Di Gianni Ferrara intervento al convegno sul tema “Berlinguer e la serietà della politica”, Roma 11 febbraio 2014, organizzato dall’Associazione Futura Umanità, in occasione dell’anno berlingueriano.
Va innanzitutto ricordato che il termine compromesso fu usato negli anni 1948-1950 in polemica col PCI per degradare sia il contributo di questo partito alla ideazione, determinazione e formulazione della Costituzione della Repubblica sia la Costituzione stessa. Suonava come cedimento o come mascheramento. A rispondere provvide Togliatti spiegando che c’era stata “una confluenza di due grandi correnti: del solidarismo umano e sociale della sinistra e del solidarismo di altra origine (cristianosociale)” che arrivava “nell’impostazione e soluzione concreta di diversi aspetti del problema costituzionale a risultati analoghi” della sua parte politica”. Aggiungendo che “definire come compromesso questa confluenza significa non comprendere che si sia trattato di qualcosa di molto più nobile ed elevato e cioè della ricerca di quella unità che è necessaria per poter fare la Costituzione non dell’una o dell’altra ideologia, ma la Costituzione di tutti i lavoratori italiani e, quindi, di tutta la Nazione”. (1) Per quanto poteva poi attenere al termine “compromesso”, Togliatti lo usò immediatamente dopo qualificando “deteriore” quello raggiunto nel formulare alcune disposizioni della Carta costituzionale. (2)
Su tutt’altro piano, sempre riferendomi a Marx, mi preme ricordare che il secondo capitolo del “Manifesto”, quello intitolato “Proletari e Comunisti”, si chiude con la previsione-obiettivo di un tipo di “associazione umana in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti”.
Ebbene, la nostra Costituzione impone alla Repubblica, quindi a tutto lo statoapparato e a tutto lo stato-comunità come unico e supremo compito proprio quello di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. La corrispondenza tra questi due testi è perfetta. Fu voluta. A proporla all’Assemblea costituente italiana fu quel marxista di Lelio Basso concordandola con quell’altro marxista di Palmiro Togliatti. Ma fu accolta e sottoscritta da Dossetti e da La Pira, aderenti al cristianesimo sociale ed esponenti della Democrazia cristiana.
Era quanto mai rigoroso il linguaggio di Togliatti. L’aggettivazione che adoperava non era mai meramente iterativa del significato dei sostantivi cui si riferiva. Si potrebbe supporre perciò che, tra la nobiltà e l’altezza della “confluenza nella ricerca dell’unità per fare la Costituzione ….. di tutta la Nazione” e quello “deteriore”, il compromesso senza aggettivo si collochi in uno spazio mediale, risultando in sé non deprecabile, non ignobile. È certo comunque che come atto, fatto, nozione il compromesso è termine che inerisce alla democrazia. Lo prova una riflessione celebre: “… se la caratteristica procedura dialettico-contraddittoria parlamentare ha un senso … tale senso potrà essere soltanto quello di fare della tesi e dell’antitesi degli interessi politici, in qualche modo, una sintesi … ma questo può significare soltanto una cosa: non … una verità superiore, assoluta, un valore assoluto superiore agli interessi dei gruppi, ma un compromesso”. A definire così il fondamento della democrazia parlamentare fu il massimo dei suoi teorici del secolo scorso, Hans Kelsen. (3)Due espressioni ancora possono connettersi a quella di compromesso. Sono di Marx. Non è improbabile, infatti, che a qualche ipotesi di contrattarlo si potrebbe ricorrere per impedire la “comune rovina” (ovviamente delle classi in lotta) paventata nelle prime righe del “Manifesto”. L’altra espressione è successiva (1875), suona così: “definitiv auszufecheten ist” col soggetto Klassenkampf che ha come complemento, sia di tempo che di luogo, “la repubblica democratica come ultima forma statale della società borghese”. Ebbene fechten, ausfechten significa “tirar di scherma” (4) e tirar di scherma non implica necessariamente l’eliminazione fisica dell’avversario.
