Di Guido Liguori
Se si pensa al tema “Gramsci interprete del fascismo”, il primo pensiero va probabilmente agli articoli gramsciani dei primi anni Venti, giustamente famosi. Quando, a partire dal 1921, il fascismo diventa un fenomeno di rilievo – scatenando in Italia (con i soldi di agrari e industriali e con la protezione e l’aiuto della polizia e dell’esercito) una guerra civile contro i lavoratori e le loro associazioni sindacali e politiche – il giovane dirigente del Partito comunista d’Italia dedica al fascismo analisi in presa diretta che colpiscono per acutezza. Egli non è sul ponte di comando del neonato partito comunista né concorda su come esso sia nato e su come Bordiga lo dirige: Gramsci è a Torino, dove dirige invece uno dei tre giornali del Pcd’I, «L’Odine Nuovo», divenuto quotidiano dal 1° gennaio 1921.In qualità di acuto osservatore della vicenda politica italiana, oltre che come dirigente comunista, Gramsci si applica alla lettura del nuovo fenomeno rappresentato dal fascismo e dallo squadrismo.
Le interpretazioni del fascismo non erano unanimi nel comunismo italiano. Il vero “capo” del Partito, Bordiga appunto, non vedeva nessuna differenza fondamentale tra il fascismo e le altre forme di governo borghese. Una interpretazione miope e settaria, che fu una delle cause del contrasto con l’Internazionale comunista, che nel 1924 avrebbe portato Gramsci a diventare Segretario del Pcd’I; e che impedì persino che i comunisti – al contrario di quanto desiderava Gramsci1 – si unissero agli Arditi del popolo, un movimento unitario di antifascisti di diversi partiti che cercarono di fermare gli squadristi con le armi, e che furono sconfitti solo grazie all’intervento dell’esercito a fianco delle camice nere.
Gramsci osserva e studia dunque in presa diretta il nascere e l’affermarsi del fenomeno fascista. Ciò lo porta anche a errori di valutazione, a previsioni errate, ma complessivamente l’analisi che egli mette in campo è piena di osservazioni che ancora adesso aiutano lo storico a comprendere la nascita del movimento fascista, le sue modificazioni, i motivi del suo successo.Sapendo che gli interventi di Gramsci non erano solo analitici, da “studioso”, ma avvenivano nella temperie drammatica e nella posizione di chi il fascismo voleva cercare di combatterlo e lo combatteva, a rischio della vita. Gramsci si interessa al fascismo fin dal suo primo manifestarsi. Già nell’aprile 1920, in un documento scritto a nome della Sezione socialista torinese noto con il titolo Per un rinnovamento del partito socialista (documento esplicitamente apprezzato da Lenin) il rivoluzionario sardo aveva scritto parole profetiche:
La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che precede: o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario per il passaggio a nuovi modi di produzione … o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria e della casta governativa. Nessuna violenza sarà trascurata per soggiogare il proletariato industriale e agricolo a un lavoro servile: si cercherà di spezzare inesorabilmente gli organismi di lotta politica della classe operaia (Partito socialista) e di incorporare gli organismi di resistenza economica (i sindacati e le cooperative) negli ingranaggi dello Stato borghese2.
Si tratta di un giudizio che oggi colpisce per la sua precisione: la sconfitta del movimento socialista nel “biennio rosso” 1919-1920 significò esattamente il salire alla ribalta dello squadrismo. Gramsci in questi anni parte – bisogna specificarlo – da un giudizio fortemente critico anche verso la democrazia italiana del tempo, dominata da Giolitti e da altri esponenti liberali incapaci di comprendere i nuovi fenomeni della società di massa. Del resto, nel 1921, i fascisti furono inseriti nei Blocchi Nazionali, aggregazione elettorale guidata da Giolitti. Solo grazie a questo escamotage i fascisti e lo stesso Mussolini riuscirono a entrare per la prima volta in Parlamento.
