Prospettiva di trasformazione e specificità comunista in Italia (marzo 1981)[1]

Nell’anniversario della scomparsa di Enrico Berlinguer, pubblichiamo la sua intervista del marzo 1981 sul tema della specificità e diversità del Pci, rispetto agli altri partiti italiani ma anche nell’ambito del movimento comunista internazionale; un testo in cui la strada originale compiuta dai comunisti nel nostro paese è rivendicata da Berlinguer con grande chiarezza.

Il sessantesimo anniversario della fondazione del nostro partito cade in una situazione dei rapporti mondiali che è caratterizzata da un inasprimento dei problemi e delle tensioni. Il processo di distensione si è arrestato e appaiono forti le spinte per una tendenza opposta. Per alcuni ciò significa che non vi sarebbe spazio per una prospettiva di trasformazione quale quella da noi indicata.

 Proprio il riaprirsi nella situazione internazionale di nuove tensioni, che tendono ad aggravarsi ancora e a minacciare la pace, conferma che proseguire ciecamente nella corsa agli armamenti e nella esasperazione del contrasto tra est e ovest porta al peggio. Noi abbiamo sottolineato, credo giustamente, che la guerra è certamente evitabile, ma che essa, purtroppo, non è impossibile. In una situazione che rischia di deteriorarsi fino a poter provocare conseguenze catastrofiche, il ruolo dell’Europa occidentale − e soprattutto del suo movimento operaio − può essere di straordinario rilievo nel creare le condizioni per avviare una svolta positiva nella situazione mondiale. Per questo è indispensabile che, senza rimettere in discussione la collocazione dei paesi europei che fanno parte del Patto Atlantico, la Comunità europea abbia una propria autonomia di valutazione e di iniziativa.

Al di là della congiuntura e delle vicende dei rapporti tra gli Stati, la situazione di involuzione verso cui sembrano avviarsi pericolosamente i rapporti internazionali spinge a proporre più che mai l’obiettivo di una trasformazione sostanziale della società e degli ordinamenti politici. Se siamo giunti ad una situazione così assurda per la quale ogni giorno che passa nel mondo si spendono più di un milione di dollari (oltre mille miliardi di lire) per gli armamenti, mentre una parte considerevole del genere umano manca addirittura del minimo vitale, è evidente che si è arrivati ad un vicolo cieco. Il fatto che le esperienze di tipo socialista che fin qui sono state realizzate in varie parti del mondo non costituiscano la soluzione storicamente adeguata e politicamente possibile nell’occidente, cioè nei punti più alti del capitalismo, e quindi anche qui in Italia, non significa che bisogna abbandonare l’obiettivo del socialismo e lo sforzo per costruire in Italia e negli altri paesi capitalistici europei un sistema di rapporti sociali ed umani diversi e superiori rispetto a quelli prodotti dal capitalismo e dalla sua crisi. Anzi, significa proprio che più pressanti che mai devono farsi, qui da noi, gli sforzi, teorici e pratici, affinché il movimento operaio, giunto a una maturità e a una fase nuova della sua storia, possa far sentire peso decisivo della sua forza costruttiva e innovatrice.

Certo, lo sforzo per la distensione, per non essere sterile, comporta necessariamente la comprensione della necessità di un equilibrio tra le forze in un mondo nel quale sono di fronte blocchi contrapposti. Allo stesso tempo, però, sempre più chiaro si manifesta il bisogno di trovare una via di uscita complessiva e meno provvisoria, volta ad una ricomposizione − a una unità − del genere umano, fondata sulla cooperazione fra popoli liberi e indipendenti. Senza tale comprensione diventerebbe alla lunga impossibile la convivenza. Dunque, quanto più preoccupante diventa la situazione, tanto più siamo spinti a rafforzare il nostro convincimento sulla validità e sulla giustezza delle idee di trasformazione per le quali è sorto il movimento operaio socialista e comunista, e in particolare un partito quale è il nostro. Qualcosa, però, è entrato in crisi e, precisamente, quell’ottimismo ingenuo con cui certi settori della sinistra hanno coltivato, e in parte ancora coltivano, una duplice illusione, la quale ignora i dati e gli sviluppi della storia politica ed economica dell’Europa e del mondo dell’ultimo mezzo secolo: da un lato, l’illusione che il superamento del capitalismo possa avvenire anche qui da noi battendo la strada e ricalcando le forme assunte dalla rivoluzione proletaria nella Russia del 1917 e dalla costruzione di un socialismo in un solo paese, dall’altro lato, l’illusione che il superamento del capitalismo e il passaggio al socialismo possano compiersi come un processo di «naturale» o meccanica metamorfosi dell’uno nell’altro, come un avanzamento lineare, evolutivo e quasi inarrestabile su una strada di progresso e di emancipazione. Non solo l’acutizzarsi delle tensioni internazionali, ma l’emergere di posizioni conservatrici e anche reazionarie in tanti paesi dell’occidente (basta pensare al ruolo che la presidenza Reagan va già assumendo in America latina) dimostra che il cammino è aspro e difficile, che la trasformazione della società capitalistica in direzione del socialismo comporta una lotta molto dura e complessa, e sul fronte politico e sul fronte economico e sul fronte ideale. Oggi poi, -torno a ripeterlo,- per far progredire questa lotta c’è bisogno di un enorme, inusitato sforzo innovativo nel campo della elaborazione teorica e in quello delle soluzioni pratiche. È insomma divenuta una necessità oggettiva ricercare e muoversi su strade nuove, sulle quali, del resto, già abbiamo cominciato a incamminarci.