2. Affronto ora direttamente il tema. La proposta del compromesso storico di Enrico Berlinguer campeggia in tutti gli anni ’70 della politica italiana. Formulata nelle conclusioni dei tre articoli su “Rinascita” del settembre-ottobre 1973 (5) ridefinì con il ruolo del PCI l’intero sistema politico italiano. Sistema in crisi grave di una democrazia fragile, colpita già dieci anni prima col governo Tambroni e posta poi in pericolo dal disegno golpista del “piano solo” del generale De Lorenzo …. sotto l’alto patrocinio del Presidente della Repubblica, Segni.
Il 12 dicembre 1970 iniziava la stagione dello stragismo con l’attentato di Piazza Fontana a Milano. Nel luglio 1970 era scoppiata la sommossa di Reggio Calabria e due anni dopo fu sventato fortunosamente un attentato contro un treno che trasportava operai di altre Regioni che confluivano in quella città per una grande manifestazione di riaffermazione della legalità repubblicana. Nei primi mesi del 1971 si scoprì il complotto di Valerio Borghese per impadronirsi nientemeno che del Viminale. Forlani, segretario della D.C. riconosceva che la destra aveva tramato e tramava contro la
Repubblica democratica ed aveva referenti non soltanto in Italia ma anche all’estero. (6)
Sarebbe continuata, per tutto il decennio ed oltre, come sappiamo, la tessitura della trama di destra contro la democrazia italiana. Crisi politica e istituzionale, quindi, ma di quelle che potevano coinvolgere i livelli alti del sistema politico istituzionale ma che non a quella stessa altezza soltanto poteva trovare modi e forme del suo superamento. Era molto più profonda, molto più complessa, molto più intensa e coinvolgente. Investiva la società tutta intera. E non soltanto quanto a rapporti economici e di supremazia sociale. Era la cultura, il senso comune, il modo di essere e di rapportarsi che venivano messi in discussione, con forza e senza riserve o limiti o attenuazioni.
Un acuto studioso dei fenomeni sociali scriveva che il «Sessantotto» era “in realtà un periodo durato circa un decennio in cui tutte le contraddizioni dello sviluppo storico italiano si sono concentrate dando luogo a una mobilitazione sociale senza precedenti, non solo per la quantità della partecipazione, ma per la qualità complessiva di tutti i processi così attivati” (7). Molti erano i caratteri comuni che gli attori italiani di questa stagione di crisi, le masse studentesche ed operaie, avevano con quanti agitavano le piazze, le università, e ogni luogo di vita associata non solo dell’Europa ma anche degli Stati uniti.
Peculiare in Italia ed in Europa era poi la tensione al rapporto di alleanza delle masse giovanili con quelle operaie, unite nella più decisa contestazione dell’autoritarismo. Ma la mobilitazione non si esauriva nella sola tensione all’alleanza tra studenti ed operai. Superava di gran lunga la sfera politica-sociale e la estendeva oltre gli ambiti tradizionali. Il primigenio obiettivo della lotta era l’autoritarismo. Lo si poteva riconoscere in una molteplicità di manifestazioni, anche in quelle che tradizionalmente ne sembravano escluse. Perciò, la contestazione – la formula che denominava la lotta – coinvolgeva una enorme estensione di rapporti e si diffondeva senza esclusione di campi e di modi. (8)
Esemplare della complessità della crisi fu l’emergere del femminismo, come fattore attivo e mobilitante della contestazione degli assetti economico-sociali esistenti accanto al movimento operaio e a quello degli studenti. In discussione veniva posto uno dei pilastri fondamentali del tessuto cellulare della società tramandata fino ad allora. Se la
famiglia, che per molti e qualificanti aspetti risentiva ancora e riproduceva forme di chiara ascendenza patriarcale, veniva investita dalla rivoluzione femminile, è nella società che risuonava e si affermava non soltanto la conquista effettiva della parità tra i coniugi ma con essa la rivendicazione dell’autonomia delle donne nel disegnare e praticare le linee dello loro sviluppo singolo come condizione e strumento della partecipazione alla vita dell’unione familiare. L’esplosione della questione femminile comportò anche la conquista di una diffusa libertà sessuale con conseguenze decisive per l’affermazione della laicità della cultura di massa.