Gramsci è attento soprattutto a cogliere le novità del fenomeno fascista. In primo luogo ne traccia una analisi in termini di classe, secondo i dettami del marxismo, senza però cedere all’ottica economicistica e deterministica di Bordiga. A inizio del 1921 Gramsci parla dei fascisti come del «popolo delle scimmie»3, alludendo a una novella di un autore inglese da lui molto amato, Kipling, autore del Libro della giungla. Col termine «popolo delle scimmie», Gramsci indica il ruolo della «piccola borghesia urbana», il cui «processo di sfacelo» era – egli dice – già iniziato da tempo: cercando disperatamente di riconquistare le prestigiose posizioni di un tempo, la piccola borghesia «scimmieggia la classe operaia – scrive Gramsci –, scende in piazza»4, lotta anche con le armi, si dice rivoluzionaria.
L’apparenza rivoluzionaria del fascismo, la sua fraseologia antiborghese, le stesse idee in origine socialiste di Mussolini o quelle sindacaliste-rivoluzionarie di altri fascisti della “prima ora”, vengono dunque ricondotte alle difficoltà di una classe che vedeva minacciati i propri privilegi di fronte all’avanzata delle masse lavoratrici. Gramsci è consapevole di come le istituzioni “liberali” aiutino l’affermazione del fascismo più violento e lo denuncia l’11 giugno 1921 nell’articolo Socialismo e fascismo5.
Il fine immediato del fascismo è per Gramsci fin da ora chiaro: «il possesso del governo politico» da parte del movimento di Mussolini. È un «sovversivismo reazionario», scrive Gramsci, con una definizione destinata a rimanere nella storia, che usa la fraseologia del «blanquismo». Ma Mussolini, nota Gramsci, di questo teoria politica non aveva colto che la parte più superficiale6. È estremamente interessante l’analisi differenziata che Gramsci fa dei «due fascismi»7, agrario e cittadino, il cui contrasto esplode in occasione del “patto di pacificazione” che Mussolini stipula coi socialisti nell’estate 1921.
Mentre il fascismo cittadino e lo stesso Mussolini sono propensi a “istituzionalizzarsi”, a rientrare nei ranghi della democrazia parlamentare liberale, il fascismo agrario, delle campagne, è molto più feroce e determinato a vincere tutto, a sbaragliare ogni avversario che voglia anche solo limitare il suo dominio. La paura sviluppata dalla classe possidente la spinge a usare i fascisti in opere di devastazione e crudeltà senza precedenti.I grandi padroni terrieri e i capi fascisti da loro manovrati (quando i secondi non erano addirittura figli dei primi) mettono in discussione la stessa leadership di Mussolini. Tanto che quest’ultimo fa marcia indietro, rinnega il patto di pace coi socialisti e diviene nuovamente il capo indiscusso del partito.
In questo articolo dell’agosto 1921 sui «due fascismi», Gramsci sbaglia la previsione per cui «dalla crisi il fascismo uscirà scindendosi»8. Ma resta la constatazione esatta per cui «il fascismo, quello vero», è il più violento e destinato a continuare a ogni costo.Quando ha luogo la “marcia su Roma” (28-30 ottobre 1922) Gramsci ha già sviluppato da tempo una sua idea del fascismo, sia pure una idea che va evolvendosi con l’evolversi della situazione.
La conquista del potere governativo da parte degli squadristi lo coglie a Mosca, dove rappresenta il suo partito presso l’Internazionale comunista. Egli ne scrive a caldo sulla “Pravda”, l’organo del partito bolscevico, il 7 novembre 1922, nell’occasione solenne del quinto anniversario della Rivoluzione d’ottobre, e ancora ne scrive in implicito contrasto con la sottovalutazione bordighiana del fenomeno fascista. Un ulteriore passo in avanti nella analisi gramsciana del fascismo sarà compiuto nelle Tesi di Lione del 1926, documento scritto congiuntamente da Gramsci e Togliatti, quando il fascismo sta ormai divenendo regime. In esso si avanza la famosa definizione per cui il fascismo si propone di «realizzare una unità organica di tutte le forze della borghesia in un solo organismo politico sotto il controllo di una unica centrale che dovrebbe dirigere insieme il partito, il governo e lo Stato»9. Siamo alla dittatura. Il fascismo, dunque, è riuscito a dare alla borghesia italiana una unità politica che mai prima essa aveva avuto. In ciò sta, secondo Gramsci, il motivo di fondo della sua affermazione.