Di fronte a questo quadro così complesso, come si caratterizza, oggi, l’impegno internazionalista dei comunisti?

Abbiamo parlato di internazionalismo «nuovo» e più che mai sentiamo che ce n’è bisogno: c’è bisogno di un rapporto tra tutte le forze che vogliono impegnarsi per salvaguardare la pace e tra le forze che aspirano alla liberazione nazionale, ad aver garantito l’indipendenza e sovranità dei propri paesi, al rinnovamento politico e sociale. Come ogni causa giusta, una visione di questo genere tende ad affermarsi, anche se con grandi difficoltà. D’altra parte, rimanere attaccati alla visione dell’internazionalismo proprio del periodo della Terza Internazionale (e che comprendeva i partiti comunisti e opero sorti a seguito del fallimento della Seconda Internazionale, socialista, di fronte alla guerra e alla vittoria della rivoluzione russa del 1917) non avrebbe più senso. Non a caso la Terza Internazionale venne sciolta. Ma ciò che più conta è che le forze impegnate nella lotta di liberazione e di emancipazione umana sono di gran lunga cresciute e conoscono una grande varietà di orientamenti. Inoltre fra gli stessi partiti di matrice terzinternazionalista esistono differenziazioni molto profonde. Ma la ragione fondamentale che ci ha spinti a elaborare il nostro nuovo internazionalismo sta nella consapevolezza che la novità dei problemi di fondo di fronte ai quali oggi si trovano il mondo e l’Europa esige che si affermi il ruolo peculiare del movimento operaio occidentale.

Ma le differenziazioni nel movimento operaio e comunista internazionale non sono oramai tali da determinare vere e proprie contrapposizioni di visione e, di conseguenza, da rendere inevitabili lacerazioni e rotture? A che cosa può servire mantenere un rapporto che di fatto si riduce a essere meramente diplomatico con forze comuniste tanto profondamente diverse da noi come condizioni oggettive e come formazione culturale e tradizioni ideologiche?

 Innanzitutto, voglio dire chiaramente che le vicende del movimento comunista di origine terzinternazionalista non sono state per nulla, come molta letteratura e molta propaganda politica antica e recentissima vorrebbero invece dimostrare, un ininterrotto susseguirsi di errori. La Terza Internazionale dette un contributo prezioso alla costituzione di formazioni politiche di tipo nuovo del proletariato rivoluzionario. E i partiti che ne facevano parte combatterono battaglie gloriose contro il fascismo e contro il bellicismo. È vero che i partiti comunisti compirono insieme l’esperienza degli anni venti e trenta, della seconda guerra mondiale e dei primi anni della guerra fredda, nel quadro di una solidarietà che si espresse in forme unitarie al punto da venire considerate «monolitiche». Ciò non impedì tuttavia che all’interno di quelle forme emergessero per tempo − e, quanto a noi comunisti italiani, nel corso stesso della seconda guerra mondiale − diversità di accenti e di posizioni, affermazioni di natura politica e teorica nuove che, via via, si irrobustirono e si chiarirono e che concorsero a configurare i tratti di quella singolare peculiarità che contraddistingue da lunghi anni il nostro partito.

Ecco le radici della nostra attuale concezione e della nostra pratica della solidarietà internazionalista: esse sono più ampie e più aperte del passato, concretamente fondate su una incontrovertibile autonomia senza essere velleitariamente e provincialescamente autonomistiche, esposte cioè al rischio, come ci avvertiva Togliatti nel suo Memoriale di Yalta, di portare il partito all’isolamento. Ma pur non volendo nascondere, per converso, certi errori che abbiamo commesso nel passato, − e che del resto abbiamo più volte analizzato e criticato, − non possiamo lasciare che si stenda una coltre sulla situazione politica mondiale che venne a crearsi dopo la decisione di Truman di sganciare la prima bomba atomica e poi con la guerra fredda.