Si trattò di un momento importante del processo di modernizzazione del nostro Paese. Crollavano tabù secolari, venivano sconvolti assetti sociali che avevano attraversato indenni processi politici ed economici quali l’unificazione nazionale e la separazione tra Stato e Chiesa cattolica, la stessa affermazione dell’economia industriale, gli sconvolgimenti delle due guerre mondiali.
Aveva però una sua peculiare specificità la crisi italiana degli anni settanta. La contestazione, la lotta degli studenti e degli operai, la mobilitazione ampia e variegata, l’acquisizione di nuovi orizzonti culturali ed etico-sociali avevano dalla loro parte una fonte di legittimazione alta ed incontestabile. Ad ispirarle ed a fomentarle era nientemeno che la Costituzione della Repubblica. È questo un dato trascurato, anzi ignorato dalla storiografia pur ricca e agguerrita su quel decennio. Ma è un dato essenziale. Da venti anni sia nelle scuole e nelle Università, sia nei discorsi che venivano fatti nelle fabbriche, nelle sedi delle organizzazioni sindacali, nelle sezioni dei partiti che si auto-denominavano “della classe operaia” ricorrevano i riferimenti specifici al diritto di ogni lavoratore – diritto, si badi – ad una retribuzione proporzionata alla quantità ed alla qualità del suo lavoro ed in ogni caso, – si badi: in ogni caso – sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa, (art. 36 Cost) al diritto della donna lavoratrice agli stessi diritti ed a parità di prestazione le stesse retribuzioni dei lavoratori ed, in più, a condizioni di lavoro che ne consentano, se madre, una protezione speciale. Non sto ad elencare gli altri diritti. Ho già citato l’articolo 3, quello scritto da Lelio Basso sottoscritto da Togliatti il cui contenuto, mobilitando uomini e donne, menti e cuori di tutto il mondo, preconizzava una società nella quale “il libero sviluppo di ciascuno sarebbe stata la condizione per il libero sviluppo di tutti”.
3. A questa crisi rispondeva la proposta del “compromesso storico”di Berlinguer. Credo che a sintetizzarne il contenuto, la portata e il fine storico-politico è il seguente passo del rapporto che pronunziò il 10 dicembre 1974 al Comitato centrale dedicato alla preparazione del XIV Congresso del PCI: “Occorre una profonda trasformazione della direzione politica, il concorso di forze nuove, di riconosciuta serietà e fedeltà agli interessi del popolo … Ciò vuol dire che si deve realizzare una partecipazione delle classi lavoratrici, e di tutte le loro formazioni di massa e politiche più rappresentative,
alle decisioni fondamentali della politica nazionale e al controllo della loro attuazione….
Le novità che si verrebbero via via affermando – nei rapporti di produzione, nella distribuzione del reddito, nelle forme di consumo e nelle abitudini di vita, nella natura del potere, attraverso le riforme sociali, la pianificazione di rilevanti settori economici e l’estensione della vita democratica – introdurrebbero nell’assetto e nel funzionamento generale della società alcuni elementi che sono propri del socialismo”. (9) (corsivo mio)
Che partisse questa proposta politica di lungo respiro dalla constatazione della riflessione sui fatti del Cile è più che noto. Altrettanto noto è che Berlinguer ne traesse conseguenze di carattere generale sia quanto a forza, a disegno complessivo e ad effetti di “sopraffazione e jugulazione economica e politica” (10) dell’imperialismo incentrato negli Stati Uniti, sia quanto a specifiche conseguenze da trarre per l’azione politica da svolgere in Italia, mirando sul piano internazionale alla distensione e sul piano nazionale alla trasformazione democratica della società e dello stato italiano (11). Meno nota e soprattutto trascurata, più o meno intenzionalmente, è stata, ed è ancora, la connotazione che veniva impressa nell’azione proposta con la strategia che aveva assunto quel nome. Ci si riferisce alla connotazione unitaria del progetto, che infatti fu motivata addirittura con la necessità di “fare i conti con tutta la storia d’Italia e tutte le forze storiche (di ispirazione socialista, cattolica o di altre ispirazioni democratiche) che erano presenti nella scena … e che si battevano … per la democrazia, l’indipendenza del paese e per la sua unità” (12).