Nei Quaderni del carcere, l’opera che Gramsci compone tra il 1929 e il 1935 come serie di appunti non destinati per l’autore alla pubblicazione, le cose cambiano. Mentre negli anni Venti Gramsci cerca di capire il nuovo fenomeno che ha mobilitato la piccola borghesia in funzione antipopolare, e ne segue l’evoluzione fino alla fine della democrazia. Negli anni Trenta in carcere egli guarda al fascismo che si è fatto Stato, e riconsidera il fascismo sotto una luce diversa.
Gramsci in carcere parla del fascismo attraverso molte categorie, molte parole-chiave: categorie anche molto note, come quella di cesarismo, o quella di parlamentarismo nero. Tuttavia la categoria dei Quaderni del carcere più importante tra quelle elaborate da Gramsci a proposito del fascismo è senza dubbio la categoria di rivoluzione passiva, che oggi è molto nota e usata in tutto il mondo, a volte anche un po’ a sproposito. Cerchiamo di capire cosa voglia dire.
Il termine rivoluzione passiva Gramsci lo prende da un noto intellettuale molisano, Vincenzo Cuoco, che aveva scritto a inizio ’800 il famoso Saggio sulla rivoluzione di Napoli del 1799. Ma Cuoco non aveva inventato l’espressione, che risaliva addirittura a un rivoluzionario inglese trapiantato in America, Thomas Paine, che aveva combattuto con Washington nella Rivoluzione americana e poi si era trasferito a Parigi e aveva scritto numerosi libri rivoluzionari di grande successo. Tanto che erano arrivati anche nel Regno di Napoli (e dunque fino a Cuoco). Non insisto su questi aspetti, anche perché l’espressione “rivoluzione passiva” già cambia significato da Paine a Cuoco, ma poi ancora assume significato nuovo e del tutto originale in Gramsci.
Cosa significa allora “rivoluzione passiva” nei Quaderni del carcere e come mai Gramsci la usa a proposito del fascismo? In Gramsci “rivoluzione passiva” indica una situazione storica nella quale i cambiamenti vengono guidati dall’alto, dalle classi borghesi, che fanno ciò che reputano ineluttabile, cioè dei cambiamenti profondi a livello economico e politico, e non li lasciano fare alle classi popolari. Che dunque restano passive. Dunque “rivoluzione” nel senso di cambiamento profondo, ma “passiva” perché le masse popolari, le classi subalterne non sono, non devono essere protagoniste di tale processo.
Da un altro punto di vista si può dire – lo dice lo stesso Gramsci – che la “rivoluzione passiva” è un cambiamento che non avviene in modo veramente rivoluzionario, ma in modo “riformistico”. Gramsci dice che è un cambiamento che avviene «a piccole dosi, legalmente, riformisticamente» (Q 10 I, 9, 1227). Proprio allo scopo appunto di salvaguardare le posizioni politiche ed economiche delle vecchie classi dominanti.
Inizialmente Gramsci usa questa categoria a proposito del Risorgimento italiano: i Moderati guidati da Cavour – egli scrive – erano riusciti a creare l’unità d’Italia (che era un bisogno concreto della borghesia piemontese e lombarda) cercando di non coinvolgere le masse contadine, il popolo. Perché avevano ancora negli occhi quello che era successo in Francia (la Rivoluzione Francese è per Gramsci proprio un esempio tipico di rivoluzione attiva). Cioè i Moderati avevano paura di scatenare un processo rivoluzionario che potesse diventare pericoloso anche per la borghesia, che potesse diventare una rivoluzione autenticamente popolare. Preferirono l’alleanza con una parte delle vecchie classi feudali: preferirono cambiare la realtà politico-sociale, ma tenendo in posizione subalterna le componenti più avanzate dello stesso schieramento borghese, oltre ai contadini e al popolo.