Il formarsi e l’erigersi, in luogo della grande alleanza antifascista e antinazista, dei due blocchi contrapposti arrestò e compromise le possibilità che un processo unificante delle posizioni e idee nuove andasse avanti e sbarrò la possibilità di un proficuo scambio delle rispettive esperienze ed elaborazioni che portasse il mondo a imboccare un nuovo cammino. Certo, di fronte alla situazione di fatto che c’è oggi, sarebbe errore gravissimo non riconoscere il differenziarsi delle strade, il bisogno di ricerca, la impossibilità di attardarsi in schemi, − o in presunti «immortali principi», − il cui esaurimento è storicamente compiuto ed è divenuto evidente. Per quanto ci riguarda abbiamo cercato e cercheremo di non commettere questo errore. Quello che è stato chiamato l’eurocomunismo ha tra le sue caratteristiche decisive proprio quella di muovere dalla consapevolezza della radicale novità − e non solo della molteplicità − delle condizioni con le quali bisogna misurarsi oggi, e di quanto quindi sia diventato indispensabile liberarsi, con un impegno critico e di fatto, di arretratezze ideologiche, di contraddizioni materiali, di chiusure politiche e culturali, che in parte erano storicamente inevitabili nel corso di fasi politiche precedenti, ma che − pur essendo ancora presenti nel mondo e nel movimento operaio comunista contemporaneo − non sono più accettabili, appartengono al passato.

La novità delle condizioni e la varietà delle situazioni non ci spingono però a ritenere che non esistano più o non debbano operare grandi e universali valori unificanti: i valori di fratellanza, di solidarietà, di liberazione da ogni forma di oppressione, di piena affermazione della personalità di ogni uomo e, fondamentale fra tutti, il valore della democrazia, dell’effettivo intervento e partecipazione del popolo alla definizione degli obiettivi verso cui indirizzare lo sviluppo della società e l’azione dello Stato, nonché delle forme e dei modi per raggiungerli.

Su quest’ultima tua osservazione ci sono discussioni aperte e disparità di posizioni tra il nostro partito e altri partiti comunisti, sia dei paesi capitalistici sia dei paesi ove sono state compiute trasformazioni di tipo socialista delle strutture economiche e dei rapporti sociali. La discussione che è in corso è su due punti precisi: 1) su certe caratteristiche che hanno assunto gli assetti politici e giuridici dei paesi del socialismo fin qui realizzato e sui problemi preoccupanti che quelle caratteristiche hanno fatto insorgere; 2) sull’accezione nostra di internazionalismo. Quali esiti tu pensi possa avere la discussione su questi punti?

 Ciò che in queste discussioni muove noi, comunisti italiani, è una volontà e uno sforzo perché vi sia una reciproca maggiore comprensione. Il Pci − lo abbiamo detto e lo ripetiamo − non cerca e non desidera rotture: noi, semplicemente, sentiamo il dovere di difendere la completa autonomia di giudizio, di azione e di iniziativa di ciascun partito comunista e operaio, di sostenere la piena indipendenza e sovranità di ciascun popolo e di ciascuno Stato, di rifiutare qualsiasi ingerenza straniera nelle vicende interne di ciascuna nazione. Riteniamo che queste posizioni di principio assunte dal nostro partito siano valide non solo per l’Italia, ma per tutti, e ovunque.

Certamente, le discussioni con alcuni partiti comunisti derivano anche dalla nostra viva preoccupazione per i problemi aperti all’interno dei paesi del socialismo fin qui realizzato. Non si può certamente pensare, ad esempio, che i limiti posti finora alle autonomie individuali e alle libertà civili in quelle società possano essere mantenuti indefinitamente senza produrre crisi gravi. Abbiamo espresso da tempo queste preoccupazioni, ed esse hanno dimostrato il loro fondamento quando si è dovuto constatare, per venire ai nostri giorni, il distacco di una parte purtroppo grandissima della classe operaia polacca dai sindacati e dallo stesso partito.

