto politico presentato alla Conferenza dei triumvirati insurrezionali del Pci, in Longo, Sulla via dell’insurrezione nazionale, cit., pp. 241-267.

[5] Le istruzioni del generale Alexander per la campagna invernale, direttive del Comando generale del CVL, 2 dicembre 1944, in Longo, Sulla via dell’insurrezione nazionale, cit., pp. 268-275; Höbel, Luigi Longo, una vita partigiana (1900-1945), cit., pp. 345-346. Ricorderà Longo: il proclama “era chiaro […]. Ma, a una più cavillosa lettura, mi persuasi che gli si poteva dare una ‘interpretazione’ che, mentre formalmente l’approvava […] sostanzialmente ne capovolgeva in senso. Mi ci provai […] e buttai giù di botto la circolare del Comando generale […] con la quale mi recai alla riunione dove attendevano il generale Cadorna, l’ing. Solari che sostituiva Parri e la delegazione di Venezia. […] Non ebbi alcuna obiezione […]. Credo che l’audacia con cui avevo rovesciato il significato del proclama Alexander avesse lasciato di stucco […] i miei potenziali interlocutori” (Longo, Sulla via dell’insurrezione nazionale, cit., pp. 25-27).

[6] Per l’insurrezione nazionale, rapporto politico alla riunione allargata della Direzione del Pci per l’Italia occupata, 11-12 marzo 1945, in Longo, Sulla via dell’insurrezione nazionale, cit., pp. 308-340.

[7] Höbel, Luigi Longo, una vita partigiana (1900-1945), cit., pp. 358-359.

[8] Longo, Sulla via dell’insurrezione nazionale, cit., pp. 344-350.