In un primo tempo Gramsci usa la categoria di “rivoluzione passiva” in relazione al Risorgimento. Poi però, nel corso dei Quaderni, Gramsci inizia ad applicare questa “rivoluzione passiva” anche a fenomeni del Novecento, a fenomeni a lui contemporanei. Ovvero al fascismo da una parte e all’americanismo, allo sviluppo peculiare del nuovo capitalismo americano, dall’altra. Questa del 900 è una rivoluzione passiva diversa da quella di cui Gramsci aveva parlato a proposito del Risorgimento. Lì si trattava di vedere come avveniva il passaggio di potere da una classe a un’altra, dalla nobiltà alla borghesia. Nel ’900 si trattava di capire il cambiamento che avviene nell’ambito dell’egemonia di una stessa classe: la borghesia, che deve trovare nuovi modi di perpetuare il suo predominio.
Veniamo al fascismo. In che senso Gramsci usa la categoria di “rivoluzione passiva” a proposito del fascismo? Cosa intende dire? Il fascismo su cui Gramsci riflette in carcere non è più lo squadrismo. Non è più il movimento che agisce incendiando, uccidendo, manganellando.
A inizi anni Trenta il fascismo è un Regime, una dittatura consolidata. Ha fatto il Concordato col Vaticano, ha grande prestigio all’estero e limitate zone di resistenza all’interno. E agisce non solo con il carcere e la repressione. Il fascismo sta anche cambiando il tipo di Stato e di società che vi era prima della sua affermazione, al tempo del liberalismo, della zoppicante democrazia liberale.
Gramsci comprende, pur nel chiuso di un carcere fascista, che il fascismo al potere non è solo repressione, ma è anche un agente di cambiamento, di trasformazione, di ammodernamento della società e dell’economica italiane. Il fascismo per Gramsci (e direi storicamente) è una risposta, una imitazione-deformazione di quella rivoluzione attiva che era stata la Rivoluzione d’ottobre, come il Risorgimento era stato una imitazione-deformazione di quella rivoluzione attiva che era stata la Rivoluzione francese.
In che senso il fascismo cambia (tramite lo Stato nuovo che costruisce) la società e l’economia italiane? Sul versante del cambiamento della società, nel senso che organizza le masse, capisce che la società di massa non poteva essere governata con i vecchi strumenti della società liberale. Ecco allora le diverse organizzazioni in cui la popolazione viene inquadrata, disciplinata: il Partito Nazionale Fascista, il Sindacato unico, i balilla, le Giovani Italiane, ecc., tutti organismi ai quali ci si deve iscrivere quasi in modo obbligato. Ed ecco poi gli strumenti previdenziali concessi, o potenziati ed estesi. Ecco l’opera maternità e infanzia, ad esempio. Ecco il corporativismo, un tentativo di sostituire al Parlamento una rappresentanza non parlamentare degli interessi, che poi finisce nel nulla, ma che Gramsci segue con grande attenzione perché comunque desta aspettative nello stesso mondo del lavoro.
Lo scopo del nuovo Stato fascista che Mussolini e i suoi intellettuali si mettono a costruire è un’opera di trasformazione assolutamente necessaria per il capitalismo, indirizzata a riformare profondamente la società e l’economia. Una volta al potere, il fascismo inizia la costruzione di uno Stato nuovo, post-liberale e post-liberista.
In un famoso discorso del 1927 (il Discorso dell’Ascensione), Mussolini pronuncia ad esempio queste parole, abbastanza illuminanti:
«o voi immettete il popolo nella cittadella dello Stato, ed egli la difenderà; o sarà al di fuori, ed egli l’assalterà».