Occorre tuttavia tenere presente che un acuirsi della tensione internazionale − ecco un altro motivo della nostra battaglia tenace per la distensione in Europa e nel mondo − carica i paesi del socialismo fin qui realizzato di pesi e di vincoli che concorrono a ostacolare lo scioglimento dei gravi nodi che si sono accumulati nel loro sviluppo. È compito del movimento operaio occidentale mettere a frutto le sue specifiche possibilità − che sono il prodotto di una diversa storia − per far avanzare forme nuove di socialismo, e insieme battersi per imporre quegli elementi di distensione e di cooperazione internazionali che sono indispensabili anche per favorire un processo di positivo scioglimento dei problemi dello sviluppo democratico delle società socialiste.

Il tema della «diversità» comunista è tornato di attualità nei dibattiti, nei discorsi, negli scritti per il sessantesimo anniversario della fondazione del nostro partito. Tu stesso hai parlato, in più occasioni, di una «originalità», di una «peculiarità», di una «alterità» e persino di un’« anomalia» del nostro partito. Secondo certi nostri critici, mettere in luce le specificità e le diversità dei comunisti italiani significherebbe in sostanza rivelare e ribadire una sorta di nostra estraneità alla democrazia occidentale, sicché per costoro ciò che ci fa «diversi» rispetto agli altri partiti italiani non è la serietà, la costruttività, la onestà e la pulizia della nostra condotta, la tensione trasformatrice che ci anima, la nostra fedeltà e i nostri legami con le masse lavoratrici e popolari, il nostro senso dello Stato, ma tutto si ridurrebbe al fatto che il famoso cordone ombelicale con l’Urss noi non l’avremmo ancora tagliato definitivamente. Da questa semplicistica e arbitraria premessa si fanno poi derivare altri presunti connotati negativi del Pci, che lo renderebbero incapace di «occidentalizzarsi» completamente, come ad esempio l’ideologia «totalizzante» o la pretesa «egemonica» che si vorrebbero connaturate al nostro partito. Ci sembra che il tema della «diversità» meriti in effetti un approfondimento.

Ho già avuto modo di dire che anche noi, anche il Pci è figlio della rivoluzione russa del 1917, ma un figlio ormai adulto e autonomo. Se ci si giudica in base a ciò che effettivamente facciamo, pensiamo ed affermiamo in ogni sede e circostanza, con fermezza, con serenità e senza alcuna iattanza in Italia e fuori, credo che la nostra piena indipendenza si sia dimostrata effettiva al punto tale che per tutti dovrebbe ormai essere fuori discussione. E non credo nemmeno che valga la pena ricordare che da tempo abbiamo criticato ogni interpretazione totalizzante del ruolo del partito. La verità è che ciò che ci si rimprovera oggi, come sempre, è che un partito del movimento operaio qual è il Pci non ha rinunciato a perseguire l’obiettivo e a lottare per un mutamento radicale della società. Si vorrebbero partiti di sinistra che di fatto si accontentano di limitare la loro azione a introdurre qualche correzione marginale all’assetto sociale esistente, senza porre mai in discussione e prospettare una sistemazione profondamente diversa dei rapporti che stanno alla base della struttura economica e sociale attuale. La principale diversità del nostro partito rispetto agli altri partiti italiani, oltre ai requisiti morali e ai titoli politici che noi possediamo e che gli altri stanno sempre più perdendo (e che tu hai opportunamente ricordato), sta proprio in ciò: che noi comunisti non rinunciamo a lavorare e a combattere per un cambiamento della classe dirigente e per una radicale trasformazione degli attuali rapporti tra le classi e tra gli uomini, nella direzione indicata da due antiche e sempre vere espressioni di Marx: non rinunciamo a costruire una «società di liberi e uguali», non rinunciamo a guidare la lotta degli uomini e delle donne per la «produzione delle condizioni della loro vita». L’obiezione che ci viene fatta è che questo nostro finalismo sarebbe un modo di voler imporre alla storia una destinazione. No, questo è il modo in cui noi stiamo nella storia, è la tensione e la passione con cui noi agiamo in essa, è la speranza indomabile che ci anima in quanto rivoluzionari. Consapevoli che, invece di avere uno sviluppo dell’umanità, si possa andare anche verso una nuova barbarie (come dice il Marx del Manifesto, verso la «comune rovina delle classi in lotta»), noi ci battiamo perché questo esito catastrofico sia evitato all’umanità, e chiamiamo a combattere per conseguire un fine di felicità, di serenità, di giustizia, di libertà. La nostra principale «anomalia» rispetto a diversi altri partiti comunisti e operai è che noi siamo convinti che nel processo verso questa mèta bisogna rimanere − e noi rimarremo − fedeli al metodo della democrazia.