Si aggiunga inoltre che, nell’affrontare la questione della forza politica necessaria per gli obiettivi della democratizzazione dell’Italia, si liquidava la presunzione che potesse essere sufficiente la maggioranza parlamentare che ordinariamente assicura la dinamica statale. Non si trattava di un programma di governo, impegnativo quanto si vuole, ma solo di ordinaria rilevanza politico-parlamentare. Si trattava di altro.
Dell’avvio di un processo storico mirante alla transizione da una formazione economico-sociale ad un’altra. Altro che alternanza tra omologhi partiti politici, altro che …. quinquennale avvento del socialismo e quinquennale restaurazione del capitalismo. I liberaldemocratici non compresero e non comprendono che il gioco, da loro tanto amato, dell’altalena tra le parti politiche per concorrere al governo dell’esistente definisce solo una fase storica della democrazia, non il suo compimento.
Ritenerlo tale è come affermare che sarebbe stato possibile, tra Settecento ed Ottocento, alternare governo assoluto e governo rappresentativo. Ben più impegnativo invece era il compito, molto più alta la fase della democrazia che il compromesso storico mirava ad istaurare. Scrisse infatti Berlinguer (13) che sarebbe stato illusorio pensare che nell’ipotesi che i partiti e le forze di sinistra avessero ottenuto il 51 per cento dei voti e con essi la maggioranza dei seggi in Parlamento, pur segnando tale risultato un grande passo avanti nei rapporti di forza, sarebbe stato sufficiente a garantire la sopravvivenza di un governo fondato su quel 51 per cento. Ribadiva certo la necessità di un’ampia intesa a sinistra – giudicava “essenziale la componente socialista”, considerava “insostituibile il peculiare ruolo positivo suo” (14) -come fondamento di una forza capace di determinare il cambiamento di cui il Paese aveva bisogno, un cambiamento però che doveva essere evidentemente di grande portata storica, e che perciò andava perseguito con “la collaborazione e l’intesa delle forze politiche di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica”, (15) perciò un”compromesso storico” tra le forze rappresentative della “grande maggioranza del popolo”. (16)
4. Perfetta coincidenza rivelava questa proposta di Berlinguer con quella degli “equilibri più avanzati” che Francesco De Martino, leader del Partito socialista, aveva motivata nella seduta del Comitato centrale del novembre 1970. (17) De Martino definiva “minaccioso e torbido” il clima di quel periodo, che, proprio perché tale “poneva pur sempre ai socialisti il dovere di garantire maggioranze democratiche e di predisporre insieme il superamento del centro-sinistra, che ormai appariva molto in ritardo sui tempi”. (18)
Il P.S.I. era al governo con De Martino vicepresidente del Consiglio e non era certo carente di risultati positivi l’impegno governativo dei socialisti se nel maggio del 1970 entra in vigore la legge contenente lo Statuto dei lavoratori, la più grande conquista legislativa del movimento operaio nella storia della Repubblica, elaborata dal ministro socialista Giacomo Brodolini con la collaborazione del giurista socialista Gino Giugni. Non era senza risultati positivi tale impegno se permise di ottenere che si attuasse l’ordinamento regionale, si avviasse la riforma sanitaria iniziando da quella ospedaliera, che si raggiungesse l’accordo con la Democrazia cristiana per un’altra conquista civile, con lo scambio divorzio-referendum, che consentì sia l’approvazione della legge sul divorzio sia l’attuazione dell’istituto costituzionale del referendum. Non di minore importanza fu l’amnistia per i reati dell’autunno caldo con cui si riuscì ad escludere che sui lavoratori e sui sindacalisti si riversasse la reazione per la grande mobilitazione collettiva che aveva, in quell’autunno, aperto la via alle conquiste sociali raggiunte dalla lotta operaia e dalla politica istituzionale della sinistra sia che fosse col PSI al governo sia che fosse col PCI e col PSIUP all’opposizione. Ne seguirono altre come quelle sull’interruzione della gravidanza, i consultori, l’equo canone, la conquista delle 150 ore per i corsi di formazione dei lavoratori, l’obiezione di coscienza, il diritto di famiglia, il voto ai diciottenni, la riforma della televisione di stato. Certo, le riforme realizzate non comprendevano tutte quelle necessarie per soddisfare l’incalzante domanda sociale di intaccare l’ordine economico-sociale capitalistico.