Questo è l’insegnamento della Rivoluzione d’ottobre del 1917, che egli giustamente coglie. A esso la borghesia doveva rispondere se voleva evitare la rivoluzione. Il fascismo fu parte di questa risposta. La “rivoluzione passiva” è proprio questo tentativo di operare non solo con la repressione, ma per ammodernare la struttura produttiva con l’intervento dello Stato, e organizzando attivamente le masse per farle restare passive politicamente, potremmo dire. Parimenti in economia, dopo la crisi di Wall Street, vi fu l’intervento dello Stato, un tentativo di razionalizzare la produzione, e la finanza, con l’invenzione dell’IRI, il salvataggio delle grandi banche, ecc.
Permettetemi di riportare solo un passo di Gramsci, in cui questa rivoluzione passiva rappresentata dal fascismo è spiegata molto chiaramente. Scrive Gramsci:
«si avrebbe una rivoluzione passiva nel fatto che per l’intervento legislativo dello Stato e attraverso l’organizzazione corporativa, nella struttura economica del paese verrebbero introdotte modificazioni più o meno profonde per accentuare l’elemento “piano di produzione”, verrebbe accentuata cioè la socializzazione e cooperazione della produzione senza per ciò toccare (o limitandosi solo a regolare e controllare) l’appropriazione individuale e di gruppo del profitto.
Nel quadro concreto dei rapporti sociali italiani questa potrebbe essere l’unica soluzione per sviluppare le forze produttive dell’industria sotto la direzione delle classi dirigenti tradizionali, in concorrenza con le più avanzate formazioni industriali di paesi che monopolizzano le materie prime e hanno accumulato capitali imponenti» (Q 10, 9, 1228).
Dunque: razionalizzazione della produzione, ma garantendo il profitto capitalistico. Stato fascista come agente di trasformazione e insieme (ma non solo) di conservazione. Corporativismo come tentativo di nuova organizzazione della società e dello Stato, Ammodernamento – mediante dirigismo statale – dell’apparato produttivo. Questo nuovo rapporto tra politica ed economia che il fascismo realizza in Italia, era una oggettiva necessità (per superare le ricorrenti crisi, sempre più catastrofiche, del capitalismo, come aveva predetto Marx). Era un tentativo di rinnovamento del capitalismo che in modi diversi si attua in tutto il mondo, e prosegue lungo larga parte del Novecento: il comunismo in Unione Sovietica, le socialdemocrazie nel nord Europa, il New Deal negli Stati Uniti, i fascismi: sono tutti esempi del nuovo rapporto tra economia e politica, del nuovo intervento della politica, dello Stato, nell’economia, resosi necessario nel Novecento. Certo il fascismo era la variante peggiore di questo superamento del liberismo, anche per il tipo di paese arretrato che era l’Italia: era la variante legata alla repressione. Ma non si esauriva solo nella repressione.
Perché questo discorso è interessante, riguarda anche noi posteri di Gramsci? Direi per due aspetti. In primo luogo, Gramsci dice esplicitamente e ripetutamente che la rivoluzione passiva è riformismo, attuato in varie forme, ma sempre dall’alto. E dice che la rivoluzione passiva non può essere un programma, per il movimento operaio, per il movimento comunista o socialista, o quello che volete. Perché per Gramsci una vera forza di sinistra non deve esaurirsi nel cambiamento dall’alto, deve favorire il protagonismo delle masse, dei lavoratori, del popolo. Deve rendere protagoniste le masse. Questo è un primo elemento importantissimo.
Seconda questione, legata all’attualità: il governo attuale, il governo Meloni, sta tentando una “rivoluzione passiva”? No, a mio avviso. Non ha nulla di realmente riformistico, nemmeno nel senso intriso di repressione del fascismo storico.