 L’« assalto al cielo» − questa bellissima immagine di Marx − non è per noi comunisti italiani un progetto di irrazionalistica scalata all’assoluto. Da storicisti, quale era lo stesso Marx (e i nostri Labriola, Gramsci, Togliatti), non ci muoviamo sul piano di un esaurimento della storia: tendiamo invece tutte le energie di cui siamo e saremo capaci per rendere concreto e attuale ciò che è maturo dentro la storia, ce ne facciamo «levatrici», favorendo con il lavoro e con la lotta la processuale fuoriuscita della società dall’assetto capitalistico che, per dirla con le parole del vecchio Engels, ormai veramente «merita di morire».

Rimane però il fatto che, storicamente, una concezione del partito come prefigurazione della futura società (e, quindi, implicitamente, un ruolo totalizzante del partito) è stato il modo in cui concretamente si è affermata l’autonomia ideale e politica della classe operaia rispetto alla classe borghese. Ma se quella concezione del ruolo del partito è per noi superata, qual è la radice della nostra «anomalia»? In che cosa consiste e come si manifesta la nostra autonomia?

 Oggi, lo sforzo della classe operaia (e del partito) per affermare la propria autonomia ideale e politica rispetto alla società capitalistica, nasce dalla ripulsa dei «valori» dominanti. Per esempio, uno dei valori costitutivi e fondanti delle società capitalistiche è l’individualismo, la contrapposizione fra gli individui la lotta di ciascuno contro tutti gli altri, di ciascun gruppo o corporazione chiusa in se stessa contro tutte le altre. La classe operaia e noi comunisti, tendiamo ad affermare invece il valore della solidarietà di classe e della solidarietà di tutti gli oppressi e gli sfruttati. Con ciò è chiaro che noi apriamo una lotta, perché siamo convinti della necessità, della possibilità e della utilità generale di costruire rapporti nella società e nello Stato fondati sul ribaltamento di quel valore, di quella idea base del capitalismo che è appunto l’individualismo.

Ma l’affermazione e la dichiarazione non bastano: bisogna calare questo valore della solidarietà dentro una politica di trasformazione, altrimenti tale valore rivoluzionario si trasforma in quel banale e qualunquistico detto, secondo il quale «stiamo tutti nella stessa barca». La difficoltà in cui si sono imbattuti i partiti socialdemocratici sta proprio in ciò: che la loro politica illudendosi di essere «realistica e concreta», nei fatti è diventata spesso adeguamento alla realtà così come essa è, e ha portato alla messa in parentesi dell’impegno al cambiamento dell’assetto dato li ha portati cioè all’offuscamento e alla perdita della propria autonomia ideale e politica dal capitalismo. La nostra «diversità» rispetto alla socialdemocrazia sta nel fatto che a quell’impegno trasformatore e a quella autonomia ideale e politica noi comunisti non rinunceremo mai. Quando, per esempio, noi vedemmo che la nostra partecipazione ad una maggioranza di governo non serviva per altrui volontà, ad avviare un processo di cambiamenti reali anche se soltanto parziali, del modo di governare lo Stato e di far vivere la gente, non esitammo ad abbandonare quella maggioranza che funzionava ormai in modo antitetico all’obiettivo per cui era nata e cioè far vivere una solidarietà che servisse a far rinascere e a rigenerare l’Italia.

Peculiarità e «anomalia» comunista, da un lato, e laicità del partito dall’altro: queste due affermazioni non sono tra loro contraddittorie?

 Lo diventano se si accetta una sola accezione − cioè un’interpretazione unilaterale e deformante − di un concetto così esteso come è quello della laicità. Vi sono forze, per esempio, che si autodefiniscono laiche perché sposano quel vecchio laicismo, borghese e ottocentesco, che è anch’esso integralistico come lo è il confessionalismo antico e nuovo.

Noi non siamo laici a questa maniera. E non lo siamo nemmeno se per posizione laica si volesse intendere una posizione agnostica, che si affida alla pura empiria. Se fossimo laici a questo modo, cioè dei meri pragmatisti, allora nascerebbe in noi la contraddizione che tu dici. Per essere più preciso, la contraddizione ci sarebbe se la «laicità» del partito − che abbiamo affermato con chiarezza nelle tesi e nello statuto del XV Congresso, ma che ha le sue radici nell’articolo 2 dello statuto che approvammo sin dal 1945, e che si è sviluppata nell’elaborazione e nella condotta politica dei nostri ultimi trentacinque anni − significasse indifferenza, disinteresse, disimpegno rispetto ai grandi problemi della trasformazione della società e a quella che Gramsci chiamava la «riforma intellettuale e morale». Questo ridurrebbe la politica a praticismo, a cinica amministrazione dell’esistente, all’« opportunismo senza principi», a qualcosa insomma di gretto, senza prospettiva strategica e senza respiro ideale. Ma non ha davvero questo misero significato la «laicità» di cui noi parliamo.