La proposta, la scelta di una politica mirante a realizzare “equilibri più avanzati” derivava appunto da una “visione più generale ed organica avente come fine la partecipazione attiva di una grande forza popolare, come era il partito comunista e come sarebbe stato nel futuro, alla costruzione di una democrazia sempre più dinamica, tale da predisporre realmente le condizioni per un graduale passaggio al socialismo”. (corsivo mio) (19)
5. “Elementi propri del socialismo” scriveva Berlinguer; “graduale passaggio al socialismo” pensava De Martino. Queste espressioni erano tali da preoccupare la D.C. ? Non erano scritte nell’art. 3 della Costituzione e non erano state volute e sottoscritte anche dai La Pira, dai Dossetti, dai Fanfani, dai Moro, dai Lazzati.? Se consonanti, e addirittura testualmente corrispondenti, erano le posizioni di Berlinguer e di De Martino, tali da rivelare una comune concezione etico-politica e, di certo, un analogo punto di vista sia sulla crisi degli anni settanta che sul modo come affrontarla per conseguire una consistente accelerazione del processo di democratizzazione del nostro Paese, più complessa ed incerta è la risultante di una comparazione di queste due posizioni con quella di Moro. Il leader democristiano che era, del pari, coinvolto idealmente, culturalmente e politicamente nello sforzo di fornire risposte adeguate alla profondità della crisi e tali da volgerla al consolidamento e allo sviluppo della democrazia in Italia.
Non c’è dubbio sulla comune e maturata consapevolezza della gravità della crisi. Già agli inizi del sommovimento del ’68, nel novembre di quell’anno, al Consiglio nazionale del suo partito, Moro avverte che “tempi nuovi si annunciano ed avanzano in fretta come non mai”. E li intravede nel “vorticoso succedersi delle rivendicazioni, la sensazione che storture, ingiustizie, zone d’ombra, condizioni d’insufficiente dignità e di insufficiente potere non siano oltre tollerabili, l’ampliarsi del quadro delle attese e delle speranze dell’intera umanità, la visione del diritto degli altri, anche dei più lontani da tutelare non meno del proprio, il fatto che i giovani, sentendosi ad un punto nodale della storia, non si riconoscano nella società in cui sono e la mettono in crisi, sono tutti segni di grandi cambiamenti e del travaglio doloroso nel quale nasce una nuova umanità.” (20). Ma è un anno dopo, nel giugno del 1969, all’XI Congresso della DC, che Moro modifica radicalmente il punto di vista democristiano sul partito comunista. È in quel Congresso che riconosce la possibilità che il P.C.I. per le “profonde innovazioni alle quali tende” secondo il suo giudizio poteva “costituire un momento, per sua natura reversibile, della determinazione di un certo assetto politico e sociale”. Certo, rileva contestualmente che sono “non sempre chiaramente definite” queste innovazioni, ma le riconosce come capaci di modificare positivamente il sistema politico italiano. E fa qualcosa di più che riconoscere queste innovazioni. Richiama il contesto internazionale nel quale si era determinata la rottura del monolitismo del “campo socialista” ed avanza la previsione di un “inevitabile ripensamento promosso … dallo spirito critico, dall’evoluzione sociale e politica, dal confronto con l’Occidente, dall’insufficienza intellettuale e morale di ogni dogmatismo e conformismo”. Pone come decisiva la questione dell’autonomia del P.C.I. dall’URSS. Carica questa possibilità, questa prospettiva, di un potenziale decisivo ai fini dello sviluppo del sistema politico e della democrazia italiana.
