
A. Gramsci, Bergsoniano!, in “L’Ordine Nuovo”, 2 gennaio 1921.
Decisamente, la filosofia nelle file del Partito Socialista Italiano, e nella mente dei suoi teorici e dei suoi leaders, è destinata a non aver mai fortuna. C’è stato una volta un periodo di esaltazione, un periodo in cui la fede politica e la fede sociale sembrava dovessero di necessità accordarsi con una determinata fede scientifica. Erano i giorni avventurati in cui dell’una e dell’altra fede erano sacerdoti Cesare Lombroso ed i suoi ripetitori, in cui Enrico Ferri era un grande filosofo e grande capo rivoluzionario. Ahimè! il socialismo italiano, che per le grandi masse era allora spontaneo moto di riscossa e di risveglio, movimento di liberazione iniziato in forme incomposte, senza troppa chiara coscienza di sé, tumultuoso, ma pieno di calore e pieno di ogni possibilità di sviluppo, e pieno soprattutto di fecondo spirito di iniziativa e di tenace volontà di azione, il socialismo italiano, nella mente dei suoi teorici, nella mente dei capi e degli ispiratori, aveva la triste sorte di essere avvicinato al più arido, secco, sterile, sconsolatamente sterile, pensiero del secolo XIX, al positivismo
La vendetta la fecero le masse stesse. Dopo aver letto o sentito esaltare i libri dei Lombroso e dei Ferri e dei Sergi e altra simile roba positivamente scientifica, esse che avevano pur bisogno di credere per operare, si vendicarono della scienza facendone una fede. E dei saggi della positività scientifica fecero altrettanti santoni. Quelli che erano scienziati veri se la ebbero a male e tacquero; gli altri si rivelarono per ciò che erano, cioè ciarlatani venditori di una merce e fabbricanti di celebrità. Ma al socialismo italiano restò quel marchio, di essere quasi nato insieme e di aver per tanto tempo fatto vita e cammino comune con il positivismo.
Poco male, se non si corresse il rischio di vedere ad ogni poco scambiato il marchio con la sostanza di ciò che gli sta sotto, il rischio che corre ogni movimento politico che abbia voluto o voglia farsi passare per autorizzato o giustificato o valorizzato da una speciale indirizzo di pensiero filosofico. Di questo rischio ha sofferto quanto noi il sindacalismo francese, costretto a sentire e subire gli influssi e le conseguenze delle critiche fatte alla corrente di pensiero da cui esso amò dirsi iniziato: al bergsonismo. Il paragone è molto grossolano, sia perché Bergson è una montagna e i nostri positivisti erano dei ranocchi in una palude, e sia pure perché nessun socialista italiano mai ha avuto la precisione, l’originalità, e insieme la facoltà di penetrazione e di adattamento di un Sorel. Ma dove è caduto un colosso, figuriamoci i nani! Per trovare la via giusta bisogna risalire a Carlo Marx e a Federico Engels, che da un pensiero filosofico hanno tratto una precisa dottrina di interpretazione storica politica. Ma essi erano passati per l’idealismo e, prima ancora, erano gente che i filosofi li aveva letti, e capiti, e fatti suoi.
Oggi bisogna che discutiate con della gente che li conosce molto ma molto di lontano. E allora vi capita il curiosissimo caso di vedere il nome di una scuola filosofica diventare qualcosa di simile a un epiteto ingiurioso. Non sapete più che cosa rispondere al vostro contraddittore? Ditegli che è un volontarista o un pragmatista, o – fatevi il segno della croce – un bergsoniano. Il sistema è di effetto sicuro…
[Oh! Saper essere come l’operaio che sente una sua precisa direttiva di azione e di pensiero, ed è filosofo senza saperlo, come il borghese gentiluomo era prosatore!].