Riconosco che ci sono state due diverse interpretazioni, variamente riduttive, che da qualche parte si è cercato di dare alle nostre tesi sulla laicità e che qualche volta sono affrontate anche dentro il nostro partito. La prima interpretazione è quella che considera l’affermazione della laicità come riferita esclusivamente ai cattolici: una sorta di concessione fatta loro (e in generale ai credenti) per rendere possibile e favorire la loro adesione al programma politico del partito. Ora, è indubbio che, in una situazione come quella italiana, la questione cattolica abbia pesato molto − ed essa certamente influì sulla formulazione del già ricordato articolo 2 dello statuto − nel senso di sollecitare una distinzione tra ideologia e politica, e quindi di promuovere la maturazione della consapevolezza della «laicità» del partito e del suo programma politico. Anch’io ho avuto occasione di sottolinearlo nella risposta che inviai al vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi. E tema fu ripreso nella replica dell’Unità all’«Osservatore romano», che aveva commentato la mia lettera. Ma è altrettanto chiaro che il principio della laicità ha un valore che è di portata generale. Esso esclude l’identificazione del partito con un particolare sistema dottrinario (quale per esempio fu ieri il positivismo per il partito socialista, e quale fu il marxismo-leninismo nella codificazione che ne fu data nell’epoca staliniana); afferma la volontà di un «continuo e fecondo confronto − come è detto nelle tesi − con le più vive correnti della cultura italiana e mondiale, con gli sviluppi del pensiero e della scienza moderna e con le diverse elaborazioni e interpretazioni del marxismo».

 Ma c’è stata, e c’è, anche un’altra interpretazione riduttiva: è quella di chi ritiene che il partito laico, non ideologico, significhi partito che rinunci a proporsi l’obiettivo del socialismo, − nel modo, beninteso, in cui noi vogliamo costruirlo, − che anzi relega in soffitta, tra i sogni del passato, l’idea stessa di trasformazione della società, e che perciò alla fine si rassegna ad operare solo all’interno dei limiti, dei «vincoli» che sono fissati dall’a-setto della società oggi esistente. È chiaro che non è così, perché se così fosse non ci sarebbe davvero più alcun motivo di parlare di una “diversità” del Partito comunista rispetto a qualsiasi altro partito democratico o riformista. Dunque, la nostra laicità è tutt’altra cosa rispetto a queste due accezioni monche e riduttive. L’affermazione della laicità del Partito comunista italiano non significa esclusione di una critica radicale dell’attuale società o di un serio discorso sui «valori» cui una società più giusta deve ispirarsi. Significa, invece, affermare che sull’esigenza di modifiche profonde dell’attuale ordinamento sociale per dare risposta ai drammatici problemi cui l’umanità è oggi di fronte, e sui «valori» o sulle idealità che dovranno trovare attuazione nella costruzione di una società nuova e diversa, è oggi possibile realizzare un confronto positivo e una convergenza fra differenti posizioni culturali e ideali e fra uomini e movimenti di diversa ispirazione filosofica e religiosa.

Non si tratta, anzi, solo di una possibilità, ma di una necessità. Per rendere il discorso anche più concreto, mi pare ormai evidente, per esempio, che se si vogliono superare le difficoltà anche teoriche di fronte alle quali si trova oggi il movimento operaio europeo, se si vuole dare maggiore consistenza e concretezza alla prospettiva che abbiamo indicato col termine di terza via, non si può fare affidamento su una sola corrente di pensiero, o su una sola tradizione politica (tanto meno su una sola variante del marxismo), ma è necessario il contributo e il concorso di una pluralità di posizioni e tradizioni, ed è necessario saper fare i conti con le esperienze più avanzate della cultura, della ricerca, della scienza.

Questo vuol dire che noi facciamo tabula rasa del nostro più che secolare patrimonio teorico e ideale? Che si debba «partire da zero»? Neanche per sogno. Abbiamo affermato nelle tesi − e va ribadito − che il Partito comunista ha un «preciso punto di riferimento in una tradizione ideale e culturale» che storicamente ha come fondamento l’ispirazione marxiana, ma che si è venuta arricchendo e rinnovando − e deve di continuo arricchirsi e rinnovarsi − attraverso il «confronto con la realtà, con l’esperienza e con altre correnti di pensiero».