Afferma che “solo nell’autonomia è ipotizzabile che un umanesimo marxista, benché in strutture economiche, sociali e politiche dissimili dalle nostre, possa trovare un modo di attuazione appunto con lineamenti umani e perciò diverso da quello inaccettabile che ci è offerto dall’esperienza storica.” (21) C’era rispetto per quel che l’autonomia avrebbe prodotto e forse qualcosa di più. Si noti, infatti, che, per indicare le strutture ipotizzabili di un “umanesimo marxista” – espressione che non poteva non allarmare, e non sappiamo quanto e con quali conseguenze, il Dipartimento di stato USA, il Pentagono, la CIA – Moro usa il termine “dissimili” che non contiene alcuna intonazione negativa, intonazione che è invece nella qualificazione “inaccettabile” usata per qualificare le strutture realizzate in URSS. Si noti poi che, anche se di altra matrice, è sempre all’umanesimo, quello cristiano, che si richiama la cultura e l’ispirazione personalistica (E. Mounier, J. Maritain) dei cattolici democratici. Si noti anche l’insistenza sull’autonomia che auspica per l’avvenire del P.C.I. come “possibilità di considerare di per sé, per quelli che sono, gli interessi nazionali e definire la politica interna ed estera dello Stato.” (22) Si noti soprattutto che nella stessa occasione, nel definire la “strategia dell’attenzione” ebbe a precisare che non avrebbe dovuto trattarsi di “un’attenzione tutta recettiva, perché anche per questa via si promuovono responsabili decisioni, si eccita una risposta penetrante e persuasiva, si esalta l’autonomia dell’azione politica e di governo, la quale ….. deve essere sintesi intelligente di tutto quel che fermenta e tende ad affermarsi nella vita sociale e politica.” (23)
Questa straordinaria comprensione della profondità e complessità della crisi non riesce però a specificarsi come proposta di soluzione politica che vada oltre il centrosinistra, la formula di governo che De Martino aveva considerato superata già nel 1970. (24) Neanche col discorso del 20 luglio 1975, a commento delle elezioni amministrative del 22 maggio e del 15 giugno, col discorso cioè della “terza fase” (25) emerge una qualche indicazione della valenza di detta fase sul piano istituzionale, dei riflessi che ne dovevano scaturire. C’è allora da domandarsi: in che modo credeva che dovesse configurarsi sul piano politico la “nuova fase”? Preannunciava forse “equilibri più avanzati” della formula di governo, l’avvio del “compromesso storico” o di qualche altra definizione della fase storico-politica: l’alternanza tra i due maggiori partiti? (26) Credeva che sarebbe bastata?
6. Non si può omettere di considerare che incombeva sull’Italia, come su tutto l’Occidente e sull’Oriente, la guerra fredda. Si devono considerare quindi le conseguenze che ne derivavano. Non è affatto fantasiosa la congettura che Moro temesse l’opposizione degli Stati Uniti ad una soluzione della crisi italiana che comportasse una maggioranza parlamentare e un governo cui partecipasse il P.C.I. Nixon e Rogers, nel febbraio 1971, non avevano forse messo in guardia il Presidente del Consiglio Colombo, in visita alla Casa Bianca, dal seguire una strada analoga a quella che in Cile aveva portato ad un governo di sinistra guidato da Allende? (27) Moro non poteva non sapere di questo “avvertimento”. Non poteva non tener conto degli altri condizionamenti di carattere economico interni ed internazionali. I condizionamenti interni che, nel 1971, avevano indotto il Governatore della Banca d’Italia, Carli, a parlare addirittura dello “sciopero dei capitali” in occasione di un calo vistoso ma non drammatico degli investimenti. I condizionamenti esterni, derivanti dalla debolezza del sistema economico italiano, una costante ininterrotta, anche se non fatale. Visto che agli effetti delle lotte operaie si rispondeva con la “combinazione di inflazione–fluttuazionesvalutazione che mentre sembra[va] dare spazio alla rincorsa retributiva, in realtà riduce[va] drasticamente la possibilità di utilizzazione politica della forza conquistata dagli operai di fabbrica, rendendo più pesante il condizionamento estero e alzando la soglia dello scontro: l’ambito dell’intervento da attuare per attivare una trasformazione e avviare una modifica delle linee di sviluppo diventava ancora più ampio e profondo” (28).