Cosa hanno costoro di diverso (e in peggio) rispetto al fascismo storico? Sono profondamente e radicalmente liberisti. Sono per il libero mercato (nei modi distorti che sappiamo, tra l’altro). Sono per limitare al massimo l’intervento dello Stato, della collettività, in quasi tutti i settori. Sono contro ogni forma di aiuto ai più deboli, contro molte forme di welfare. Contro il reddito di cittadinanza. Ciò che accomuna tutte le destre oggi in Italia è la loro comune obbedienza ai dettami del liberismo e alla dittatura dell’impresa e del mercato!
“Non voglio disturbare le imprese, chi produce ricchezza”, ha detto molte volte la Meloni. Ecco perché vanno combattuti, questi fascisti o post-fascisti di oggi: perché mischiano nostalgie repressive proprie del fascismo storico, anche se non a quei livelli (non ne hanno la possibilità, neanche il bisogno, almeno oggi), e il credo liberista, sulla scia di quel neoliberismo che alla fine del ’900 distrusse lo Stato sociale e l’intervento statale in economia, che era nato negli anni Trenta-Quaranta, negli anni di Gramsci (e anche del fascismo), e che si è poi sviluppato nel secondo dopoguerra.
E la cui sconfitta ha causato i disastri economici che sono sotto i nostri occhi, e che sono evidenti a tutti almeno dal 2008 in avanti. Tra l’altro, va detto che nel forte ancoraggio al liberismo, destra ed estrema destra incontrano oggi anche buona parte della sinistra moderata.
Oggi alcuni fanno autocritica sul loro innamoramento del liberismo di fine millennio, ma purtroppo appaiono ormai lacrime di coccodrillo. Oggi questo è il nemico principale dunque: il liberismo, in tutte le sue forme. Che non è rivoluzione passiva, perché non è nemmeno riformismo sia pure dall’alto. Dobbiamo sconfiggere questa destra oggi, non meno del fascismo storico ieri. Per tornare a pensare la società come un insieme solidale dal quale nessun essere umano si debba sentire escluso o ai margini o debba mancare del lavoro e del reddito e dell’assistenza per vivere dignitosamente.
Note
1 Cfr. il suo scritto Gli «Arditi del popolo», in “L’Ordine Nuovo”, 15 luglio 1921, ora in Id., Socialismo e fascismo. L’Ordine Nuovo 1921-1922, Einaudi, Torino, 1966, pp. 541-542. E, per la ricostruzione dell’intera vicenda, Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. I: Da Bordiga a Gramsci, Einaudi, Torino, 1967, pp. 139-151.
2 Antonio Gramsci, Per un rinnovamento del partito socialista, in L’Ordine Nuovo, 8 maggio 1920, ora in Id., L’Ordine Nuovo 1919-1920, a cura di Valentino Gerratana e Antonio A. Santucci, Torino, Einaudi, 1987, p. 512.
3 A. Gramsci, Il popolo delle scimmie, in L’Ordine Nuovo, 2 gennaio 1921, ora in Id., Socialismo e fascismo, cit., pp. 9-12.
4 Ivi, p. 10.
5 Antonio Gramsci, Socialisti e fascisti, in “L’Ordine Nuovo”, 11 giugno 1921, ora in Id., Socialismo e fascismo, cit., p. 186.
6 Antonio Gramsci, Sovversivismo reazionario, in “L’Ordine Nuovo”, 22 giugno 1921, ora in Id., Socialismo e fascismo, cit., pp. 204 ss.
7 A. Gramsci, I due fascismi, in L’Ordine Nuovo, 25 agosto 1921, ora in Id., Socialismo e fascismo, cit., pp. 297 ss.
8 A. Gramsci, I due fascismi, cit., p. 299.
9 La situazione italiana e i compiti del Pci, tesi approvate al Terzo Congresso del Partito comunista italiano, in Antonio Gramsci, La costruzione del partito comunista 1923-1926, Einaudi, Torino 1971, p. 495.