È chiaro che da questa tradizione discendono quei valori (di solidarietà, di giustizia, di fratellanza, di democrazia, di libertà, di impegno per la creazione di una società che ponga fine ad ogni forma di oppressione e in cui possa svilupparsi pienamente la personalità di ogni uomo) che costituiscono essenziali punti di riferimento sia nella critica della società presente sia nella lotta per trasformarla. Ma è chiaro che alla maturazione di questi «valori» hanno contribuito e potranno contribuire anche altre correnti di lotta e di pensiero. Tale contributo molteplice è anzi necessario soprattutto per dare vita a vasti movimenti di massa unitari e ad ampi schieramenti di alleanze, che comprendano tutte le forze capaci di portare avanti un ampio programma di trasformazione politica e sociale.

C’è − si dice − una «crisi della politica», un tramonto dell’idea stessa di trasformazione e di cambiamento. All’intensa politicizzazione della fine degli anni sessanta e degli inizi degli anni seguenti sono subentrati fenomeni di crisi, di sfiducia, variamente caratterizzati e teorizzati: come valuteresti questo mutamento di atteggiamento e di impegno?

 Secondo me, un comunista, un rivoluzionario non può che respingere l’ideologia che sta dietro certe teorizzazioni della «crisi della politica», quelle che vanno sotto il nome di «cultura della crisi», intesa come rinuncia a un progetto di possibile cambiamento, di costruzione di una società nuova, più umana e più alta: è come dire «arrendiamoci, non c’è più nulla da fare, non ha senso parlare di rivoluzione». Ma un comunista e un rivoluzionario, mentre combatte questi atteggiamenti di capitolazione politica e ideale, deve volgere un’adeguata attenzione agli orientamenti ideali e culturali che in questa fase di crisi vengono emergendo. Vi sono, certamente, pericoli di regressione, ma non tutto, certamente, è regressivo. Nella riproposizione dei problemi dell’individuo, per esempio, o nel riemergere di una complessa tematica etico-sociale, vi è anche il richiamo a questioni che non possono trovare risposta semplicemente attraverso la trasformazione delle strutture economiche o degli ordinamenti politici. Ricordo in proposito − anche perché, talvolta, sembriamo dimenticarcene − che proprio nel riferimento alla specificità di questi problemi sta una delle ragioni della nostra critica alle riduzioni economicistiche dell’analisi marxista. Lo abbiamo sottolineato anche nelle tesi dell’ultimo congresso, quando abbiamo scritto che nella nostra concezione «la trasformazione delle strutture è condizione basilare, ma che da sola non assicura i complessivi valori del socialismo e della libertà, né risolve tutti i problemi dell’uomo, né esaurisce le molteplici dimensioni dell’impegno umano».

Ma fatta questa precisazione, e sottolineata l’esigenza di evitare ogni semplificazione o schematismo, mi pare che, in ogni caso, in certe esaltazioni dell’«individuale» o del «privato», che oggi sono fatte proprie anche da qualche corrente socialista, vi sia più di un riflesso di quell’offensiva neoliberista e neoprivatistica che caratterizza il rilancio di una politica conservatrice e «moderata», mentre in certe affermazioni di parte cattolica a proposito di «primato del sociale» non solo riemerge un’antica tradizione di diffidenza verso lo Stato o il potere civile, ma si manifesta un disegno che proprio sul terreno etico e sociale tende a fondare il rilancio di un ruolo della Chiesa come sola istituzione capace di dare risposta alla crisi dell’uomo del nostro tempo.

Naturalmente, il quadro è molto complesso, e istanze positive si presentano molto spesso intrecciate con posizioni che, invece, non possono non preoccupare e con le quali bisogna confrontarsi a viso aperto e polemizzare.

In questo spostamento di interessi verso il terreno etico e sociale, non c’è però anche un richiamo a problemi che una concezione troppo unilaterale e monocorde dell’impegno politico aveva finito col lasciare troppo da parte?

 In quanto ho detto prima c’è già una risposta implicita − almeno in parte − a questa domanda. Non v’è dubbio che è entrata in crisi anche una visione totalizzante della politica, una tendenza ad appiattire sul terreno politico problemi che non possono trovare risposta esclusivamente (od anche principalmente) su tale piano.