Ma all’inizio del 1973 si ebbe la crisi definitiva del mercato monetario internazionale e la rottura del sistema dei cambi fissi. Ne conseguì la libertà di movimento dei capitali e con essa la creazione delle condizioni per la vittoria planetaria del liberismo determinata, appunto, dalla liberazione dei capitali stessi dai vincoli dello stato sociale, cioè dai vincoli della democrazia. Fu considerata, fu avvertita, fu percepita questa svolta del secolo in direzione altra rispetto al trentennio precedente, quello degli “anni d’oro”, secondo Eric J. Hobsbawm? (29)
7. Uno scatto della genialità politica avrebbe potuto però neutralizzare i condizionamenti politici ed economici ed anche quelli derivanti dalla svolta dell’economia mondiale prima che la forza della scelta di politica monetaria di Nixon dispiegasse tutta la sua potenzialità. La proposta degli equilibri più avanzati conteneva infatti una clausola decisiva di garanzia nei confronti dell’Alleanza atlantica con la presenza del PSI oltre che della DC nella maggioranza e nel governo. La stessa garanzia, quanto a valenza sociale, veniva prestata nei confronti dell’insediamento di classe e della maggioranza dei lavoratori, la partecipazione al governo del PCI. Avrebbe potuto, forse, rappresentare anche un’alternativa al trionfo successivo del “pensiero unico” tradottosi nel principio istituzionale affermatosi come dominante, incalzante, esclusivo in Occidente ed esplicitato nell’ordinamento europeo con la formula “economia di mercato aperta ed in libera concorrenza”. E chissà, se non anche una possibilità per l’Est, di scegliere un’alternativa alla resa ed alla capitolazione agli spiriti animali del capitalismo. Ben sappiamo però che la storia non si fa con i “se”, che sono però utili per giudicarla.
8. La tragedia del 16 marzo-9 maggio 1978 negò ogni possibilità di risposta al quesito relativo alla proiezione della ”terza fase” sul piano politico-istituzionale, soprattutto ogni possibilità che la terza fase si realizzasse e con essa gli equilibri più avanzati e il compromesso storico. Precluse in realtà che “elementi propri del socialismo si introducessero nel funzionamento generale della società”, che si avviasse “il graduale passaggio al socialismo”. Determinò anche le condizioni perché il sistema politico formatosi con la Resistenza e la Guerra di liberazione si incanalasse verso la catastrofe. Effetti tutti che Berlinguer aveva temuto. Aveva perciò proposto col compromesso storico il modo di sventare i pericoli che correva la Repubblica, la cui identità, nella fase più alta della storia d’Italia, era stata disegnata in quella Costituzione che conteneva la “rivoluzione promessa”30. Mirava alto Berlinguer: alla promessa da adempiere, alla rivoluzione da compiere.
intervento al convegno sul tema “Berlinguer e la serietà della politica”, Roma 11 febbraio 2014, organizzato dall’Associazione Futura Umanità, in occasione dell’anno berlingueriano
NOTE
2 Ibidem.
8 C. Donolo, op. cit., 405 e s.
10 E. Berlinguer, op. cit., 610.
11 E. Berlinguer, op. cit., 616, 618, 625.
12 E. Berlinguer, op. cit. 619.
14 E.Berlinguer, op. cit. 647.
15 E.Berlinguer, op. cit. 634-635.
16 E.Berlinguer, op. cit. 637 e ss.
18 Ibidem.
21 A. Moro, Scritti e discorsi, vl. quinto: 1969-1973 (a cura di G.Rossini) Roma, 1988, 2783
23 Ibidem, 2786.
24 Cfr. l’intervento del 30 settembre 1971 al Consiglio nazionale, ibidem, 2879, il discorso elettorale a Mestre e a Brescia del 23 aprile 1972, ibidem , 2910.
25 Cfr. A. Moro, Scritti e discorsi, v. sesto: 1974-1978, (a cura di G. Rossini) Roma, 1990, 3335 e ss. (l’espressione terza fase è a p. 3345)
26 Sul significato dell’espressione “terza fase” cfr. R. Ruffilli, Il Sistema politico italano: la terza fase nel pensiero di Aldo Moro in Appunti di cultura e politica, marzo-aprile 1982 e P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia italiana (1945-1990), Bologna, 1991, 369 e ss.
28 Cfr. F. De Felice, L’ Italia repubblicana. Nazione e sviluppo Nazione e crisi. (a cura di L. Masella) Torino, 2003, 156.
29 Il secolo breve, Milano, 1994, 303.