Occorre però guardarsi anche dall’errore opposto: cioè quello di limitare il respiro ideale, culturale, di prospettiva dell’impegno politico. Certo, è un errore che può essere molto pericoloso quello di credere o far credere che la politica o il partito possano costituire una risposta a tutti i problemi dell’uomo, o che sia loro compito creare l’« uomo nuovo»: abbiamo esplicitamente respinto ogni concezione mitologica e totalizzante e anche la concezione del partito come «prefigurazione» della nuova società. Ma errore non meno grave − lo ripeto − sarebbe appiattire l’azione politica sui problemi dell’immediato, sulla pratica del piccolo cabotaggio, sulla routine del giorno per giorno: se si toglie all’impegno politico una proiezione ed una tensione verso l’avvenire, se lo si riduce ai giochi di potere, a iniziative di corto respiro, a diplomatismi, a polemiche o a trattative e intese tra gli esponenti dei partiti, allora è evidente che si contribuisce ad aggravare una crisi di sfiducia e di disorientamento che ha già dimensioni allarmanti.

Al di là di questo ragionamento di carattere generale, occorre però vedere quali limiti di una certa concezione della politica siano messi in luce da questo spostamento di interesse verso il terreno etico o quello sociale. Mi pare chiaro, per esempio, che c’è un problema che subito viene in evidenza: è la crisi di una impostazione dirigistica e centralistica, che negli ultimi anni è apparsa in crescente difficoltà, sia nelle versioni statalistiche dei paesi di indirizzo socialista, sia nelle versioni programmatorie delle socialdemocrazie occidentali. Da destra si cerca di rispondere − come si è visto − con il rilancio di una ideologia liberal-liberista. Ma rifiutare questa ultima posizione non significa però nascondersi i problemi che si pongono alla sinistra: fra questi problemi vi è, certamente, quello di una nuova articolazione del rapporto Stato-individuo-società, nonché quello di approfondire, anche alla luce delle differenti esperienze che a questo riguardo si sono compiute e si compiono, che cosa possano essere esperienze di gestione sociale che non siano imperniate su un accentramento statalistico, come trovare nuovi rapporti tra programmazione e mercato.

Come può esprimersi la peculiarità comunista in ordine a questi problemi, evitando tuttavia ogni pericolo di ricaduta in forme di ideologismo o di affermazioni di un indebito «primato del partito»?

 Non abbiamo norme da tracciare per l’esistenza delle donne e degli uomini, non siamo stati e non vogliamo essere una chiesa. Allo stesso tempo − come ho già detto − una politica che non si ispirasse a idealità profondamente vissute si ridurrebbe a scettico politicismo. In questa esigenza del partito di essere presente anche sul terreno etico e sociale non c’è alcun desiderio di compiere una intrusione nella vita privata del militante, un ritorno, sotto altre forme, a un modello e a un concetto totalizzante della politica: vi è, al contrario, il desiderio di svolgere meglio e più consapevolmente il proprio compito specifico. Ciò significa, per esempio, riuscire ad individuare, per lo sviluppo, finalità che corrispondono ai bisogni nuovi che si manifestano nella società. E la questione della qualità dello sviluppo si impone oggi con sempre maggiore forza. Si impone per la ormai evidente assurdità di perseguire all’infinito i traguardi di uno sviluppo puramente quantitativo − «l’accumulazione per l’accumulazione» che è una legge del capitalismo − e si impone perché, anche quando si vengono in qualche misura soddisfacendo bisogni elementari, sorge il problema di una compiutezza diversa e più alta della esistenza umana. Qui deve rivelarsi la nostra capacità. Non pensiamo certo di possedere noi la ricetta in cui siano indicati i contenuti di un nuovo incivilimento. Ma è nostro dovere saper cogliere ciò che viene via via maturando nella società, nelle coscienze, soprattutto dei giovani.

Non condividiamo alcuna ipotesi di inevitabili catastrofi. Tuttavia, se non si affermerà la capacità di imboccare una strada nuova, i pericoli si annunciano vicini ed enormi. Dinanzi alle difficoltà o alla incapacità di dare risposta alle domande qualitativamente nuove che sorgono in varia misura nelle società contemporanee, la tendenza che sta emergendo è alla chiusura, al ritorno all’indietro, a nostalgie, a recuperare o ripristinare vecchie costumanze e vecchie gerarchie: cioè vecchie discriminazioni e vecchie ingiustizie. Non c’è modo di resistere e di contrattaccare vittoriosamente se le forze di sinistra, e dunque innanzitutto i comunisti, non saranno capaci di farsi interpreti delle domande che oggi si pongono e di corrispondergli con nuovi progetti dai contenuti nuovi.


[1] In A. Tatò, a cura di, Conversazioni con Berlinguer, Editori Riuniti, 1984, pp. 224-238; E. Berlinguer, Un’altra idea del mondo. Antologia 1969-1984, a cura di P. Ciofi e G. Liguori, Editori Riuniti university press, 2014, pp. 219-258.

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